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ROSANIA FULGOSIO, IL FANTASMA DEL CASTELLO DI GROPPARELLO
Scritto da MadameBlatt
scritto da MadameBlatt
Gropparello è un Comune italiano situato in provincia di Piacenza, in Emilia-Romagna.
Il suo nome deriva dal longobardo ‘Groppo’, col significato di ‘formazione rocciosa tondeggiante’.
In cima ad uno sperone roccioso, su uno strapiombo che domina il torrente Vezzeno, formando un orrido di circa 85 metri di altezza, sorge il Castello di Gropparello, praticamente inespugnabile nei secoli, vista la sua posizione strategica.
Chiamandosi anticamente Rocca di Cagnano, intorno all’840, divenne di proprietà della Chiesa piacentina, quando il vescovo di Piacenza, Giuliano II, si recò a dorso di mulo fino ad Aquisgrana, per chiedere all’imperatore Carlo Magno la concessione di un feudo, che comprendeva appunto anche il Castello di Cagnano.
In seguito, nel periodo della guerra tra Guelfi e Ghibellini, appartenendo il Castello al vescovo, naturalmente guelfo, e rappresentando l’unica roccaforte guelfa nel territorio piacentino, divenne teatro dei terribili scontri, anche se i soldati lo attaccavano malvolentieri, non volendo commettere un sacrilegio.
Nel 1200, il maniero divenne dimora privata della potente famiglia guelfa dei Fulgosio, per lascito dell’allora vescovo di Piacenza, Filippo Fulgosio.
E qui inizia la storia che ci interessa.
E’ noto, che tutti i castelli abbiano i loro fantasmi, spesso anime inquiete dei tanti soldati caduti nelle battaglie a sua difesa.
Gropparello non fa eccezione, con la sua leggenda di rumori sinistri, passaggi segreti, stanze occultate e trabocchetti, contorno ideale storie affascinanti e malinconiche, ma la sua protagonista principale è Rosania Fulgosio.
La bellissima e giovane Rosania Fulgoso era sposata con Pietrone da Cagnano, matrimonio non certo dettato da un sentimento d’amore, bensì da ragioni economiche e politiche.
Però, si diceva che Pietrone, il quale con quelle nozze sarebbe divenuto il legittimo proprietario del castello e delle terre circostanti, fosse sinceramente innamorato della giovane donna che si accingeva a condurre all’altare, nota per la sua straordinaria bellezza e per la sua grande bontà d’animo.
Nonostante i festeggiamenti in pompa magna e la gentilezza del consorte, la fanciulla quel giorno era triste e malinconica, in quanto non ricambiava i sentimenti di Pietrone.
Sembra, che a spingerla a quell’unione fosse stata la madre, desiderosa che la figlia divenisse contessa di Cagnano e sposasse un uomo ricco e con grande valore militare.
Col matrimonio combinato, Rosania fu costretta a dire addio all’uomo che amava realmente, Lancillotto Anguissola, un giovane capitano di ventura, fedele al marchese Pallavicino, ma avversario dei Fulgosio e dei Cagnano.
Ad un certo punto della loro vita, Pietrone partì per la guerra e, senza il suo signore, il Castello venne conquistato dagli invasori, tra i quali c’era proprio il vecchio amore di Rosania, Lancillotto Anguissola.
Fra i due si riaccese subito la passione di un tempo e Lancillotto si stabilì al maniero, diventando l’amante di Rosania.
Furono giorni felici, finché Lancillotto ripartì per combattere nuove battaglie.
Quando Pietrone tornò dalla guerra, venne a sapere dell’offesa ricevuta da Verzuvia, un’anziana fantesca che in gioventù era stata sua balia, della quale si fidava ciecamente, e che aveva posto come cameriera personale della moglie.
Quindi, accecato dalla gelosia, e colpito nell’onore, decise un’atroce vendetta.
Con la scusa di costruire un nascondiglio sicuro e segreto in caso di pericolo, fece scavare un antro sotto le fondamenta del Castello, e costruì una stanzetta senza porte né finestre.
Poi, organizzò un sontuoso banchetto, narcotizzò l’ignara moglie e la rinchiuse viva nella camera fino alla fine dei suoi giorni, dove Rosania morì di stenti.
L’omicidio della moglie spezzò in due l’anima di Pietrone, perché innamorato di Rosania, non riusciva a perdonarsi di averla uccisa.
L’uomo sfogò la propria ira contro Verzuvia, accusandola di essere la causa della morte della donna che amava, e la pugnalò, gettando il suo corpo nel torrente di Vezzeno, dove venne ritrovato poco dopo.
Poi, probabilmente distrutto dal senso di colpa, perse completamente il senno: indossò l’armatura, montò a cavallo e imbracciando la spada si gettò nell’orrido su cui si affaccia il Castello, trovando la morte sulle rocce del burrone.
Scomparendo, Rosania legò indissolubilmente il proprio nome e la propria vicenda all’unico testimone del delitto, ovvero il Castello.
Da allora, il suo spirito si aggira tra le mura del Castello che protegge, facendo sentire i suoi lamenti durante la notte.
La povera sposa infelice si sente ancora gemere e piangere, alla ricerca della tanto agognata pace e dell’amore perduto.
Né Rosania né la stanza furono mai più mai ritrovate, ma ancora oggi, nelle notti di vento, si sente una voce invocare aiuto.
Gli attuali proprietari ed alcuni visitatori giurano di aver sentito, e più volte intravisto, la figura di una giovane donna coi capelli raccolti, che appare e scompare attraverso le pareti.
