ERCOLE
SCILLA E CARIDDI, LA LEGGENDA DELLO STRETTO DI MESSINA
La piccola città costiera di Scilla, U Scigghiju, appena a nord di Reggio Calabria, sulla Costa Viola, oggi è una rinomata località turistica situata su un promontorio all’ingresso settentrionale dello Stretto di Messina.
Il suo nome Skýla, dal greco “cagna”, richiama un misterioso mostro marino, descritto da Omero nella sua opera “Odissea”, ma anche da Esiodo ed Ovidio.
Nel XIV libro delle ‘Metamorfosi di Ovidio’, Scilla era una ninfa di incredibile bellezza dai lunghi capelli corvini e gli occhi luminosi come stelle, la cui storia si intrecciò a quella di Glauco, un bellissimo pescatore della città di Antedone, in Beozia, dai lunghi capelli rossi, figlio di Poseidone.
Scilla abitava sulle sponde della Calabria, ma amava bagnarsi nelle acque cristalline di Messina.
Glauco era amato e corteggiato senza successo da molte sirene, finché un giorno, mangiando un’erba argentata cresciuta nei pressi di una spiaggia, il giovane si tramutò in un Tritone, diventando un semidio immortale del mare.
Al posto delle gambe ebbe una coda da sirena, le spalle diventarono sempre più larghe, le guance si ricoprirono di una peluria verde.
Un giorno, Glauco vide Scilla e se ne innamorò perdutamente ma la giovane, avendo paura di lui, lo respinse, nonostante i tentativi del semidio di sedurla, vantandosi della sua natura divina.
Continuando ad essere respinto, Glauco chiese aiuto alla maga Circe, dicendole di preparare una pozione magica che potesse fare bruciare Scilla d’amore verso di lui.
Ma Circe era innamorata di Glauco, e provò a dissuaderlo con delle parole:
“meglio sarebbe che tu vagheggiassi chi ti vuole,
chi ha gli stessi desideri ed è presa da uguale passione”.
La maga, quindi, si offrì a Glauco, il quale la rifiutò provocando la sua ira e il suo desiderio di vendetta.
Però, invece di vendicarsi sul semidio, diresse la sua ira verso l’innocente Scilla, che non aveva nessuna colpa.
Quindi, la maga preparò una pozione magica che versò nelle acque in cui Scilla nuotava, tramutandola in un mostro con le teste di sei cani attorno alla vita e con tre file di denti.
La fanciulla, per l’orrore che ebbe di sé, si nascose in una grotta sottomarina sulle sponde calabre, dove secondo la leggenda ancora vive.
Secondo Esiodo, un antico poeta greco del VII sec, Scilla era la figlia di Ecate, la quale era associata alla Luna, agli Inferi e, soprattutto, ai feroci segugi.
Invece Omero, la descrive come figlia di Crataide e del Dio del mare Forco, anche se potrebbe trattarsi di Tifone, Tritone o Tirreno, tutte figure legate al mare.
Successivamente, in altre narrazioni Scilla era una bellissima umana mortale, che aveva relazioni con Poseidone, Minosse re di Creta e il Dio del mare Glauco, fino a quando per gelosia venne trasformata dalla maga Circe, o dalla ninfa del mare Anfitrite, consorte di Poseidone, in un mostro.
La fanciulla venne colta di sorpresa nella sua piscina e, quando le erbe magiche furono gettate nelle acque, si trasformò nell’orrenda creatura.
Le zampe scomparvero e, al loro posto, comparvero terribili cani dai denti aguzzi che abbaiavano.
Queste bestie erano pronte a lacerare qualunque cosa fosse alla loro portata.
Scilla, la cui parte superiore era rimasta intatta, assistette con orrore alla sua trasformazione.
Così Scilla venne trasformata in un mostro con dodici zampe e sei teste che spuntavano da varie parti del corpo, ciascuna con tre feroci file di denti, così che il suo morso fosse decisamente peggiore della sua corazza.
I cani la trascinarono via, si fermarono solo quando arrivarono sulla costa italiana che domina la Sicilia, dove era destinata a rimanere, nascosta in una grotta, costretta a divorare i marinai che si avventuravano nello Stretto di Messina.
