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SCILLA E CARIDDI, LA LEGGENDA DELLO STRETTO DI MESSINA
Scritto da MadameBlatt
scritto da MadameBlatt
La piccola città costiera di Scilla, U Scigghiju, appena a nord di Reggio Calabria, sulla Costa Viola, oggi è una rinomata località turistica situata su un promontorio all’ingresso settentrionale dello Stretto di Messina.
Il suo nome Skýla, dal greco “cagna”, richiama un misterioso mostro marino, descritto da Omero nella sua opera “Odissea”, ma anche da Esiodo ed Ovidio.
Nel XIV libro delle ‘Metamorfosi di Ovidio’, Scilla era una ninfa di incredibile bellezza dai lunghi capelli corvini e gli occhi luminosi come stelle, la cui storia si intrecciò a quella di Glauco, un bellissimo pescatore della città di Antedone, in Beozia, dai lunghi capelli rossi, figlio di Poseidone.
Scilla abitava sulle sponde della Calabria, ma amava bagnarsi nelle acque cristalline di Messina.
Glauco era amato e corteggiato senza successo da molte sirene, finché un giorno, mangiando un’erba argentata cresciuta nei pressi di una spiaggia, il giovane si tramutò in un Tritone, diventando un semidio immortale del mare.
Al posto delle gambe ebbe una coda da sirena, le spalle diventarono sempre più larghe, le guance si ricoprirono di una peluria verde.
Un giorno, Glauco vide Scilla e se ne innamorò perdutamente ma la giovane, avendo paura di lui, lo respinse, nonostante i tentativi del semidio di sedurla, vantandosi della sua natura divina.
Continuando ad essere respinto, Glauco chiese aiuto alla maga Circe, dicendole di preparare una pozione magica che potesse fare bruciare Scilla d’amore verso di lui.
Ma Circe era innamorata di Glauco, e provò a dissuaderlo con delle parole:
“meglio sarebbe che tu vagheggiassi chi ti vuole,
chi ha gli stessi desideri ed è presa da uguale passione”.
La maga, quindi, si offrì a Glauco, il quale la rifiutò provocando la sua ira e il suo desiderio di vendetta.
Però, invece di vendicarsi sul semidio, diresse la sua ira verso l’innocente Scilla, che non aveva nessuna colpa.
Quindi, la maga preparò una pozione magica che versò nelle acque in cui Scilla nuotava, tramutandola in un mostro con le teste di sei cani attorno alla vita e con tre file di denti.
La fanciulla, per l’orrore che ebbe di sé, si nascose in una grotta sottomarina sulle sponde calabre, dove secondo la leggenda ancora vive.
Secondo Esiodo, un antico poeta greco del VII sec, Scilla era la figlia di Ecate, la quale era associata alla Luna, agli Inferi e, soprattutto, ai feroci segugi.
Invece Omero, la descrive come figlia di Crataide e del Dio del mare Forco, anche se potrebbe trattarsi di Tifone, Tritone o Tirreno, tutte figure legate al mare.
Successivamente, in altre narrazioni Scilla era una bellissima umana mortale, che aveva relazioni con Poseidone, Minosse re di Creta e il Dio del mare Glauco, fino a quando per gelosia venne trasformata dalla maga Circe, o dalla ninfa del mare Anfitrite, consorte di Poseidone, in un mostro.
La fanciulla venne colta di sorpresa nella sua piscina e, quando le erbe magiche furono gettate nelle acque, si trasformò nell’orrenda creatura.
Le zampe scomparvero e, al loro posto, comparvero terribili cani dai denti aguzzi che abbaiavano.
Queste bestie erano pronte a lacerare qualunque cosa fosse alla loro portata.
Scilla, la cui parte superiore era rimasta intatta, assistette con orrore alla sua trasformazione.
Così Scilla venne trasformata in un mostro con dodici zampe e sei teste che spuntavano da varie parti del corpo, ciascuna con tre feroci file di denti, così che il suo morso fosse decisamente peggiore della sua corazza.
I cani la trascinarono via, si fermarono solo quando arrivarono sulla costa italiana che domina la Sicilia, dove era destinata a rimanere, nascosta in una grotta, costretta a divorare i marinai che si avventuravano nello Stretto di Messina.