È lo spirito dolente della dolce Rosania, murata viva, che cerca ancora di fuggire dalla stanza segreta.
Dal 1994, il Castello è proprietà della famiglia Gibelli, che lo ha aperto al pubblico, con visite guidate e la creazione di ambienti tematici per bambini.
E, ancora oggi, lo spirito inquieto di Rosania abita le stanze del Castello, in special modo i sotterranei.
Fate silenzio ed ascoltate:
nelle notti ventose, si può sentire una voce invocare aiuto, piangendo sommessamente.
E’ lo spirito di Rosania, che chiede aiuto dalla sua stanza di morte…
La Cicutina austriaca o Pleurospermo austriaco (Pleurospermum austriacum) è una pianta appartenente alla famiglia delle Apiaceae, originaria dell’Europa orientale.
In Italia, è presente in Val d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige.
Può raggiungere 1,50 mt., presenta rizoma bianco; foglie verde scuro, simili a quelle del sedano;fiori bianchi riuniti in ombrelle.
Pianta rara, muore quando il seme secca, pertanto occorre un costante ringiovanimento da parte delle piantine emergenti.
Se questa rigenerazione non avviene, questa specie può estinguersi in breve tempo.
Inoltre, in natura e in cultura, i semi germinano solo con grande difficoltà e scarsamente.
La Cicutina austriaca cresce nei boschi, nelle foreste, vicino i corsi d’acqua.
“Pleurospermum” = dal greco ‘pleura’ (costola) e ‘sperma’ (seme, frutto) e significa ‘con frutti costolati’.
“Austriacum” = originario dell’Austria.
In tedesco, il suo nome è: Der Österreichische Rippensame (Seme di costola austriaca), chiamato anche volgarmente Cumino austriaco.
Nonostante quest’ultimo nome, non si riescono a trovare informazioni sull’uso di questa pianta.
Steffen Guido Fleischhauer, un ingegnere laureato in pianificazione paesaggistica,nel 2010 ha incluso la Cicutina austriaca nella sua “Piccola enciclopedia delle piante selvatiche commestibili“.
Nella mitologia sumera, Enki (noto anche come Ea, Enkig, Nudimmud, Ninsiku) era il Dio malizioso della saggezza, dell’acqua dolce, dell’intelligenza, dell’inganno e del male, dell’artigianato, della magia, degli incantesimi, dell’esorcismo, della guarigione, della creazione, della virilità, della fertilità e dell’arte, e risiedeva nell’oceano sotto la terra.
Egli era raffigurato come un uomo barbuto, che indossa un berretto cornuto e lunghe vesti, mentre saliva sulla Montagna dell’Alba.
Il suo nome significava “Signore della Terra” ed i suoi simboli erano il pesce e la capra, entrambi rappresentazioni della fertilità.
In precedenza, però, Enki (allora conosciuto come Enkig) era una divinità sumera dell’acqua dolce e protettrice della città di Eridu, considerata dai Mesopotamici la prima città fondata all’inizio del Mondo.
Il Dio apparve per la prima volta nel primo periodo dinastico, 2600-2350 a.C. circa.
Enki era figlio di Anu, il Dio del cielo, figlio di Apsu, il padre primordiale, nei testi babilonesi.
Era anche indicato come il figlio della dea Nammu, una Dea madre primordiale, che aveva dato alla luce la Terra e il Cielo.
La moglie di Enki era Ninhursag (nota anche come Ninmah, come Damgalnuna o Damkina per gli Assiri) ed i loro figli erano Asarluhi (Dio della conoscenza magica), Enbilulu (Dio dei canali e delle dighe), il saggio umano Adapa , e il re degli Dei, Marduk (che in seguito assorbì le qualità di Asarluhi).
Questa coppia divina, nello sforzo di guarire Enki, ebbe altri 8 figli: Abu (Dio delle piante e della crescita); Nintulla (Signore di Dilmun e dei metalli preziosi); Ninsitu (Dea della guarigione, moglie del Dio della guarigione Ninazu); Ninkasi (Dea della birra); Nanshe (Dea della giustizia sociale, fertilità, divinazione e interpretazione dei sogni); Azimua (Dea della guarigione, moglie della divinità degli inferi Ningishida); Emshag (Signore di Dilmun, Dio della fertilità) e Ninti (Dea della costola, donatrice di vita).
Enki spesso era anche raffigurato come il padre (o lo zio) di una delle divinità più popolari e longeve, Inanna, Dea della guerra, della sessualità, della passione, della fertilità, dell’amore e delle prostitute.
Aveva un fratello gemello, Adad (conosciuto anche come Ishkur), Dio del tempo e delle tempeste.
Secondo i Babilonesi, invece, Enki era il figlio maggiore dei primi Dei, Apsû e Tiāmat.
All’inizio dei tempi, il Mondo era un vorticoso caos indifferenziato, da cui si separava Apsû, il principio maschile personificato dall’acqua dolce e Tiāmat, il principio femminile definito dall’acqua salata.
Apsû e Tiāmat diedero alla luce gli Dei più giovani, ma queste divinità non avevano nulla da fare, e quindi si divertivano come meglio potevano.
Il loro rumore costante distraeva Apsû, interrompendo il suo sonno e così, dopo essersi consultato con il suo Visir, decise di ucciderli.
Tiāmat, sentendo la loro discussione, rimase inorridita dal piano e così, lo riferì a suo figlio.
Enki considerò vari piani e le loro conseguenze, e poi procedette con quello che riteneva migliore: fece addormentare suo padre e poi lo uccise.