Abitando in una caverna in alto nelle scogliere dello stretto, Scilla attendeva che prede ignare, ovvero pesci, delfini e uomini, le passassero davanti e poi lanciava una delle sue teste, per trascinare la vittima nella sua tana, per schiacciarla e mangiarla a piacere.
“Nessuno poteva guardarla con gioia, nemmeno un dio se passava di lì. Ha dodici piedi, tutti penzolanti nell’aria, e sei lunghi colli magri, ognuno dei quali termina in una testa macabra con tripla fila di zanne, fitte e fitte, e cupamente minacciose di morte. Fino alla cintola è sprofondata nel fondo della caverna, ma le sue teste sporgono dal pauroso abisso, e così pesca dalla propria dimora, brancolando avidamente intorno alla roccia”.
-Odissea , 12:87-95-
La rupe su cui Scilla vive:
“La sua cima affilata… è ricoperta da nuvole nere che non scorrono mai via né lasciano il tempo sereno intorno alla cima, anche in estate o al tempo del raccolto. Nessun uomo sulla terra potrebbe salire in cima o anche solo mettervi piede, nemmeno se avesse venti mani e piedi per aiutarlo, perché la roccia è liscia come se fosse stata levigata. Ma a metà della rupe c’è una caverna oscura, rivolta a ovest e che scende verso Erebus… Neppure un forte giovane arciere potrebbe raggiungere l’imboccatura spalancata della caverna con una freccia scagliata da una nave sottostante… Nessun equipaggio può vantarsi di aver mai navigato la loro nave oltre Scilla indenne … Scilla non è nata per la morte: è una cosa del terrore, intrattabile, feroce e impossibile da combattere”.
-Odissea, 12:75-120-
Nel V secolo a.C.,Scilla apparve sulle monete di Cuma e di Acragas (l’odierna Agrigento) e su numerosi vasi di ceramica a figure rosse del V e IV secolo a.C.,soprattutto in quelli della ceramica attica e dell’Italia meridionale a figure rosse, ritratta come una specie di sirena con teste di cane che escono dalla sua vita.
Fu così che Scilla si ritrovò per caso con Cariddi, sua compagna di continue stragi di marinai.
Le due condividono un triste destino ed una storia.
Cariddi era una ninfa figlia di Poseidone e Gea, bella e graziosa, ed era famosa per possedere una smisurata ingordigia, golosa ed insaziabile.
La ninfa era però anche incline ai furti e così, un giorno, rubò a Ercole una mandria di buoi, che lui aveva precedentemente e “a fatica” rubato a Gerione, per compiere la sua decima fatica.
Ercole, figlio di Zeus, si adirò con lei e, per vendicarsi. invocò suo padre il quale, per punirla del suo gesto, le scagliò addosso un fulmine e la gettò nelle acque dello Stretto di Messina.
Una volta nell’abisso, Cariddi fu trasformata in un mostro simile a una lampara, che per tre volte al giorno ingurgitava acqua salata e altrettante volte la rigettava, creando vortici e forti correnti, capaci di affondare qualsiasi nave.
Cariddi prese come residenza una grotta, di fronte a quella di Scilla, compagna delle sue continue stragi di marinai e, mentre quest’ultima schiacciava nelle sue fauci gli incauti uomini, Cariddi li ingoiava e li respingeva con un possente ruggito.
Chiunque attraversava lo Stretto, era atteso da una tragica fine.
Un’altra versione racconta che, invece, la ninfa fosse una creatura libidinosa, oppure che, molto tempo fa nacque una bellissima naiade dal grande Dio del mare, Poseidone.
Il suo nome era Cariddi ed amava e ammirava suo padre con tutto il cuore.
E così, quando Poseidone entrò in guerra con il grande Dio Zeus e scatenò grandi tempeste, Cariddi cavalcò le maree, portando l’acqua sulle spiagge.
In questo modo, il mare inghiottì villaggi, campi, foreste e città, rivendicandoli per Poseidone.
Dopo un po’ di tempo, Cariddi aveva conquistato così tante terre per il regno di suo padre, che Zeus si arrabbiò con lei.
Giurò di fermarla per sempre e, per fare questo, la trasformò in un mostro dalla grande bocca spalancata, mentre le sue braccia e le sue gambe divennero pinne.
Da quel momento, Cariddi fu costretta a vivere in una grotta sotto un fico solitario su un’isoletta nello Stretto di Messina.
