INFERI
Negromanzia deriva dal greco “nekromantéia” = “predire con i morti”, in seguito evolvendosi in Necromanzia o anche Psicomanzia (dal greco psycho= anima).
Essa è una pratica di Magia, spesso definita nera, che coinvolge la comunicazione con il defunto, per evocare il suo spirito sotto forma di apparizione, visione, a scopo di divinazione, per predire eventi futuri, scoprire conoscenze nascoste, riportare in vita qualcuno o usare i morti come un’arma.
A volte Negromanzia è stata anche indicata come “Magia della Morte“, termine che può anche essere usato a volte in un senso più generale, per riferirsi quindi alla Magia nera o Stregoneria.
Ma prima di continuare, tengo a precisare che la Negromanzia è separata con una linea sottile dalla Demonologia e dall’Evocazione.
La Negromanzia è comunicare con gli spiriti dei morti, NON con gli spiriti maligni dell’Evocazione e della Demonologia.
La Negromanzia era molto diffusa nel mondo antico e la sua pratica esiste fin dalla Preistoria, passando per gli Assiri, i Babilonesi, gli Egizi, i Greci, i Romani e gli Etruschi.
Inizialmente era correlata allo Sciamanesimo e, molto probabilmente, si è evoluta da esso, visto che richiama spiriti come le anime degli antenati.
I negromanti classici si rivolgevano ai morti in “un misto di squittii acuti e bassi ronzii”, paragonabili ai mormorii udibili in stato di trance degli sciamani.
Probabilmente, potremmo considerare l’Odissea di Omero, come il più antico resoconto letterario sulla Negromanzia, in quanto narra della potente maga Circe, che inviò Ulisse negli Inferi, per ottenere informazioni sul suo imminente viaggio verso casa, risvegliando gli spiriti dei morti, attraverso l’uso di incantesimi che la stessa maga gli aveva insegnato.
In particolare, Ulisse voleva invocare ed interrogare lo spettro del veggente Tiresia, affinché gli indicasse la strada del ritorno.
Infatti, benché morto e residente nell’Ade, Tiresia conservava, a differenza degli altri spettri, una propria identità e le proprie capacità mentali.
Nell’Odissea ci sono molti riferimenti descrittivi dei rituali negromantici: i riti sono eseguiti intorno a una fossa con il fuoco, durante le ore notturne e Ulisse segue una ricetta specifica, che include il sangue di animali sacrificali, per preparare una libagione per i fantasmi, da bere mentre recita preghiere, sia per i fantasmi che per gli Dei degli inferi.
A quei tempi, i “Necromanteion”, o “Oracoli dei Morti”, erano templi specificamente dedicati alla Negromanzia.
Erano luoghi in cui i fedeli venivano a parlare con i loro antenati defunti, credendo che i luoghi sacri fossero la porta dell’Ade, inteso sia come divinità che il luogo dei morti.
Probabilmente, il Necromanteion di Ephyra era il più importante.
Nell’Odissea di Omero, il Necromanteion è anche descritto come l’ingresso attraverso il quale Ulisse iniziò una “katabasis”, ovvero la “discesa agli Inferi”.
Secondo questa tradizione, dopo una cerimonia di purificazione e il sacrificio di pecore, un antico negromante greco si avventurava nei corridoi sotterranei, lasciando offerte mentre passava attraverso una serie di cancelli di ferro.
Poi, nel sancta sanctorum, poneva una serie di domande ai morti.
Anche nel culto scandinavo degli antenati, era comune comunicare con i morti per scopi profetici.
Nel poema eddico ‘Baldrs Draumar’ (composizione mitologica presente nell’Edda Poetica, che ha come soggetto la morte del Dio Baldr) il Dio Odino canta “incantesimi cadavere”, per evocare un’anima disincarnata.
Il cadavere della veggente è quindi costretto a parlargli e rivelargli la sua conoscenza della tomba.