Tiāmat non aveva mai considerato una tale possibilità e, quindi, rinnegò i suoi figli.
Poi sollevò un esercito di demoni e mostri, guidati dal campione Quingu (o Kingu).
Questo esercito degli Dei più antichi sconfisse Enki e gli Dei più giovani in battaglia, ogni volta che si scontravano, finché il gruppo più giovane non fu respinto ed iniziò a perdere la speranza di vittoria.
A questo punto Marduk, figlio di Enki, si fece avanti con un’offerta: se gli Dei lo avessero nominato loro re, li avrebbe condotti alla vittoria.
Prima di questo, non c’era stato alcun generale che sovrintendesse alle operazioni, ma ogni Dio si alternava al comando.
Una volta che Marduk fu eletto re, incontrò Quingu in un combattimento singolo e lo sconfisse, colpendo poi Tiāmat con una freccia così grande da dividerla in due.
Dagli occhi della Dea, mentre moriva, scorrevano le lacrime, che si trasformarono nei fiumi Tigri ed Eufrate, e il suo corpo fu usato da Marduk per modellare la terra.
Quingu ed altri Dei, che avevano incoraggiato la guerra di Tiāmat, furono giustiziati ed il corpo di Quingu utilizzato per creare esseri umani.
Marduk si era consultato con Enki su tutte queste scelte e, per questo motivo, Enki è spesso accreditato come co-creatore del mondo e della vita.
In origine, Enki era il Dio patrono della città di Eridu (prima città della Mesopotamia) ma, in seguito, il suo culto si diffuse in tutta la Mesopotamia e tra i Cananei (civiltà e regione di lingua semitica dell’antico Oriente), gli Ittiti (popolo dell’Anatolia) e gli Urriti (popolo dell’Età del bronzo del vicino Oriente).
Era, inoltre, associato alla fascia meridionale di costellazioni chiamate ‘Stelle di Ea‘, ma anche alla costellazione AŠ-IKU , il Quadrato di Pegaso.
A partire dal secondo millennio a.C., a volte veniva indicato per iscritto dall’ideogramma numerico”40″, occasionalmente indicato come il suo “numero sacro”.
Infine, in epoca sumerica, il pianeta Mercurio, associato al babilonese Nabu (figlio di Marduk) era identificato con Enki.
Enki come protettore della città di Eridu è significativo per il suo ruolo di Dio della saggezza.
Infatti, si pensava che Eridu fosse la prima città creata dagli Dei a cui furono conferiti l’ordine e la legge all’inizio dei tempi e, in seguito, fu conosciuta come la “Città dei primi Re”. Fondata nel 5400 a.C., Eridu rimase un importante centro religioso per migliaia di anni ed anche culla di storie e leggende su un “Età dell’oro”, nello stesso modo in cui gli scrittori ebrei successivi usarono il Giardino dell’Eden.
Attualmente Governatorato di Dhi Qar (Iraq), gli scavi in questa città hanno portato alla luce santuari dedicati ad Enki, costruiti e ricostruiti nello stesso luogo nel corso di migliaia di anni.
Anche dopo che il Dio fu ampiamente adorato altrove, continuò ad essere associato ad Eridu ed alle ‘abzu’ (o ‘absu’), le acque sotterranee lì presenti.
Infatti, Enki era adorato principalmente nel suo tempio noto come E-abzu (Casa degli Abzu) e E-engur-ra (Casa delle Acque Sotterranee).
Come con tutti gli altri importanti Dei e Dee mesopotamici, i sacerdoti si occupavano della statua del Dio, del tempio e del complesso di templi, che servivano le persone in molti modi diversi.
I templi degli Dei erano case di guarigione, centri di consulenza, centri di distribuzione e luoghi santi.
Le persone interagivano principalmente con gli Dei durante le feste, attraverso la comunione con i sacerdoti minori, o a casa attraverso rituali privati.
Frequentato dal suo ministro Isimud, Enki aveva anche creature assortite al suo servizio come giganti, demoni (sia protettivi che distruttivi) ed altri esseri mistici.
Si narra, che tritoni e sirene abitassero le profondità acquose dell’abzu sotto la città, mentre i Sette Saggi (l’Abgal) vivevano con Enki nel suo palazzo.
Enki era conosciuto come Ninsiku, solo nel suo aspetto di patrono dell’artigianato e dell’arte, in particolare oggetti dedicati a soggetti divini.
Era il Dio preferito tra gli indovini (bārû) ed i sacerdoti esorcisti (ašipū), poiché era la fonte ultima di tutta la conoscenza rituale usata dagli esorcisti, per scongiurare ed espellere il male.
Inoltre, il suo legame con l’acqua lo fece anche identificare come divinità protettrice degli addetti alle pulizie.
Nella maggior parte delle storie e le leggende, Enki è associato alle altezze ed alle profondità della comprensione universale ed è sempre visto come un amico dell’umanità.
Quando gli è stata data la possibilità di scegliere tra servire la volontà degli Dei o i bisogni delle persone, Enki ha sempre scelto gli interessi umani e sempre il percorso della compassione, del perdono e della saggezza.
Considerato quindi il creatore e protettore dell’umanità, escogitò un piano per creare esseri umani dall’argilla, in modo che potessero svolgere il lavoro per gli Dei.
Ma il Dio supremo Enlil tentò di distruggere gli umani appena creati da Enki, con un’inondazione devastante, perché il loro rumore senza fine gli impediva di dormire.