Abitando in una caverna in alto nelle scogliere dello stretto, Scilla attendeva che prede ignare, ovvero pesci, delfini e uomini, le passassero davanti e poi lanciava una delle sue teste, per trascinare la vittima nella sua tana, per schiacciarla e mangiarla a piacere.
“Nessuno poteva guardarla con gioia, nemmeno un dio se passava di lì. Ha dodici piedi, tutti penzolanti nell’aria, e sei lunghi colli magri, ognuno dei quali termina in una testa macabra con tripla fila di zanne, fitte e fitte, e cupamente minacciose di morte. Fino alla cintola è sprofondata nel fondo della caverna, ma le sue teste sporgono dal pauroso abisso, e così pesca dalla propria dimora, brancolando avidamente intorno alla roccia”.
-Odissea , 12:87-95-
La rupe su cui Scilla vive:
“La sua cima affilata… è ricoperta da nuvole nere che non scorrono mai via né lasciano il tempo sereno intorno alla cima, anche in estate o al tempo del raccolto. Nessun uomo sulla terra potrebbe salire in cima o anche solo mettervi piede, nemmeno se avesse venti mani e piedi per aiutarlo, perché la roccia è liscia come se fosse stata levigata. Ma a metà della rupe c’è una caverna oscura, rivolta a ovest e che scende verso Erebus… Neppure un forte giovane arciere potrebbe raggiungere l’imboccatura spalancata della caverna con una freccia scagliata da una nave sottostante… Nessun equipaggio può vantarsi di aver mai navigato la loro nave oltre Scilla indenne … Scilla non è nata per la morte: è una cosa del terrore, intrattabile, feroce e impossibile da combattere”.
-Odissea, 12:75-120-
Nel V secolo a.C.,Scilla apparve sulle monete di Cuma e di Acragas (l’odierna Agrigento) e su numerosi vasi di ceramica a figure rosse del V e IV secolo a.C.,soprattutto in quelli della ceramica attica e dell’Italia meridionale a figure rosse, ritratta come una specie di sirena con teste di cane che escono dalla sua vita.
Fu così che Scilla si ritrovò per caso con Cariddi, sua compagna di continue stragi di marinai.
Le due condividono un triste destino ed una storia.
Cariddi era una ninfa figlia di Poseidone e Gea, bella e graziosa, ed era famosa per possedere una smisurata ingordigia, golosa ed insaziabile.
La ninfa era però anche incline ai furti e così, un giorno, rubò a Ercole una mandria di buoi, che lui aveva precedentemente e “a fatica” rubato a Gerione, per compiere la sua decima fatica.
Ercole, figlio di Zeus, si adirò con lei e, per vendicarsi. invocò suo padre il quale, per punirla del suo gesto, le scagliò addosso un fulmine e la gettò nelle acque dello Stretto di Messina.
Una volta nell’abisso, Cariddi fu trasformata in un mostro simile a una lampara, che per tre volte al giorno ingurgitava acqua salata e altrettante volte la rigettava, creando vortici e forti correnti, capaci di affondare qualsiasi nave.
Cariddi prese come residenza una grotta, di fronte a quella di Scilla, compagna delle sue continue stragi di marinai e, mentre quest’ultima schiacciava nelle sue fauci gli incauti uomini, Cariddi li ingoiava e li respingeva con un possente ruggito.
Chiunque attraversava lo Stretto, era atteso da una tragica fine.
Un’altra versione racconta che, invece, la ninfa fosse una creatura libidinosa, oppure che, molto tempo fa nacque una bellissima naiade dal grande Dio del mare, Poseidone.
Il suo nome era Cariddi ed amava e ammirava suo padre con tutto il cuore.
E così, quando Poseidone entrò in guerra con il grande Dio Zeus e scatenò grandi tempeste, Cariddi cavalcò le maree, portando l’acqua sulle spiagge.
In questo modo, il mare inghiottì villaggi, campi, foreste e città, rivendicandoli per Poseidone.
Dopo un po’ di tempo, Cariddi aveva conquistato così tante terre per il regno di suo padre, che Zeus si arrabbiò con lei.
Giurò di fermarla per sempre e, per fare questo, la trasformò in un mostro dalla grande bocca spalancata, mentre le sue braccia e le sue gambe divennero pinne.
Da quel momento, Cariddi fu costretta a vivere in una grotta sotto un fico solitario su un’isoletta nello Stretto di Messina.
Tra coloro che si scontrarono con i mostri c’era il grande Odisseo (Ulisse).