Ci sono molti esempi nella letteratura norrena della divinità principale che invocano i canti delle anime, oltre a usare “rune vocali” per “sciogliere la lingua” di una persona morta.
Gli antichi Israeliti disprezzavano gli “evocatori di ossa”, credendo che i corpi dovessero essere sepolti e poi rimanere indisturbati da quel momento in poi.
La Legge di Mosè prescrive persino la pena di morte ai praticanti di Negromanzia, che potrebbero interferire con la possibilità della resurrezione dei morti profetizzata nell’antichità.
Nell’Europa medievale, si arrivò a credere che la pratica della Negromanzia non fosse altro che l’evocazione di demoni, che assumevano l’aspetto di anime pertanto, non facendo assolutamente alcuna distinzione tra essa e la Demonologia fu condannata dalla Chiesa.
Nonostante ciò, i negromanti insistevano per eseguire i loro riti proibiti, e i loro rituali iniziarono a diventare straordinariamente elaborati.
Alla fine, emersero due diversi tipi di Negromanzia: quella che resuscitava un cadavere e quella che semplicemente evocava uno spirito (quest’ultimo tipo divenne molto più comune).
Nella Spagna medievale, si effettuavano persino lezioni di Negromanzia nelle catacombe e nelle caverne sotto i cimiteri.
In generale, i praticanti magici, i negromanti, erano abili maghi che usavano un cerchio consacrato in un luogo desolato, solitamente un cimitero, per proteggersi dalla rabbia degli spiriti dei morti.
In caso di morte prematura o violenta, si pensava che il cadavere conservasse una certa dose di vitalità inutilizzata, e così l’uso di parti di cadavere come ingredienti di incantesimi divenne un’importante tecnica di Stregoneria.
Molti negromanti si circondano di rituali particolari, che spesso includeva l’indossare gli abiti dei defunti o adagiarsi nelle loro bare.
Essi facevano anche voto di castità, perché il sesso rappresentava l’opposto della morte, oppure si costringevano a restrizioni dietetiche, consumando spesso solo cibi simboleggianti assenza di vita.
Ad alcuni negromanti chiamati ‘creature di Ecate’, era proibito mangiare carne diversa da quella di cane e, addirittura, alcuni di loro prendeva parte alla mutilazione ed alla consumazione di parti di cadaveri…
Insomma, questa Negromanzia particolarmente popolare nel Medioevo e nel Rinascimento, con le sue tentazioni e i suoi pericoli, fu vividamente descritta anche nelle storie del ‘Faust’ di Christopher Marlowe o di Johann Wolfgang von Goethe.
Gli incantesimi negromantici erano principalmente incantesimi illusori o di utilità, a volte sperimentazioni magiche.
I negromanti spesso preferivano evocare i defunti di recente, basandosi sulla teoria filosofica, che i legami del deceduto con il mondo fisico erano più forti e le loro parole erano pronunciate più chiaramente, quanto più ci si avvicinava al momento della loro morte.
Secondo una credenza, infatti, le anime potevano essere trovate a bighellonare intorno alla loro tomba, fino a un anno dopo la sepoltura sopra o sotto terra.
I negromanti cercavano di lavorare principalmente al buio, molto tardi la notte o la mattina presto, preferibilmente durante la Luna Nuova, dopo la mezzanotte, di solito tra l’1 e le 3 del mattino, che era il momento migliore per divinare con i morti.
Inoltre, l’ideale era una notte tempestosa di pioggia, vento e temporali, in quanto era la condizione migliore affinché i morti fossero più facilmente rivelabili.
Molto gettonata era la notte di Halloween, per esempio.
Altre credenze riguardavano la convinzione che le anime disincarnate non fossero più vincolate da limitazioni mortali, e potessero quindi vedere cose non visibili ai viventi.
Oppure che i defunti potessero essere costretti a rivelare i loro segreti esoterici, che riuscissero a vedere la posizione di un tesoro nascosto e che conoscessero le vie degli spiriti e come comunicare con loro.