Fortunatamente, l’intelligente Enki, avendo previsto il piano di Enlil, aveva preventivamente incaricato un saggio, Atrahasis, di costruire un’arca in modo che l’umanità potesse sfuggire alla distruzione.
Inoltre, aiutò l’umanità a mantenere il dono della magia e degli incantesimi, impedendo ad Adapa (un suo figlio) di diventare immortale.
Ci sono, però, anche leggende su Enki, non proprio positive.
In quanto Dio dell’acqua, Enki aveva un debole per la birra e con i suoi poteri fertilizzanti, aveva una serie di affari incestuosi.
Enki e la sua consorte Ninhursag avevano, tra i tanti, una figlia di nome Ninšar (Dea della preparazione della carne).
Quando Ninhursag lasciò Enki, ebbe un rapporto carnale con Ninsar, la quale diede alla luce Ninkurra (Signora dei pascoli).
In seguito ebbe rapporti anche con Ninkurra, che diede alla luce Uttu (Dea tessitrice).
Enki poi tentò di sedurre anche Uttu, consultando Ninhursag che, sconvolta dalla natura promiscua del coniuge, consigliò alla nipote di evitare le sponde del fiume e così sfuggire alle avances di suo nonno Enki.
In un’altra versione di questa storia, la seduzione riesce.
Ninhursag prese quindi il seme di Enki dal grembo di Uttu e lo piantò nella terra, dove sette piante germinarono rapidamente.
Enki trovò le piante ed iniziò subito a consumare i loro frutti.
Così, consumando la propria essenza fertile, rimase incinta (!), ammalandosi di gonfiori alla mascella, ai denti, alla bocca, alla gola, alle membra e alle costole.
Gli Dei non sapevano cosa fare, dal momento che Enki non aveva un grembo con cui partorire.
Ninhursag allora cedette e prese “l’acqua” di Enki nel suo stesso corpo, dando alla luce gli Dei della guarigione di ogni parte del corpo.
L’ultima fu Ninti, la quale ricevette il titolo di “Madre di tutti i viventi”.
Questo era anche un titolo dato alla successiva Dea urrita Kheba ed alla biblica Eva, che si suppone fosse stata creata dalla costola di Adamo.
Stipa è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Poaceae, comprendente una ventina di specie.
Il genere Stipa può considerarsi subcosmopolita, in quanto è diffuso nelle zone tropicali e temperate di tutto il Mondo.
Testimonianze fossili attestano la presenza e la diffusione delle Stipe nell’Era Terziaria.
Il nome deriva dal greco, col significato di “stoppa, lino, fibra, cordame”, per le infiorescenze piumose di alcune specie.
Tra quelle più conosciute c’è la Stipa austroitalica Martinovsky, chiamata volgarmente ‘Capelli delle fate‘, ‘Capelli di strega‘ o ‘Lino delle fate piumoso‘.
‘Austroitalica’, perché è presente nell’Italia meridionale (dal latino auster = vento che soffia da sud).
E’ una pianta caratteristica dei pascoli, erbacea, cespugliosa, con infiorescenze sotto forma di reste piumose molto lunghe (20-30 cm), di colore bianco-niveo.
E’ una specie tutelata, presente in Puglia, Basilicata e Sicilia.
Il Lino delle fate piumoso può raggiungere quasi un metro d’altezza, ha fusto rigido, foglie sottili e rigide, ed infiorescenza tipica, liscia e setosa.
Inoltre produce cariossidi, ovvero semi, chicchi, tipici delle Graminacee.
E’ una pianta resistentissima alla siccità, fiorisce a maggio-giugno, con particolarissimi fiori lanosi, che si possono raccogliere in maggio ed utilizzare come fiori secchi, durevoli per anni, che si muovono col vento, creando un’affascinante effetto onda nelle praterie.
Stipa pulcherrima, ovvero Stipa bellissima o Erba di piume d’oro (in inglese Long silver feather spikes), è originaria del sud-est europeo, sud siberiano/asiatico.
In Italia è abbastanza rara, trovabile soprattutto nelle zone di Verona e Brescia.
Può superare il metro d’altezza, è una pianta densamente cespugliosa, con ciuffi di foglie che partono dalla base e la caratteristica infiorescenza delle Stipe.
Stipa barbata (in inglese Silver Feather Grass), comunemente ‘Erba piuma‘, è originaria dell’Europa meridionale, del Nord Africa e del Levante nel bacino del Mediterraneo e dell’Asia temperata.
In Italia è presente in Sicilia e Liguria.
Il nome ‘barbata’ deriva dal fatto, che ha organi forniti di peli localizzati simili a barbe.
Può raggiungere i 60 cm. Di altezza e presenta foglie flessuose e filiformi.
Le sue magnifiche grandi infiorescenze bianche argentate sembrano nascere in cima alle foglie e sono molto richieste, come tutta la pianta, a scopo decorativo.
Infatti, sopporta abbastanza bene il freddo, ma non è sempreverde e va tagliata alla base dopo l’inverno.
Altre specie presenti anche in Italia:
Stipa capillata (Lino dei capelli d’angelo), presente in Piemonte, Val d’Aosta, Lombardia, Trentino, Lazio, Umbria, Abruzzo, Molise, Puglia, Basilicata.
Stipa juncea (Lino delle fate giunchiforme), presente in Liguria, Toscana e Sardegna.
Stipa pennata (Lino delle fate pennato), presente in Val d’Aosta, Piemonte, Trentino, Emilia Romagna.
Stipa tirsa (Lino delle fate tirso, il bastone delle baccanti, per la forma dell’infiorescenza a grappolo eretto), presente in Lombardia e Toscana. In passato era presente anche in Veneto.