Nell’Odissea di Omero, le acque vorticose di Cariddi fecero naufragare la nave dell’eroe Ulisse, mentre tornava a casa dalla guerra di Troia.
Appena sopravvissuta alle sirene, la nave, nel tentativo di evitare Cariddi, si avvicinò un po’ troppo alla tana di Scilla.
I sei migliori membri dell’equipaggio di Ulisse furono afferrati dalle sei teste di Scilla, mentre attraversavano le acque turbolente dello stretto.
La nave oltrepassò le vittime ancora urlanti e riuscì a superare il passaggio, ma la fuga fu solo temporanea.
Sbarcati in Sicilia, gli uomini di Ulisse ignorarono le rigide tradizioni locali e cucinarono del bestiame sacro, che apparteneva a Iperione.
Come punizione, Zeus mandò quindi una tempesta e uno dei suoi fulmini, che fracassò l’albero, uccise il timoniere mentre cadeva.
La nave fece naufragio, l’equipaggio annegò e solo Ulisse sopravvisse, legando insieme pezzi di relitti.
Però, arrivò un’altra tempesta e trascinò l’eroe a Cariddi, dove fu sballottato, finché riuscì a scappare aggrappandosi al ramo sporgente di un fico selvatico.
Quindi, egli programmò la sua fuga, aspettando che le acque lo vomitassero fuori e lo portassero al sicuro insieme al relitto della sua nave.
Finalmente, dopo nove giorni alla deriva, la fortuna dell’eroe era cambiata!
Questo mito è sicuramente l’interpretazione antropomorfica delle due correnti che si incontrano nello Stretto di Messina, prodotte dal Mar Ionio e dal Mar Tirreno, rispettivamente una più calda e l’altra più fredda.
Questo incontro provoca il fenomeno dei cosiddetti “Gorghi dello stretto”, che altro non sono che gorghi nell’acqua che ricordano le tre bocche di Cariddi.
La combinazione di Scilla e Cariddi ha dato origine a un vecchio detto di “trovarsi tra Scilla e Cariddi“, un detto che si è evoluto nell’idioma più popolare, “tra l’incudine e il martello“, entrambi equivalenti a pericoli in qualsiasi direzione vengano affrontati .
Questa è una meravigliosa leggenda su un vero e proprio pericolo, che ci hanno tramandato navigatori e marinai un tempo terrorizzati…
Ancora oggi i mostri marini rimangono un terrore per tutti i marinai di passaggio e le fonti di molti racconti.
Certo, ora siamo più tranquilli, ma i veri uomini e le vere donne di mare comprendono il pericolo che si nasconde sotto l’acqua, lontano dalla vista, ma mai veramente lontano dalla mente.
Fate attenzione…
**Specie di Drimia che prende il nome dalla leggenda
Drimia è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Asparagacee, spesso confuso col genere Scilla o con l’Asfodelo.
Questo genere comprende un centinaio di specie, di cui una molto conosciuta è la Drimia maritima (o Urginea maritima, o Charybdis pancration), chiamata comunemente anche Cipolla di mare, Scilla marittima, Squilla, Carpentaria, Sea squill, Meerzwiebel, Crusader Spear, Scille maritime, Escilla blanca.
‘Drimia’ deriva dal greco e significa “aspro, amaro”, in riferimento al sapore del suo bulbo.
‘Scilla’, dal greco ‘sculleum’, significa ‘straziare, tormentare’, alludendo alle proprietà venefiche del bulbo.
‘Urginea’, per il territorio della tribù araba dei Beni Urgin, presso Bonav in Algeria, dove la pianta cresce spontanea.
‘Charybdis’ è il nome greco di Cariddi, uno dei mitici mostri a difesa dello stretto di Messina; mentre ‘pancration’ deriva sempre dal greco e significa “supero tutto, vinco tutto”, probabilmente per la capacità della pianta di resistere alle condizioni estreme dell’habitat.
Pianta caratteristica del bacino del Mediterraneo, cresce spontanea soprattutto nelle vicinanze delle coste occidentali della penisola italiana, su spiagge, garighe, in suoli sassosi e rocciosi.
E’ presente in quasi tutte le regioni dell’Italia centrale e meridionale, in Sardegna, tranne che in Toscana, nelle Marche e in Molise.