Tra coloro che si scontrarono con i mostri c’era il grande Odisseo (Ulisse).
Nell’Odissea di Omero, le acque vorticose di Cariddi fecero naufragare la nave dell’eroe Ulisse, mentre tornava a casa dalla guerra di Troia.
Appena sopravvissuta alle sirene, la nave, nel tentativo di evitare Cariddi, si avvicinò un po’ troppo alla tana di Scilla.
I sei migliori membri dell’equipaggio di Ulisse furono afferrati dalle sei teste di Scilla, mentre attraversavano le acque turbolente dello stretto.
La nave oltrepassò le vittime ancora urlanti e riuscì a superare il passaggio, ma la fuga fu solo temporanea.
Sbarcati in Sicilia, gli uomini di Ulisse ignorarono le rigide tradizioni locali e cucinarono del bestiame sacro, che apparteneva a Iperione.
Come punizione, Zeus mandò quindi una tempesta e uno dei suoi fulmini, che fracassò l’albero, uccise il timoniere mentre cadeva.
La nave fece naufragio, l’equipaggio annegò e solo Ulisse sopravvisse, legando insieme pezzi di relitti.
Però, arrivò un’altra tempesta e trascinò l’eroe a Cariddi, dove fu sballottato, finché riuscì a scappare aggrappandosi al ramo sporgente di un fico selvatico.
Quindi, egli programmò la sua fuga, aspettando che le acque lo vomitassero fuori e lo portassero al sicuro insieme al relitto della sua nave.
Finalmente, dopo nove giorni alla deriva, la fortuna dell’eroe era cambiata!
Questo mito è sicuramente l’interpretazione antropomorfica delle due correnti che si incontrano nello Stretto di Messina, prodotte dal Mar Ionio e dal Mar Tirreno, rispettivamente una più calda e l’altra più fredda.
Questo incontro provoca il fenomeno dei cosiddetti “Gorghi dello stretto”, che altro non sono che gorghi nell’acqua che ricordano le tre bocche di Cariddi.
La combinazione di Scilla e Cariddi ha dato origine a un vecchio detto di “trovarsi tra Scilla e Cariddi“, un detto che si è evoluto nell’idioma più popolare, “tra l’incudine e il martello“, entrambi equivalenti a pericoli in qualsiasi direzione vengano affrontati .
Questa è una meravigliosa leggenda su un vero e proprio pericolo, che ci hanno tramandato navigatori e marinai un tempo terrorizzati…
Ancora oggi i mostri marini rimangono un terrore per tutti i marinai di passaggio e le fonti di molti racconti.
Certo, ora siamo più tranquilli, ma i veri uomini e le vere donne di mare comprendono il pericolo che si nasconde sotto l’acqua, lontano dalla vista, ma mai veramente lontano dalla mente.
Fate attenzione…
**Specie di Drimia che prende il nome dalla leggenda
Heracleum è un genere di erbe biennali e perenni della famiglia delle Carote (Apiaceae).
Cresce in tutto l’Emisfero settentrionale temperato ed in alta montagna, fino all’estremo sud dell’Etiopia.
Il nome del genere Heracleum deriva dal greco antico “di Eracle“, ovvero l’eroe mitologico Ercole, con riferimento alle grandi dimensioni di alcune specie.
I nomi comuni per il genere, o la sua specie, includono Panace e Prezzemolo della mucca (in quanto si raccoglieva e dava alle mucche contro i reumatismi).
Il nome volgare di Panace, fa riferimento alle supposte, molteplici virtù terapeutiche, una ‘panacea’ appunto.
Altri nomi con cui è conosciuto: Patte d’ours, Berce des prés, Wiesen-Bärenklau, Cow parsnip, Hogweed, Devil’s Tobacco.
Questo genere comprende circa 88 specie con caratteristiche abbastanza simili, tranne Heracleum mantegazzianum, il quale può raggiungere altezza veramente eccezionale.
Attenzione, perché è noto che la maggior parte delle specie del genere Heracleum causa fitofotodermatite, ovvero dermatite da contatto con specie vegetali, causate proprio dal contatto della cute con sostanze vegetali quali latice, linfa, succhi e resine irritanti per la pelle.
In particolare, sono ben noti i rischi per la salute pubblica del Panace gigante (Heracleum mantegazzianum).
Ed ora, vediamo da vicino alcune specie.