Queste piante non sono tossiche per gli animali.
Antiche leggende raccontano, che le fate scendevano dai monti ed andavano nei boschi, scendendo giù a valle, alla ricerca dei lunghi e setosi fiori del Lino delle fate, lasciando al loro passaggio un intenso profumo di fiori.
Le fate consideravano queste infiorescenze come se fosse lino, e con esse si fabbricavano i loro vestiti argentati, in modo da luccicare nella notte.
Per questo motivo, in Veneto a Moriago, si svolgeva la ‘Festa del Mamai‘, nome con cui si chiamava la Stipa volgarmente, che era proprio dedicata alle fate che, per raccogliere questi fiori, lasciavano una scia profumata e tanti luccichii, tanto che sarebbe stato probabile incontrarne una…
Altre storie invece narrano che, tanto tempo fa, per tenere alla larga gli sconosciuti o gli indesiderati, o semplicemente per spaventare, le streghe piantavano la Stipa nei loro giardini, intorno alla casa, per comunicare che avevano gettato nella terra le teste delle loro vittime.
Nei paesi montani tra il Lazio e l’Abruzzo, si svolgevano le processioni intorno al santuario della Santissima Trinità di Vallepietra, durante le quali il Lino delle fate ornava le “Pertiche”, lunghe aste di legno di faggio, che i giovani portavano a piedi gareggiando, ognuno per il proprio paese, con la vittoria a chi riportava quella più lunga e pesante.
PIANETA: Mercurio
ELEMENTO: Aria
SEGNO ZODIACALE ASSOCIATO: Gemelli
CHAKRA: 4, Anahata (C. del cuore)
Alice Kyteler (1263–132??) è stata la prima persona accusata di Stregoneria in Irlanda.
Ecco la sua storia.
Alice Kyteler apparteneva ad una famiglia di mercanti fiamminghi, che si erano stabiliti a Kilkenny, probabilmente nell’area conosciuta come Flemingstown, verso la metà del XIII secolo.
Nel 1280, la donna sposò William Outlaw, un ricco mercante ed usuraio di Kilkenny, dal quale ebbe un figlio, chiamato anch’egli William, il quale divenne in seguito il suo principale socio in affari.
Infatti a quel tempo, mogli e madri di mercanti medievali partecipavano spesso all’attività di famiglia.
Nel 1303, William fu dichiarato adulto, diventando poi sovrano o sindaco di Kilkenny.
Ma nel 1302, Alice era già sposata con il suo secondo marito, Adam Le Blund di Callan, un altro usuraio.
La coppia era evidentemente ricca e, nel 1303, William Outlaw dichiarò di custodire 3.000 sterline del loro denaro, un’indicazione della misura del commercio medievale a Kilkenny e della natura altamente redditizia del prestito di denaro, tenendo conto che, all’epoca, la paga giornaliera per un lavoratore era da uno a un penny e mezzo.
Nel 1307, Adam Le Blund si dimise, e consegnò al figliastro William Outlaw, tutti i suoi beni mobili, immobili, gioielli, annullando così tutti i debiti che aveva nei confronti del figliastro.
Nel 1309, Alice aveva già sposato il suo terzo marito, Richard de Valle, un ricco proprietario terriero di Tipperary e, di nuovo, suo figlio William Outlaw beneficiò finanziariamente del matrimonio.
Poco prima del 1316, Richard de Valle morì ed Alice iniziò un procedimento legale contro il figliastro, chiamato anch’egli Richard de Valle, per aver trattenuto la dote della vedova.
Subito dopo, la donna sposò John le Poer, che morì otto anni dopo.
La ricchezza, che Alice aveva accumulato a spese dei suoi figliastri, sia Le Blund che De Valle, li aveva resi rabbiosi e sospettosi, tanto da spingerli alla conclusione, che la donna praticava la Stregoneria per carpire il denaro ai mariti.
Quindi, l’accusarono davanti alle autorità ecclesiastiche di ‘maleficium‘ o Stregoneria, un’accusa abbastanza comune e solitamente trattata dalla legge inglese come un piccolo reato, in quanto la Stregoneria era una forma di magia e la magia era sempre esistita, in una forma o nell’altra.
Anticamente, infatti, la medicina popolare era spesso basata su preparazioni a base di erbe fatte da streghe buone.
L’idea della Stregoneria come inversione del Cristianesimo, tuttavia, emerse nell’XI o nel XII secolo e, nell’ultima parte del XIII secolo, la Chiesa iniziò a considerare la Stregoneria un’eresia, un culto del diavolo, piuttosto che l’esecuzione di un rituale magico atto a curare le persone.
Ma torniamo ai fatti.
Nel 1324, i figliastri di Alice Kyteler portarono la loro denuncia di Stregoneria a Richard Ledrede, vescovo di Ossory (antico regno dell’Irlanda), un uomo di chiesa particolarmente ansioso di difendere le libertà e le giurisdizioni della Chiesa.
Egli, sin dal suo arrivo in Irlanda nel 1317, come incaricato pontificio, aveva dimostrato zelo per le riforme e una stretta aderenza alle leggi della Chiesa.
Inoltre, il papa dell’epoca, Giovanni XXII, aveva una viva paura della Stregoneria, sostenendo che la sua vita fosse in pericolo a causa di essa, ed aveva quindi elencato come eresia nella sua bolla ‘Super illius specula’.