I negromanti usavano spesso simboli, segni e sigilli speciali nei loro lavori, dando vita a degli incantesimi, nei quali inserivano anche il nome del defunto.
La Negromanzia comportava, indipendentemente da come veniva eseguita che, quando si riusciva a far apparire uno spirito, questi veniva costretto all’obbedienza, ed era costretto a cooperare con il negromante, facendo un patto.
L’accordo più utilizzato era di assicurare ai morti, che li avrebbero lasciati indisturbati in futuro, in quanto avrebbero bruciato il loro corpo o lo avrebbero seppellito nella calce viva.
In questo modo, il defunto sapeva che il suo cadavere sarebbe scomparso, quindi la sua anima non avrebbe mai più potuto essere richiamata.
Ma fare il negromante era un mestiere pericoloso, in quanto si correvano grandi rischi, quando si evocavano ‘poltergeist’ o si veniva posseduti.
Infatti, la maggior parte degli spiriti non vorrebbe essere richiamato ma, quando lo fa, alcune delle personalità più demoniache non vogliono tornare indietro.
Al di là di ogni descrizione e racconto, è risaputo che, finché le persone continueranno a morire, ci saranno sempre coloro che cercheranno di entrare in contatto con i defunti.
Quindi (chi lo sa?), in un lontano futuro, i negromanti con l’aiuto della tecnologia, potranno diventare potentissimi, facendo cose proibite con dispositivi finora inconcepibili, forse dannando le proprie anime o quelle delle persone che evocheranno.
Magari saranno in grado di utilizzare supercomputer quantistici, per comunicare con i morti o accedere all’iperspazio, aprendo così un portale con il Mondo degli spiriti.
Ai posteri l’ardua sentenza…
“Attenzione ai venti forti che viaggiano a velocità allarmanti per tutta la notte. Con loro vengono i cani di Zeus per punire i malfattori.
Più veloci dei venti più spaventosi e più veloci dei più temuti uccelli da preda, le Arpie cercano di punire coloro che hanno offeso i loro vicini o gli dei stessi.
Se vedi il daimone alato che corre verso di te è già troppo tardi.
È venuto per torturarti prima di inviarti al tuo destino finale: il Tartaro.”
Le Arpie, nella mitologia greco-latina, sono mostri mitici con volto di donna, corpo di uccello e membra di cane, probabilmente spiriti del vento.
La presenza delle Arpie come figure tombali, tuttavia, fa sì che fossero concepite anche come fantasmi.
Sulla loro figura ci sono versioni contrastanti.
Si pensa che in origine fossero spiriti del vento che, nel tempo, si sono trasformati nelle temibili creature che conosciamo oggi.
Ci sono alcune teorie, che avrebbero dovuto personificare la natura distruttiva del vento.
Altri, tuttavia, le vedono come una forza creata per mostrare il potere degli dei – in particolare Zeus – da cui si pensava prendessero ordini.
Il loro nome significa “ladre” ed è quindi molto appropriato per gli atti che compivano.
Nell’Odissea, erano venti che portavano via la gente.
In altre storie, sono collegate ai poteri degli Inferi.
Indipendentemente dalla loro origine, le Arpie erano note per ispirare paura e terrore.
Ci sono almeno quattro diverse Arpie, che sono state nominate in letteratura anche se, in altre leggende, è vero che si parla anche di sette sorelle.
I loro nomi erano: Podarge (La più veloce), Aello (Rapida come il turbine), Ocipite (Colei che scorre veloce), Tiella (Tempesta di vento), Celeno (Oscurità), Ocitoe (Colei che agisce), Alopo (Protetta).
Esse vivevano nel sottosuolo: grotte, caverne, anfratti, erano orride a vedersi e anche sgradevoli all’olfatto: il loro era l’odore della Morte, di cui erano la personificazione.
Le Arpie furono inviate da Zeus, per tormentare l’indovino Fineo, colpevole di aver ospitato Enea e aver rivelato i segreti degli Dei.