Heracleum sphondylium, Panace comune, Panace dei macereti o Spondilio, è una pianta dei prati e dei boschi molto diffusa in tutta l’Europa eccetto in Mediterraneo alta fino a 150 cm.
Sphondylium deriva dal greco = vertebra, per il fusto con nodi ingrossati simili a vertebre.
Esso è robusto, densamente ispido con peli rigidi, fortemente solcato-angoloso.
Le foglie sono grandi, polimorfe, glabre o ricoperte su entrambi i lati da peli corti e rigidi.
I fiori sono bianchi, verde-giallastri o rosa, riuniti in ombrelle di 15-30 raggi.
Il Panace è comune nei boschi, nelle macchie, nei prati di montagna ed è conosciuto anche con il nome di Zampa d’Orso, Sedano dei prati.
Il Panace contiene un succo irritante ed una miscela di olii essenziali.
Il sapore e l’odore somigliano a quello delle formiche schiacciate.
I germogli primaverili possono essere consumati crudi in insalata, oppure preparati come gli asparagi.
Dai frutti è possibile ottenere un liquore, dal gusto gradevole.
Nelle zone alpine di Svizzera e Austria, e nel sud della Germania, con il Panace si produce un ottimo miele.
Nell’ Europa orientale, le foglie vengono fatte fermentare per preparare una specie di birra, detta “Parst” o “Bartsch”, mentre i piccioli vengono distillati da soli o con i mirtilli, per ricavarne una specie di grappa.
Le foglie disseccate sono un cibo di cui i conigli sono ghiotti.
Dai fusti maturi e secchi del Panace, si ricava una polvere con la quale si possono confezionare dolci, o da usarsi come addensante per i budini.
Il fusto trasuda una melata bianchiccia dolce ed i rametti possono essere succhiati come caramelle.
Erba molto comune e famosa nel Rinascimento per combattere le crisi depressive.
L’infuso della radice con le foglie, insieme a quello di Zafferano, è una ricetta per combattere impotenza e frigidità, nota fin dall’antico Egitto.
I Polacchi ed i Lituani usano questa droga per fabbricare ogni genere di birra.
Nel Medioevo era consigliata contro i vizi della milza e la secchezza dei nervi.
Considerata efficace anche contro i vermi del cervello.
Tra i profumi più famosi dell’Età classica, si annoverano “Amarkinon” ed “Unguento reale”, entrambi composti anche da Panace.
Il Panace è indicato come stimolante ed afrodisiaco, digestivo, espettorante e sedativo.
La radice ha proprietà simili a quelle di Ginseng.
Una specie molto interessante è l’Heracleum mantegazzianum, Panace di Mantegazza, in onore dell’antropologo, fisiologo, patriota e scrittore dell’800, Paolo Mantegazza.
Questo genere è stato importato in Europa dal Caucaso alla fine del XIX secolo, per le sue proprietà mellifere e come pianta ornamentale in giardini privati, poi diffondendosi ed inselvatichendosi nei prati, sulle rive dei fiumi e nei luoghi incolti, sia in pianura, sia a quote più elevate.
Avendo una rapida capacità di diffusione, in molte zone è considerata infestante, in quanto provoca il deperimento e la distruzione della vegetazione indigena, oltre ad essere molto pericolosa, principalmente per la tossicità cutanea ed oculare della sua linfa, innescata dalla fotoesposizione.
I danni, che il Panace di Mantegazza può causare, sono vesciche, eruzioni cutanee ed ustioni, che possono richiedere fino a sette anni per raggiungere una completa guarigione.
Infatti, la sua linfa contiene sostanze chimiche tossiche che reagiscono con la luce, a contatto con la pelle umana, causando la formazione di vesciche.
Quindi, impedendo alla pelle di proteggersi dai raggi solari, reca conseguenze temibili, come bruttissime scottature che lasciano evidenti cicatrici.
Se la sua linfa entra in contatto con gli occhi, può causare cecità momentanea o permanente.
Pertanto, se per qualsiasi ragione si entrasse in contatto con questa pianta, la prima cosa da fare è lavarsi con acqua e sapone e poi recarsi all’ospedale.
In molte zone è raccomandata la sua eradicazione, ma occorre proteggere il corpo con abiti adatti, munirsi di guanti e occhiali, e coprirsi anche il viso.