Pertanto, in qualità di incaricato pontificio, Ledrede tentò di mettere in pratica ad Ossory i principi inquisitori, che aveva appreso ad Avignone, allora sede del Papato.
Ad Alice Kyteler, ed alla sua serva Petronilla de Meath, a lei associata, furono mosse 7 accuse:
1) negazione di Cristo e della Chiesa;
2) fare a pezzi animali vivi, disperdendone i pezzi agli incroci come offerte a demoni chiamati ‘Artis Filius’ e ‘Robert Artisson’, in cambio del loro aiuto;
3) chiedere consiglio ai demoni sulla Stregoneria;
4) avere una relazione sessuale con l’Incubus Robert Artisson, il quale spesso assumeva la forma di animali o di un Etiope, quando si univa carnalmente ad Alice Kyteler;
5) tenere riunioni della congrega malefica, accendere candele in chiesa di notte senza permesso. Questo gruppo includeva: Robert di Bristol, Petronilla de Meath, Sarah (la figlia di Meath), John/Ellen’Syssok Galrussyn, Annota Lange, Eva de Brownstown, William Payn de Boly ed Alice Faver;
6) preparare polveri, unguenti e pozioni a base di magia oscura, fatti con molteplici ingredienti allarmanti, inclusi parti del corpo di bambini non battezzati, vermi, un teschio, peli delle natiche, chiodi tolti da cadaveri ed interiora di pollo. Dette pozioni era state usate per corrompere i mariti di Alice Kyteler;
7) ammaliare ed uccidere i suoi mariti, per prendere i loro soldi per sé e per suo figlio biologico, William Outlaw, impoverendo così i figliastri.
I due mariti superstiti non sollevarono accuse contro di lei, per quanto riguarda la Stregoneria o la sua responsabilità per la morte degli altri e due mariti.
Solo per il quarto marito di Alice, Sir John Le Poer, fu sospettata di averlo avvelenato, in quanto era descritto come emaciato, con le unghie strappate ed i peli del corpo rimossi, tutto coerente con un avvelenamento da arsenico.
Per questo motivo, dopo la sua morte, i figli di Le Poer e dei suoi precedenti tre mariti, i suoi figliastri, la accusarono di aver usato veleno e ‘maleficarum’ contro i loro padri, per favorire il suo primogenito, William Outlaw.
Il vescovo Ledrede scomunicò Alice, anche se non era presente e fissò un giorno per la comparizione di William Outlaw, accusandolo di eresia, ma anche di ospitare e proteggere eretici.
William Outlaw aveva un potente amico a Kilkenny, il Siniscalco Arnold Le Poer, che era il giudice supremo e funzionario.
Le Poer bloccò con le mani Ledrede, lo arrestò e lo imprigionò per diciassette giorni, fino al termine del giorno stabilito, affinché William comparisse alla Corte vescovile.
Questa era una mossa pericolosa, poiché un decretale ecclesiastico, ‘Si quis suadente’ del 1139, proibiva l’imposizione violenta delle mani su un monaco o un chierico.
Inoltre, era una situazione così delicata, che solo il Papa stesso poteva assolvere un simile assalto.
Mentre era in prigione, il vescovo Ledrede mise sotto interdizione la sua Diocesi, nella quale non potevano svolgersi battesimi, matrimoni o sepolture fino a quando l’interdetto non fosse stato revocato.
In un’epoca in cui esisteva una fede assoluta nell’esistenza dell’inferno e del fuoco infernale, una tale interdizione era gravissima.
Inoltre, il Siniscalco Le Poer mandò un banditore in ogni villaggio mercato, per vedere se qualcuno volesse sporgere denuncia contro il vescovo o la sua famiglia.
William Outlaw, si recò negli archivi della cancelleria della libertà di Kilkenny e vi trovò una vecchia accusa contro il vescovo, che era stata cancellata o respinta.
Allora, la fece trascrivere di nuovo e poi strofinò la scritta con le scarpe, per invecchiarla, prima di presentarla al Siniscalco, il quale tentò di costringere il vescovo a rispondere alle accuse in essa elencate.
Ledrede rifiutò, ma poi venne liberato dal vescovo di Leighlin.
Dopo il suo rilascio dalla prigione, Ledrede citò ancora una volta William Outlaw e sua madre a comparire davanti a lui ma, prima della nomina del giorno per la comparizione, arrivò un sergente con un mandato reale, che richiedeva al vescovo di comparire a Dublino davanti al giudice d’Irlanda, per spiegare perché aveva posto un’ interdizione sulla sua Diocesi, e per rispondere alle denunce mosse da Arnold Le Poer contro di lui.
Il vescovo inviò un procuratore per suo conto, spiegando che non osava recarsi a Dublino, poiché avrebbe dovuto attraversare le terre di Arnold Le Poer.
La sua scusa fu respinta e il suo superiore ecclesiastico, il vicario dell’arcivescovo di Dublino, tolse l’interdizione.
A questo punto, Alice Kyteler si vendicò, accusando Ledrede di diffamazione della sua persona, in quanto lui l’aveva scomunicata, senza una citazione, o condanna.
La donna fece appello per questi motivi legali al Tribunale di Dublino, che convocò il vescovo a comparire ma, anche in questo caso, Ledrede inviò un procuratore per spiegare il suo caso, lamentandosi anche del fatto che Alice Kyteler fosse libera di frequentare le sue amiche a Dublino, solitamente accompagnata da grandi uomini e capi del Paese alle assemblee pubbliche; un’indicazione dello status di cui godeva Alice Kyteler anche a Dublino.