La Drimia marittima è caratterizzata da un grosso bulbo, che può superare i 3-4 kg di peso, da foglie strette e lineari, e dallo scapo fiorale alto fino a 1 m, con fiori bianchi o rosa in grappolo.
I fiori sono disposti stretti tutto lungo il grappolo e sono molto profumati.
Il bulbo può raggiungere anche i 30 cm di diametro, ha odore neutro, ed il suo sapore è acre ed amaro.
Il frutto è costituito da una capsula derivata dall’ingrossamento dell’ovario che, col vento, si apre a maturità liberando, i numerosi semi alati.
Infatti, i semi sono dotati di un’ampia ala di colore nero lucido, di forma vagamente ellittica che, se liberati dalla sottile membrana che li ricopre, si presentano fusiformi e color crema.
E’ una pianta ingegnosa in quanto, poiché da un grande bulbo, ha a disposizione una riserva di nutrienti ed acqua.
All’inizio della primavera produce foglie, che fungono come pannelli solari, assorbendo l’energia luminosa, la quale provoca una reazione chimica, nota come fotosintesi.
Ciò determina una reazione chimica, che combina acqua e anidride carbonica insieme ai minerali assorbiti dal suolo attraverso le radici, per produrre materia organica.
All’inizio dell’estate, quando il terreno è completamente secco, le foglie avvizziscono e muoiono, ma la pianta sopravvive a questo periodo difficile con il suo bulbo sotterraneo.
A fine estate, così parte della pianta utilizzerà parte del cibo immagazzinato nel bulbo, per avere la forza di produrre fiori e semi.
Nota dall’antichità con il nome Scilla, con tale nome viene tuttora frequentemente richiesta, soprattutto in erboristeria.
La Drimia marittima è una droga molto antica, conosciuta dagli Egiziani, dai Greci e dagli Arabi.
In Egitto, anticamente questa pianta era consacrata al Dio Tifone.
Le mummie delle donne egiziane avevano spesso la Drimia marittima in una mano, probabilmente come emblema della generazione.
Gli Egiziani piantavano la Scilla nei boschetti e l’appendevano nelle loro case per preservarle dagli spiriti maligni.
In Arcadia, alla festa del Dio Pan, la statua della divinità era decorata con Drimie.
Dioscoride, Plinio e Galeno conoscevano i suoi effetti cardiotonici e diuretici.
La Drimia era conosciuta fin dai tempi di Ippocrate, Galeno, Teofrasto e Plinio, per le sue proprietà medicinali diuretiche.
Nel XVIII secolo, era famosa per le sue proprietà cardiotoniche simili a quelle della Digitale, dalla quale fu poi soppiantata un secolo dopo.
La Drimia era utilizzata anche per il trattamento della tosse e dell’artrite, come diuretico ed emetico.
La pianta veniva consumata sotto forma di tisana per la cura di bronchiti, asma bronchiale, tosse, idropisia ed insufficienza cardiaca congestizia.
Oppure, si applicava esternamente al cuoio capelluto contro la forfora grassa e la seborrea.
ATTENZIONE: PIANTA CONTENENTE ALCALOIDI MOLTO TOSSICI, MORTALI.
Durante la prima Guerra mondiale, questa pianta ha contribuito ad incrementare la mortalità tra i prigionieri austro-ungarici giunti sull’Isola dell’Asinara.
Essi, per la penuria di cibo, utilizzavano i bulbi, sia crudi che cotti, con conseguenze dannosissime per la loro salute, peraltro già precaria.
Nella medicina popolare i bulbi sono utilizzati anche per le loro proprietà repellenti e come veleno per topi i quali, attirati dall’odore aromatico, affondano i denti e rapidamente giungono alla morte.
In particolare, la varietà a bulbo rosso contiene lo “scilliroside”, appunto un potente topicida.
Anticamente, le puerpere mettevano un bulbo di Scilla sotto il letto, per evitare di perdere il latte.
Inoltre, nel Medioevo europeo esisteva il “Giudizio di Dio”, richiesto in vertenze giuridiche che non si potevano, o non si volevano, regolare con mezzi umani ed ufficialmente riconosciuto dalle varie legislazioni medievali.
Esso consisteva in determinate prove, il cui esito si concepiva come diretta manifestazione della “volontà divina” e prendeva il nome di Ordalia.
Uno di questi metodi, praticato fino alla prima metà del ‘900, consisteva nel bagnare gli occhi dell’imputato con acqua in cui era stata mescolata la Drimia: in caso di colpevolezza o di spergiuro, gli avrebbe procurato la cecità.