Ogni volta che un piatto di cibo veniva messo davanti all’indovino, un’Arpia si precipitava per portarglielo via, sporcando gli avanzi lasciati con una sostanza puzzolente.
Anni dopo, Fineo fu salvato dal suo destino da Giasone, gli Argonauti e gli alati Boreadi, che scacciarono le Arpie.
I Boreadi erano fratelli gemelli alati di nome Calaide e Zete, figli di Borea e Orizia.
La Dea Iride ordinò che tornassero indietro e non danneggiassero gli spiriti del vento, così i “cani del grande Zeus”, le Arpie, fuggirono nella loro caverna nella Creta minoica, lasciando le Isole chiamate Strofadi.
Le Arpie, quindi erano conosciute, anche come i “segugi di Zeus”, inviate dal Dio per strappare via persone e cose dalla Terra.
Infatti ad esse spesso venivano attribuite improvvise e misteriose sparizioni.
Secondo Esiodo, le Arpie erano le adorabili figlie di Taumante ed Elettra, fanciulle alate e bionde, che superavano i venti e gli uccelli nella rapidità del loro volo.
Le ceramiche greche, infatti, raffiguravano le Arpie come belle donne con le ali.
Ma poi, al tempo di Eschilo, sono descritte come brutte creature con le ali, e gli scrittori successivi portano le loro nozioni sulle Arpie, rappresentandole come mostri disgustosi, crudeli e terrificanti, oltre che famelici.
Si è anche scritto che fossero cugine delle Gorgoni, tre sorelle con i capelli fatti di orribili serpenti velenosi e uno sguardo che pietrificava. Medusa è la più famosa.
Secondo la storia delle figlie di Pandareo, gli Dei lo uccisero con sua moglie, dopo che il re aveva rubato un cane di bronzo a Zeus.
Le sue figlie, Cleodora e Merope, furono risparmiate e cresciute da molte delle Dee greche sul Monte Olimpo, in particolare da Afrodite.
Quando le ragazze raggiunsero l’età da marito, Afrodite andò a chiedere il permesso a Zeus per i matrimoni e, mentre lei era via, arrivarono le Arpie e rapirono le fanciulle, per farle diventare serve delle Furie.
Le Arpie, come molti personaggi della mitologia greca, si sono evolute nel tempo e in diversi racconti, iniziando come spiriti del vento poi personificati come donna alata e infine nelle creature mostruose che più riconosciamo oggi.
Le Arpie sono rimaste vivide bestie mitiche per tutto il Medioevo infatti, nell’Inferno di Dante, esse infestano con le torture un bosco nel settimo anello dell’Inferno, dove i suicidi hanno la loro punizione.
In ‘Molto rumore per nulla’ di Shakespeare, il termine Arpia è usato metaforicamente, per riferirsi a una donna cattiva o fastidiosa e, sebbene non sia molto usato nel mondo moderno, si comprende che questo è ciò che il termine descrive attualmente.
In alcuni ambiti, tuttavia, le Arpie vengono anche considerate ”psicopompi”, guide per le anime destinate all’Aldilà, cosa che viene evidenziata dalla loro raffigurazione su alcune tombe.
In almeno un caso le Arpie vengono viste però anche come portatrici di vita.
Una di esse infatti, si presume Celeno, fecondata dal vento dell’ovest Zefiro, è la madre di Balio e Xanto, i cavalli dell’eroe Achille.
Da questo quadro generale oggi, per antonomasia, l’Arpia è una donna cattiva, avida, avara, forse anche brutta, che spesso pare innocua e che invece è capace di fare del male crudelmente.
All’apparenza è amichevole ed accomodante ma, in realtà, attende un momento di difficoltà, per cercare di affondarti.
Chi di voi non ne ha conosciuta almeno una, nella sua vita?
IL REGNO DI ADE
Ade era il mondo degli Inferi, la casa del Dio omonimo e dell’oltretomba.