Alla fine di lunghe vicissitudini giudiziarie, il vescovo fu scagionato, anche perché insulti ed attacchi alla Chiesa ed ai suoi vescovi non potevano essere tollerati alla leggera.
Inoltre gli fu permesso di portare avanti il suo caso a Kilkenny.
Alice Kyteler, sentendo che l’opinione pubblica si stava radunando contro di lei, fuggì con Sarah, la figlia della sua serva, dall’Irlanda, andando in Inghilterra o nelle Fiandre, e non c’era traccia di lei dopo la sua fuga dalla persecuzione.
Invece, la sua domestica Petronilla de Meath fu fustigata e bruciata a morte sul rogo, il 3 novembre 1324, dopo essere stata torturata e aver confessato i crimini eretici che lei, la sua signora e i seguaci di Alice Kyteler avevano commesso.
Il vescovo Ledrede accusò formalmente William Outlaw di eresia e di ospitare eretici.
L’uomo confessò, si sottomise in ginocchio al vescovo e fu imprigionato nel castello di Kilkenny.
I suoi amici molto influenti costrinsero Ledrede a commutare la sentenza in penitenza ed a liberarlo: William doveva ascoltare tre messe al giorno per un anno, dare da mangiare ai poveri ed impegnarsi a ricoprire di piombo il tetto della cattedrale di San Canizio.
Ma venendo a sapere che William non stava effettuando la sua penitenza, Ledrede lo imprigionò ancora una volta.
Alla fine, William Outlaw soccombette completamente e chiese al vescovo di fargli visita in prigione, si prostrò nel fango davanti a lui ed a una grande folla di clero e laici.
Gli aumentarono la sua penitenza: doveva fare una visita in Terra Santa sulla prima barca disponibile, la porzione del tetto della cattedrale da ricoprire di piombo fu ampliata e gli furono concessi quattro anni, per portare a termine l’incarico.
Nel 1332 il peso del piombo fece crollare il tetto di San Canizio.
La figura centrale in questa vicenda è Alice Kyteler, una ricca donna di Kilkenny, accusata di Stregoneria dai suoi figliastri.
Il suo fu il primo processo per Stregoneria, a trattare gli accusati come eretici ed il primo ad accusare una donna, di aver acquisito il potere della Stregoneria attraverso il rapporto sessuale con un demone, caratteristiche che poi divennero comuni nei famosi processi di Stregoneria del XVI e XVII secolo.
Questa fu anche l’occasione per un grande confronto tra autorità secolare ed ecclesiastica: teoricamente, lo Stato rivendicava il controllo sulla vita materiale dei suoi sudditi e la Chiesa sulla vita spirituale.
E come al solito, le persone al di fuori di queste due fazioni non avevano il controllo sulla propria, di vita.
Comunque, sembra che di Alice Kyteler si siano perse la tracce.
Chi dice che scappò in Inghilterra, chi nelle Fiandre, chi in Norvegia.
Fatto sta, che non si seppe più nulla di lei.
Che sia volata via con la sua scopa ?!?!?
La Turchese, un tempo chiamata anche Turchina, Turchessa, Turchesa, Turchesia, Callaina o Callaite, è un minerale azzurro-verde, che può avere un colore uniforme, o presentare venature dendritiche brune/nere di Limonite.
Il suo nome deriva da “Pierre turquois” (Pietra turca), in quanto fu importata in Francia da un commerciante veneziano, nonostante in realtà provenisse dall’Iran.
Infatti pare che i giacimenti, contenenti le migliori Turchesi, si trovino appunto nell’antica Persia, soprattutto nella zona di Nishapur.
Altri giacimenti si trovano in Messico, Brasile, Mar Rosso, USA, Afghanistan, Cina, Israele, Nuova Scozia, Namibia, Arabia, Egitto, Polonia, Russia.
In Iran, questo minerale era chiamato “Ferozah” = “vittorioso” ed in seguito, fino al XIII sec, era noto come “Calläis“, dal greco “Gemma bella”.
Invece in Egitto, la Turchese era chiamata “Mefkat”, che significava ” gioia ” e ” delizia “, ed era considerata il simbolo dell’Aldilà e dell’Universo, della presenza divina sulla Terra.
Quattro braccialetti di Turchese ed oro, considerati i gioielli più antichi conosciuti al Mondo, sono stati ritrovati nel 1900, sul braccio di una mummia egizia e risalgono a cinquemila anni fa.
Non esiste una Turchese rara o migliore, ma ci sono molti rari tipi di Turchese con colori insoliti.
Infatti, esistono rari esemplari di questa gemma con colorazioni blu-viola e cristalli turchesi trasparenti o traslucidi di grande pregio, provenienti dalla Virginia.
La Turchese è una delle pietre curative più antiche della storia, essendo servita per secoli come strumento di guarigione per intere civiltà.
È stata una delle prime pietre preziose mai estratte, cosa che risale al 6000 a.C., nella penisola del Sinai in Egitto.
Gli antichi Egizi seppellivano i loro morti con la Turchese, così come accadeva in Iran e in altre coste persiane, tanto da far acquistare a questa pietra un grande valore spirituale.
In Messico, anche gli Aztechi videro qualcosa di speciale nella Turchese e la usarono spesso, per creare bellissime maschere.
Nel nostro mondo più moderno, la Turchese è sinonimo di cultura dei Nativi americani ed i popoli Navajo e Zuni, i quali pensano che racchiuda in sé tutti gli spiriti animali.
Essi la usano spesso, per preparare bellissimi amuleti, talismani, ciondoli, anelli, bracciali e persino fibbie per cinture.