Israele ha dedicato un francobollo alla Drimia marittima.
Questa pianta, considerata magica, è stata usata in magia fin dai tempi classici, durante i quali veniva coltivata negli orti, a protezione dal malocchio.
Se vuoi proteggere la tua casa, appendi una Scilla di mare sopra la finestra.
Se vuoi aumentare il tuo denaro, metti un bulbo di Drimia marittima in un barattolo, o in una scatola, ed aggiungi monete d’argento.
Ma, per tale scopo, nel Voodoo sembra che siano più efficaci catenine ed oggettini in argento.
Invece, se ritieni di essere stato maledetto, porta con te una Scilla e spezzerà l’incantesimo.
La Drimia marittima è “una pianta per la purificazione” e dovrebbe essere utilizzata l’ultimo giorno del mese lunare.
Questo uso viene spiegato da Teofrasto, il quale dice che questa era una pianta, che combatteva naturalmente la decomposizione e aveva il potere di mantenere tutto puro dall’attacco dei parassiti.
“ Skilla è tenace della vita (…). È anche in grado di conservare altre cose che sono immagazzinate, per esempio il melograno, se il picciolo del frutto è incastonato in esso” ( Hist. Pl . 7.13.4)
Questa pianta veniva usata anche nei rituali per rimuovere l’impotenza maschile, o l’impurità che la causava; ma era anche in quelli per curare la pazzia, che doveva essere espulsa dal corpo anche attraverso la purificazione.
Inoltre, la Drimia serviva a picchiare sui genitali un ‘pharmakos’, ovvero una persona (a volte capro espiatorio), che si era macchiato di un atto sessuale, e poi veniva cacciato dalla città, insieme ai suoi misfatti.
Nel linguaggio dei fiori, la Drimia marittima significa: Forte moderazione, autocontrollo, ed è il simbolo di persone di bell’aspetto che nascondono, al loro interno, un nucleo velenoso e pericoloso per chi le circonda, in grado di covare risentimento a lungo e di ferire al momento più opportuno.
PIANETA: Luna
ELEMENTO: Aria
SEGNO ZODIACALE ASSOCIATO: Bilancia
CHAKRA: 5, Vishuddha (C. della Gola)
Molti di noi sono cresciuti con le Sirene nei libri, nei film e persino come giocattoli.
Ci meravigliamo della loro bellezza, di come possano esplorare le meraviglie dell’Oceano e farci sentire magici.
Ma chi sono e da dove vengono le Sirene?
La verità sulle esse è molto più complessa di quanto immaginiamo.
La Sirena, nella mitologia greca, era una creatura ibrida con il corpo di uccello e la testa di donna, a volte con braccia umane, che attirava i marinai con la dolcezza del suo canto.
Infatti, le Sirene avevano belle voci melodiose ed erano suonatrici di lira.
Così meraviglioso era il loro talento musicale, che si diceva che potessero persino calmare i venti.
Tradizionalmente, le Sirene erano figlie del Dio fluviale Acheloo e di una Musa, ma altre fonti affermano che la madre delle Sirene era in realtà una delle Pleiadi, Sterope.
In ogni caso, la maggior parte concorda sul fatto che vivessero su tre piccole isole rocciose, chiamate dai Romani “Sirenum scopuli”.
Si diceva, che la dimora delle Sirene fosse uno spettacolo orribile da vedere: un grande mucchio di ossa giaceva tutt’intorno a loro, con la carne delle vittime ancora in decomposizione.
L’aspetto più famoso delle Sirene nella mitologia classica si trova nell’Odissea di Omero; tuttavia, le ritroviamo anche in altri miti.
Secondo Omero, c’erano due Sirene su un’isola nel mare occidentale tra Aeaea e le rocce di Scilla.
Successivamente divennero tre e vivevano sulla costa occidentale dell’Italia, vicino Napoli.
Nell’Odissea di Omero, l’eroe greco Odisseo (Ulisse), consigliato dalla maga Circe, scampò al pericolo del loro canto, tappando le orecchie del suo equipaggio con la cera, in modo che fossero sordi alle Sirene.
Lo stesso Odisseo voleva ascoltare la loro canzone, ma si legò all’albero maestro della nave, in modo da non andare fuori dalla sua rotta.