Mi raccomando: E’ UNA PIANTA MOLTO PERICOLOSA.
Cresce soprattutto lungo sentieri e argini, ma anche in luoghi come parchi, cimiteri e terreni incolti.
In Italia è possibile trovarla nelle zone del nord, ed è molto facile riconoscerla anche grazie alla sua altezza, può raggiungere addirittura i 5 metri.
Infine, parlo dell’Heracleum maximum, unica specie originaria del nord America.
Conosciuta anche come Pastinaca delle mucche, Sedano indiano, Rabarbaro indiano, Pushki, a volte è indicata come Heracleum lanatum o Heracleum lanatum var. asiaticum, di cui in realtà è un sinonimo.
Può raggiungere i 2 metri d’altezza, per cui spesso è anche confuso con il Panace di Mantegazza, il quale però ha tipiche macchie violacee sugli steli e foglie più seghettate.
L’Heracleum maximum è ampiamente riconosciuto come preziosa pianta da pascolo per mucche, pecore e capre, oltre ad essere noto per essere importante nelle diete di numerosi animali selvatici, in particolare orsi, sia grizzly che neri.
Anche con questa specie, i germogli, che entrano in stagione all’inizio dell’estate, possono essere mangiati cotti, ma si dovrebbe prestare attenzione, poiché i fiori assomigliano a quelli della Cicuta maculata, estremamente velenosa.
I Nativi americani usavano moltissimo il Sedano indiano, spesso percorrendo lunghe distanze in primavera, anche 100 chilometri, per trovare i germogli di piante succulente.
In termini di gusto, consistenza e sostanze nutritive, i gambi sbucciati assomigliano al Sedano, che ha dato appunto origine al nome comune “Sedano indiano”.
Gli indigeni sono consapevoli degli effetti tossici della pianta, sapendo che, se la pelle esterna non viene rimossa, si può avere “prurito alla bocca” o una pelle con vesciche.
Essi, anticamente raccomandavano alle donne in gravidanza, di allontanarsi dai gambi dei boccioli dei fiori di questa pianta, per evitare che i neonati morissero asfissiati, mentre piangevano.
L’Heracleum maximum era un ingrediente negli impacchi applicati su lividi o piaghe, mentre gli impiastri preparati con le sue radici venivano applicato sui gonfiori, soprattutto dei piedi. Gli steli essiccati venivano usati come cannucce per gli anziani o gli infermi, o trasformati in flauti per i bambini.
Inoltre strofinavano il corpo con infuso dei fiori, per respingere mosche e zanzare.
Dalle radici si può ricavare un colorante giallo.
In Esoterismo, l’Heracleum è una delle prime piante da fiore della primavera, quindi è l’ideale per un altare Imbolc o uno spazio sacro.
Rappresenta il cambio di stagione e gli spazi liminali come le siepi e i margini in cui si trova.
L’Heracleum riguarda i periodi di transizione, la pausa tra i diversi stati dell’essere e l’essere presenti nel momento.
I fiori sono bianchi, il che è associato alla purezza ed all’integrità in alcune culture.
Nella mitologia celtica, il bianco rappresenta un visitatore proveniente dagli Inferi o, in termini più moderni, da oltre il ‘velo’.
E’ associata anche ai segugi magici irlandesi, Cú sídhe , i quali sono bianchi con le orecchie rosse e spesso si dice, che siano portatori di morte.
La morte può significare una trasformazione completa, piuttosto che il significato letterale della fine della vita.
Potrebbe essere la fine di un periodo di dolore, un lavoro in cui sei bloccato o anche una relazione insoddisfacente.
La pianta ha anche una forte associazione con la morte, infatti la superstizione inglese sembra affermare, che ciò sia dovuto al fatto che tendeva a crescere sulle tombe o nei cimiteri.
L’Heracleum potrebbe essere usato come emblema, quando si medita o si eseguono visualizzazioni intorno a coloro che sono trapassati.
Potresti anche invertire l’associazione e portare un rametto di questa pianta, come protezione contro danni o morte.
Per la sua stretta somiglianza con la Cicuta (col fiore bianco altamente velenoso, strettamente legato alla Stregoneria), l’Heracleum potrebbe avere qualche significato simile a quest’ultima.