Infatti, in greco antico, Hádēs identifica il regno delle anime greche e romane (chiamato anche Orco o Averno).
Nella tradizione greca, uno degli ingressi all’Ade si trovava nel paese dei Cimmeri, che si trovava al confine crepuscolare dell’Oceano, regione remota in cui Ulisse dovette recarsi per discendere all’Ade e incontrare l’ombra dell’indovino Tiresia.
Nella mitologia romana, invece, uno degli ingressi infernali si trovava vicino al lago dell’Averno, divenuto poi il nome del regno infernale stesso, dal quale Enea discese insieme alla Sibilla cumana.
Per accedervi, bisognava superare prima Cerbero, poi attraversare l’Acheronte pagando un obolo al terribile traghettatore Caronte e raggiungere i tre giudici Minosse, Eaco e Radamanto, i quali emettevano il loro verdetto.
Zeus, dopo la sconfitta del padre Crono e dopo avere precipitato i Titani nel Tartaro, nominò dio degli Inferi suo fratello Ade.
L’Ade accoglieva le anime di tutti i defunti, tranne dei morti rimasti insepolti.
L’Ade, quindi, era un luogo tenebroso situato all’interno della Terra, temuto persino dagli Dei dell’Olimpo.
Secondo Esiodo, primissimo tra tutti nacque il Caos, poi la Terra (Gea), il Tartaro (luogo di punizione delle anime malvagie) ed Eros (l’amore). Da Caos nacquero Erebo e la nera Notte.
Tutti i morti, fossero stati in vita buoni o malvagi, giungevano nell’Ade attraverso una qualsiasi voragine aperta nel terreno.
L’Ade comunicava con l’esterno tramite tutti quei luoghi della superficie terrestre, che emanavano vapori sulfurei, ribollivano di lava o si spalancavano in tetre voragini.
Raramente, anche i vivi potevano accedere al Regno dei Morti, tra cui Ulisse, Enea, Ercole, Orfeo, Teseo, Pirotoo.
Si racconta che l’entrata era situata nella più remota parte occidentale, dove non giungevano i raggi del sole.
In Sicilia, si trovava sul monte Etna; nel Peloponneso a Capo Tenaro; ad Atene nelle caverne di Colono; nella costa ionica della Grecia ad Ammoudia.
Ma si trovavano anche presso Cuma, in Campania, nelle vicinanze del lago Averno, formato dal cratere di un vulcano profondo, circondato da rupi e pieno di esalazioni mefitiche.
Secondo l’etimologia, Averno vuol dire “senza uccelli” ed effettivamente gli uccelli non vi potevano vivere a causa delle esalazioni.
I Greci, che da tempo popolavano le colonie campane, non accettando come dimora dei morti, una terra d’origine troppo lontana dalla baia di Ammoudia, scelsero un luogo più vicino, i Campi Flegrei.
Nell’Ade si riversavano principalmente cinque fiumi ed una palude: Stige, Acheronte, Cocito, Flegetonte, Lete e palude Acherusiade.
Lo Stige, fiume dell’odio. Secondo Platone è una palude di colore blu cupo, formata dal fiume Stigia.
Stige è considerata essa stessa una terribile divinità figlia della Notte e di Erebo.
L’ acqua dello Stige ha proprietà magiche e la Nereide Teti avrebbe immerso il figlio Achille per renderlo invulnerabile.
Se gli Dei non rispettano un giuramento fatto sull’acqua dello Stige, subiscono castighi terribili, giacendo per un anno senza respiro, avvolti nel torpore e non possono avvicinarsi al nettare e all’ambrosia, oltre a non potersi avvicinare agli altri Dei per nove anni.
L’ Acheronte, fiume del dolore o dei guai, è descritto come il fiume principale che circonda l’Ade ed è situato subito dopo l’ingresso. La sua riva è sempre colma della infinita torma dei morti, in attesa di Caronte, il traghettatore.