Questa pianta ha anche la reputazione di “spezzare il cuore di tua madre”, perché i minuscoli fiori bianchi cadono rapidamente, cosa che infastidirebbe una madre che ama tenere pulita la casa.
L’Heracleum è adatto alle persone che si sentono ‘senza radici’, oppure sono incerti sulla direzione interiore da prendere, o hanno difficoltà a connettersi o adattarsi a un nuovo ambiente, dopo un trasloco.
Questa pianta, infatti, promuove la forza interiore, assiste nel processo di adattamento a un nuovo ambiente, incoraggia la pace della mente e l’appagamento per le circostanze presenti, anche durante i periodi di intensa transizione e cambiamento.
L’Heracleum è adatto anche per coloro che prendono la vita troppo sul serio, e si sentono responsabili di tutto, spesso avendo un senso di insicurezza di fondo.
Per i bambini è utile, quando hanno dovuto già sopportare eccessive responsabilità e non hanno la capacità di giocare.
PIANETA: Venere
ELEMENTO: Acqua
SEGNO ZODIACALE ASSOCIATO: Cancro
CHAKRA: 1, Muladhara (C. della Radice)
IL REGNO DI ADE
Ade era il mondo degli Inferi, la casa del Dio omonimo e dell’oltretomba.
Infatti, in greco antico, Hádēs identifica il regno delle anime greche e romane (chiamato anche Orco o Averno).
Nella tradizione greca, uno degli ingressi all’Ade si trovava nel paese dei Cimmeri, che si trovava al confine crepuscolare dell’Oceano, regione remota in cui Ulisse dovette recarsi per discendere all’Ade e incontrare l’ombra dell’indovino Tiresia.
Nella mitologia romana, invece, uno degli ingressi infernali si trovava vicino al lago dell’Averno, divenuto poi il nome del regno infernale stesso, dal quale Enea discese insieme alla Sibilla cumana.
Per accedervi, bisognava superare prima Cerbero, poi attraversare l’Acheronte pagando un obolo al terribile traghettatore Caronte e raggiungere i tre giudici Minosse, Eaco e Radamanto, i quali emettevano il loro verdetto.
Zeus, dopo la sconfitta del padre Crono e dopo avere precipitato i Titani nel Tartaro, nominò dio degli Inferi suo fratello Ade.
L’Ade accoglieva le anime di tutti i defunti, tranne dei morti rimasti insepolti.
L’Ade, quindi, era un luogo tenebroso situato all’interno della Terra, temuto persino dagli Dei dell’Olimpo.
Secondo Esiodo, primissimo tra tutti nacque il Caos, poi la Terra (Gea), il Tartaro (luogo di punizione delle anime malvagie) ed Eros (l’amore). Da Caos nacquero Erebo e la nera Notte.
Tutti i morti, fossero stati in vita buoni o malvagi, giungevano nell’Ade attraverso una qualsiasi voragine aperta nel terreno.
L’Ade comunicava con l’esterno tramite tutti quei luoghi della superficie terrestre, che emanavano vapori sulfurei, ribollivano di lava o si spalancavano in tetre voragini.
Raramente, anche i vivi potevano accedere al Regno dei Morti, tra cui Ulisse, Enea, Ercole, Orfeo, Teseo, Pirotoo.
Si racconta che l’entrata era situata nella più remota parte occidentale, dove non giungevano i raggi del sole.
In Sicilia, si trovava sul monte Etna; nel Peloponneso a Capo Tenaro; ad Atene nelle caverne di Colono; nella costa ionica della Grecia ad Ammoudia.
Ma si trovavano anche presso Cuma, in Campania, nelle vicinanze del lago Averno, formato dal cratere di un vulcano profondo, circondato da rupi e pieno di esalazioni mefitiche.
Secondo l’etimologia, Averno vuol dire “senza uccelli” ed effettivamente gli uccelli non vi potevano vivere a causa delle esalazioni.
I Greci, che da tempo popolavano le colonie campane, non accettando come dimora dei morti, una terra d’origine troppo lontana dalla baia di Ammoudia, scelsero un luogo più vicino, i Campi Flegrei.
Nell’Ade si riversavano principalmente cinque fiumi ed una palude: Stige, Acheronte, Cocito, Flegetonte, Lete e palude Acherusiade.
Lo Stige, fiume dell’odio. Secondo Platone è una palude di colore blu cupo, formata dal fiume Stigia.
Stige è considerata essa stessa una terribile divinità figlia della Notte e di Erebo.
L’ acqua dello Stige ha proprietà magiche e la Nereide Teti avrebbe immerso il figlio Achille per renderlo invulnerabile.
Se gli Dei non rispettano un giuramento fatto sull’acqua dello Stige, subiscono castighi terribili, giacendo per un anno senza respiro, avvolti nel torpore e non possono avvicinarsi al nettare e all’ambrosia, oltre a non potersi avvicinare agli altri Dei per nove anni.
L’ Acheronte, fiume del dolore o dei guai, è descritto come il fiume principale che circonda l’Ade ed è situato subito dopo l’ingresso. La sua riva è sempre colma della infinita torma dei morti, in attesa di Caronte, il traghettatore.
Questi è un vecchio di orribile squallore, dagli occhi fiammeggianti come brace e dalle membra muscolose. Per traghettare le anime dei morti sull’altra riva, si serve di una grossa barca, vecchia e malandata. Trasporta solo i morti che possono pagarlo con l’obolo (antica moneta greca) che i parenti pongono in bocca del defunto prima degli onori funebri .
Gli altri devono aspettare 100 anni (secondo alcuni, per l’eternità), in una lunga attesa che è per loro causa di indicibile tormento anche se sanno che, al di là del fiume, li attende una pena terribile ed eterna.
Il Cocito, fiume dei lamenti o del pianto, affluente dell’Acheronte e ramo dello Stige.
In esso sono immersi gli omicidi.
Il Cocito acquista una corrente violenta a partire dalla palude Stige, si inabissa e scorre a spirale, in senso contrario al Flegetonte, fino a toccare, dalla parte opposta, le sponde della palude acherusiade.
Dopo aver compiuto un largo giro, si getta nel Tartaro dalla parte opposta al Flegetonte.
Secondo Virgilio, il Cocito è una palude stagnante di fango nero e canne deformi invece, per Dante, è la confluenza di tutti i fiumi infernali ed è ghiacciato nell’ultimo girone dei traditori.
Il Flegetonte, fiume del fuoco, circonda il Tartaro e, ogni tanto, lo rischiara con le sue vampe di fuoco. Il fiume si unisce al Cocito nel formare l’Acheronte.
Secondo Platone, invece, si riversa in una grande pianura arsa da fuoco violento e forma una palude più grande del mare, tutta ribollente d’acqua e di fango; da qui scorre circolarmente, torbido e fangoso e, sempre sotto terra, volge a spirale il suo corso fino a giungere alle estreme rive della palude acherusiade, ma senza mescolare le sue acque.
Dopo molti altri giri sotterranei, si getta in un punto del Tartaro che è più in basso. Il Flegetonte riversa sulla terra torrenti di lava, ovunque trovi uno sbocco. Si immagina che in quel fiume si punissero i violenti.
Il Lete, fiume dell’oblio, attraversa l’Elisio; chi beve o si immerge nella sua acqua, perde la memoria della sua vita passata e può quindi reincarnarsi in un altro corpo.
In un’altra versione, non c’è il Lete, ma due cipressi bianchi vicino cui sgorgano due fontane: quella dell’Oblio e quella della Memoria. Le acque della prima cancellano il ricordo della vita passata, quelle della seconda rinnovano la memoria delle cose amate.
-PRATO DEGLI ASFODELI-
La palude Acherusiade è la palude principale situata all’ingresso dell’Ade. E’ formata dalla acque dell’Acheronte, del Flegentonte e del Cocito. Secondo Platone, qui si raccolgono le anime di coloro che hanno condotto una vita mediocre.
Quando muoiono, tutte le anime subiscono la stessa sorte. Raggiungono l’Ade, dove vivranno per sempre sotto forma di ombre incorporee, che hanno le sembianze dei loro corpi.
Risiedono probabilmente tutte nel Prato degli Asfodeli, luogo monotono, senza dolori, ma anche senza gioie, senza un futuro e senza la luce del sole.
Col passare del tempo, gli spiriti dei morti entrano in uno stato di semi coscienza, chi più chi meno.
A parte Tiresia l’indovino, nessuno possiede il dono della preveggenza. Ognuno però mantiene i ricordi della vita terrena. Vengono attirati dai sacrifici offerti dai vivi, che consistono in un rituale con preghiere e sangue di alcuni animali uccisi. Ottenuto il permesso di bere il sangue, riacquistano completa coscienza e, se lo vogliono, possono parlare.