Questi è un vecchio di orribile squallore, dagli occhi fiammeggianti come brace e dalle membra muscolose. Per traghettare le anime dei morti sull’altra riva, si serve di una grossa barca, vecchia e malandata. Trasporta solo i morti che possono pagarlo con l’obolo (antica moneta greca) che i parenti pongono in bocca del defunto prima degli onori funebri .
Gli altri devono aspettare 100 anni (secondo alcuni, per l’eternità), in una lunga attesa che è per loro causa di indicibile tormento anche se sanno che, al di là del fiume, li attende una pena terribile ed eterna.
Il Cocito, fiume dei lamenti o del pianto, affluente dell’Acheronte e ramo dello Stige.
In esso sono immersi gli omicidi.
Il Cocito acquista una corrente violenta a partire dalla palude Stige, si inabissa e scorre a spirale, in senso contrario al Flegetonte, fino a toccare, dalla parte opposta, le sponde della palude acherusiade.
Dopo aver compiuto un largo giro, si getta nel Tartaro dalla parte opposta al Flegetonte.
Secondo Virgilio, il Cocito è una palude stagnante di fango nero e canne deformi invece, per Dante, è la confluenza di tutti i fiumi infernali ed è ghiacciato nell’ultimo girone dei traditori.
Il Flegetonte, fiume del fuoco, circonda il Tartaro e, ogni tanto, lo rischiara con le sue vampe di fuoco. Il fiume si unisce al Cocito nel formare l’Acheronte.
Secondo Platone, invece, si riversa in una grande pianura arsa da fuoco violento e forma una palude più grande del mare, tutta ribollente d’acqua e di fango; da qui scorre circolarmente, torbido e fangoso e, sempre sotto terra, volge a spirale il suo corso fino a giungere alle estreme rive della palude acherusiade, ma senza mescolare le sue acque.
Dopo molti altri giri sotterranei, si getta in un punto del Tartaro che è più in basso. Il Flegetonte riversa sulla terra torrenti di lava, ovunque trovi uno sbocco. Si immagina che in quel fiume si punissero i violenti.
Il Lete, fiume dell’oblio, attraversa l’Elisio; chi beve o si immerge nella sua acqua, perde la memoria della sua vita passata e può quindi reincarnarsi in un altro corpo.
In un’altra versione, non c’è il Lete, ma due cipressi bianchi vicino cui sgorgano due fontane: quella dell’Oblio e quella della Memoria. Le acque della prima cancellano il ricordo della vita passata, quelle della seconda rinnovano la memoria delle cose amate.
-PRATO DEGLI ASFODELI-
La palude Acherusiade è la palude principale situata all’ingresso dell’Ade. E’ formata dalla acque dell’Acheronte, del Flegentonte e del Cocito. Secondo Platone, qui si raccolgono le anime di coloro che hanno condotto una vita mediocre.
Quando muoiono, tutte le anime subiscono la stessa sorte. Raggiungono l’Ade, dove vivranno per sempre sotto forma di ombre incorporee, che hanno le sembianze dei loro corpi.
Risiedono probabilmente tutte nel Prato degli Asfodeli, luogo monotono, senza dolori, ma anche senza gioie, senza un futuro e senza la luce del sole.
Col passare del tempo, gli spiriti dei morti entrano in uno stato di semi coscienza, chi più chi meno.
A parte Tiresia l’indovino, nessuno possiede il dono della preveggenza. Ognuno però mantiene i ricordi della vita terrena. Vengono attirati dai sacrifici offerti dai vivi, che consistono in un rituale con preghiere e sangue di alcuni animali uccisi. Ottenuto il permesso di bere il sangue, riacquistano completa coscienza e, se lo vogliono, possono parlare.
L’Ade è stato anche suddiviso in vari settori, a seconda delle azioni commesse in vita.
– Atropo (una delle Parche) decide di tagliare il filo della vita di un uomo. Ipno (il sonno) e Tanatos (la morte), adolescenti alati, allontanano il corpo di un guerriero morto sul campo di battaglia.
– Ermes Psicopompo (Mercurio) prende in consegna le anime dei morti e le trasporta alle porte dell’Ade o le consegna a Caronte.
– Caronte traghetta le anime al di là del fiume Acheronte, al prezzo di un obolo. Oltrepassato il fiume, i morti percorrevano un lungo viale con pioppi e salici ed arrivavano ad una grandissima porta da cui tutti potevano passare. Lì c’era un terribile guardiano che vegliava rabbioso contro i vivi che tentavano di entrare e contro i morti che cercavano di uscire: Cerbero.
-Cerbero era un cane mostruoso fornito di tre teste, sempre vigile e pronto a scagliarsi contro i trasgressori delle leggi divine.
– Prateria degli Asfodeli (dal greco “a”= non, “sphodos”= cenere, “elos”= valle, ovvero “valle di ciò che non è stato ridotto in cenere”). Varcata la soglia, le anime degli eroi attraversavano questa prateria, vagando tra altri morti, che svolazzavano qua e là come pipistrelli. Il loro unico piacere era bere il sangue delle offerte dei vivi.
– Erebo (coperto), Palazzo di Ade e di Persefone, cinti da possenti mura sulle quali stavano le Furie. Le Furie o Erinni sono tre: Tisifone, Aletto e Megera, con il compito di torturare le anime che si sono macchiate di gravi colpe verso i familiari e gli Dei. Solo quando la a pena era stata interamente scontata, la loro persecuzione cessava, ed allora, diventate benevole, erano venerate col nome di Eumenidi. Ai lati del Palazzo sorgono due cipressi bianchi, da cui sgorgano due fontane: quella dell’Oblio e quella della Memoria. Le acque della prima cancellano il ricordo della vita passata, quelle della seconda rinnovano la memoria delle cose amate.
– Minosse, Radamanto ed Eaco sono i giudici infernali, che stanno su un incrocio di tre strade: da qui loro giudicano le anime e le indirizzano verso una delle tre aree o le isole. La leggenda narra che Eaco, anche custode delle chiavi, si dovesse occupare delle anime di provenienza europea, Radamanto di quelle di provenienza asiatica e Minosse dei casi più difficili.
– Le tre aree in cui risiedono i morti sono:
1) Prateria degli Asfodeli, in cui si riunivano le anime degli ignavi e di coloro che in vita non si erano macchiati di colpe gravi, ma nemmeno erano stati buoni e virtuosi. La prateria è caratterizzata da un tedio senza fine, dove solo il cacciatore Orione, inseguendo eternamente dei daini, sembra godere del conforto di avere qualcosa da fare
2) Tartaro, destinato agli empi, che nella vita si sono macchiati di colpe verso gli Dei o verso i propri simili (per esempio, i Titani, Tantalo, Issione, Tizio). Il Tartaro è immerso nel buio ed ogni tanto è rischiarato dalle vampe di fuoco del fiume Flegetonte. I dannati vengono perseguitati da mostri infernali, che rimproverano loro le colpe di cui sono macchiati.
3) Campi Elisi (o Elisio) sono riservati ai giusti, ai virtuosi, ai saggi e agli eroi, dove essi vivono eternamente sereni, in luoghi pieni di luce e di fiori, dediti alle occupazioni che più li avevano dilettati in vita. Ad allietare questo luogo ridente ci sono musiche, danze, canti e banchetti. Qui abitano due figli della Notte, Thanatos, il demone della morte, e Hypnos, il sonno. Figli di questi sono i Sogni, che abitano in una grande casa al di là dell’Oceano. Questa casa ha due grandi porte, una di avorio e una di corno. Dalla prima escono sogni falsi e ingannevoli, dalla seconda escono sogni premonitori.
4) Isole Beate, riservate a coloro che nacquero tre volte e ogni volta vissero virtuosamente.