L’Ade è stato anche suddiviso in vari settori, a seconda delle azioni commesse in vita.
– Atropo (una delle Parche) decide di tagliare il filo della vita di un uomo. Ipno (il sonno) e Tanatos (la morte), adolescenti alati, allontanano il corpo di un guerriero morto sul campo di battaglia.
– Ermes Psicopompo (Mercurio) prende in consegna le anime dei morti e le trasporta alle porte dell’Ade o le consegna a Caronte.
– Caronte traghetta le anime al di là del fiume Acheronte, al prezzo di un obolo. Oltrepassato il fiume, i morti percorrevano un lungo viale con pioppi e salici ed arrivavano ad una grandissima porta da cui tutti potevano passare. Lì c’era un terribile guardiano che vegliava rabbioso contro i vivi che tentavano di entrare e contro i morti che cercavano di uscire: Cerbero.
-Cerbero era un cane mostruoso fornito di tre teste, sempre vigile e pronto a scagliarsi contro i trasgressori delle leggi divine.
– Prateria degli Asfodeli (dal greco “a”= non, “sphodos”= cenere, “elos”= valle, ovvero “valle di ciò che non è stato ridotto in cenere”). Varcata la soglia, le anime degli eroi attraversavano questa prateria, vagando tra altri morti, che svolazzavano qua e là come pipistrelli. Il loro unico piacere era bere il sangue delle offerte dei vivi.
– Erebo (coperto), Palazzo di Ade e di Persefone, cinti da possenti mura sulle quali stavano le Furie. Le Furie o Erinni sono tre: Tisifone, Aletto e Megera, con il compito di torturare le anime che si sono macchiate di gravi colpe verso i familiari e gli Dei. Solo quando la a pena era stata interamente scontata, la loro persecuzione cessava, ed allora, diventate benevole, erano venerate col nome di Eumenidi. Ai lati del Palazzo sorgono due cipressi bianchi, da cui sgorgano due fontane: quella dell’Oblio e quella della Memoria. Le acque della prima cancellano il ricordo della vita passata, quelle della seconda rinnovano la memoria delle cose amate.
– Minosse, Radamanto ed Eaco sono i giudici infernali, che stanno su un incrocio di tre strade: da qui loro giudicano le anime e le indirizzano verso una delle tre aree o le isole. La leggenda narra che Eaco, anche custode delle chiavi, si dovesse occupare delle anime di provenienza europea, Radamanto di quelle di provenienza asiatica e Minosse dei casi più difficili.
– Le tre aree in cui risiedono i morti sono:
1) Prateria degli Asfodeli, in cui si riunivano le anime degli ignavi e di coloro che in vita non si erano macchiati di colpe gravi, ma nemmeno erano stati buoni e virtuosi. La prateria è caratterizzata da un tedio senza fine, dove solo il cacciatore Orione, inseguendo eternamente dei daini, sembra godere del conforto di avere qualcosa da fare
2) Tartaro, destinato agli empi, che nella vita si sono macchiati di colpe verso gli Dei o verso i propri simili (per esempio, i Titani, Tantalo, Issione, Tizio). Il Tartaro è immerso nel buio ed ogni tanto è rischiarato dalle vampe di fuoco del fiume Flegetonte. I dannati vengono perseguitati da mostri infernali, che rimproverano loro le colpe di cui sono macchiati.
3) Campi Elisi (o Elisio) sono riservati ai giusti, ai virtuosi, ai saggi e agli eroi, dove essi vivono eternamente sereni, in luoghi pieni di luce e di fiori, dediti alle occupazioni che più li avevano dilettati in vita. Ad allietare questo luogo ridente ci sono musiche, danze, canti e banchetti. Qui abitano due figli della Notte, Thanatos, il demone della morte, e Hypnos, il sonno. Figli di questi sono i Sogni, che abitano in una grande casa al di là dell’Oceano. Questa casa ha due grandi porte, una di avorio e una di corno. Dalla prima escono sogni falsi e ingannevoli, dalla seconda escono sogni premonitori.
4) Isole Beate, riservate a coloro che nacquero tre volte e ogni volta vissero virtuosamente.