Con le sue fantastiche sfumature simili alla Via Lattea, la Turchese è una pietra che porta fortuna, cura vecchie ferite e, generalmente, migliora la vita, confermando più vitalità e fortuna nel tuo Mondo.
La Turchese ha un’energia calmante e radicante, che la rende un’ottima pietra per quando ti senti sopraffatto, o per aiutare nella meditazione.
Essa collega il Cielo e la Terra e ti aiuta a connetterti al mondo spirituale, rafforzando anche la tua intuizione, oltre ad essere utile per la protezione e la purificazione.
La Turchese può anche aiutarti a diventare più aperto all’amore ed al perdono, e a rilasciare schemi di auto-sabotaggio.
Questa pietra meravigliosa fornisce conforto e supporto per lo spirito, così come per il corpo fisico.
Da millenni è usata negli amuleti di protezione e, cosa molto importante, si dice che cambi colore per avvertire chi lo indossa di qualsiasi infedeltà nel proprio partner.
La Turchese agisce come un balsamo spirituale per il tuo cuore e la tua mente, che sono stati profondamente colpiti da ferite e stress emotivi.
Le sue potenti energie sono utili, per eliminare l’esaurimento fisico ed emotivo e possono fare miracoli per le persone che soffrono di depressione, o sono soggette ad attacchi di panico.
La Turchese promuoverà l’auto-realizzazione e ti aiuterà ad ottenere ciò che desideri in tutti gli aspetti della tua vita, facendoti capire quale sia il tuo scopo e il tuo vero percorso di vita in questo mondo.
La Turchese può anche agire nel potenziamento del sistema immunitario e nella stimolazione della rigenerazione dei tessuti.
Ha effetti disintossicanti e antinfiammatori, e le sue energie possono aiutare ad alleviare i dolori associati a crampi, mal di stomaco o mal di testa.
Questa pietra è un simbolo di amicizia, e farà in modo che tu e il tuo partner rimaniate amici, qualunque sia la fase nella vostra relazione, in cui vi troviate .
Infatti garantisce che l’amicizia sia sempre lì, anche se stai attraversando momenti difficili.
Tutto questo perché la Turchese simboleggia la guarigione nelle relazioni e ti mostrerà come puoi lasciar andare il dolore, la rabbia, l’amarezza ed il risentimento.
Ti aiuterà a trovare le risposte alle tue domande e ti insegnerà come puoi perdonare te stesso e il tuo partner, per eventuali carenze o mancanze.
Oppure ti aiuterà a liberare i sentimenti nascosti che hai per qualcuno, dandoti il coraggio di fare il primo passo e smuovere una situazione statica.
In Cristalloterapia, il cristallo di Turchese è usato per sollevare lo spirito ed alleggerire le emozioni.
Quando si affrontano ansie o depressioni, questo cristallo è davvero di grande aiuto e, se le tue emozioni sono buone, questo aumenterà la tua sicurezza e ti farà sentire bene in ogni momento.
Il cristallo di Turchese ti ricorderà di rilassarti e di essere in pace, quando sei circondato da rumori o da forze negative.
Troverai facile comunicare ed esprimere i tuoi sentimenti.
Molte persone hanno bisogno di sessioni di terapia, solo per combattere depressioni o ansie, ma indossare o possedere questo tipo di cristallo è una buona scelta.
Inoltre, ti aiuterà ad esprimere di più te stesso ed a produrre più idee.
Accogli la Turchese nella tua casa e lascia che la sua energia idrica fluisca in ogni angolo.
Nel Feng Shui, questa pietra è nota per attrarre ricchezza ed energia, il che significa che è perfetta da mettere in ufficio, se vuoi migliorare la tua posizione.
Essendo anche una pietra per la comunicazione, è adatta quindi per coloro che combattono intorno al tavolo con accesi dibattiti, in quanto la sua influenza calmante potrebbe aiutare tutti a farsi sentire senza trascendere.
Questa pietra di purificazione attenuerà gli effetti negativi dell’esposizione a smog elettromagnetico, onde radio e inquinanti nell’atmosfera.
Se hai difficoltà a dormire, metti semplicemente un pezzo di Turchese sotto il cuscino, perché ha ottime proprietà calmanti, quindi è un utile rimedio contro l’insonnia.
Tieni a portata di mano la tua Turchese, quando senti il bisogno di esprimerti con qualcuno, soprattutto se spesso eviti di condividere i tuoi pensieri, o di sostenere conversazioni difficili.
Infatti, tenerla in mano, mentre parli, può essere di grande conforto e saprà inviare il suo flusso di energia esattamente dove è necessario.
… la callaina viene attaccata dagli oli, dai balsami e dal vizio…
-Plinio-
La Turchese può scolorire a causa degli oli naturali della pelle e deve essere pulita regolarmente con acqua corrente pulita.
Sebbene possa essere porosa, è necessario prestare attenzione a non esporla eccessivamente per periodi troppo lunghi in acqua salata, quindi NON usarla quando vai al mare.
Stessa accortezza anche per le lozioni per le mani, che possono essere dannose per la pietra, e non indossarla quando fai il bagno o nuoti in piscina, in quanto il cloro può influenzare notevolmente la consistenza ed il colore della pietra.
Per mantenere la tua Turchese funzionante al meglio, liberala da eventuali vibrazioni negative che potrebbe aver assorbito, utilizzando un Smudge di Salvia bianca, o coprendola con riso integrale durante la notte.
Una curiosità: la Turchese è la pietra adatta per il 5° e 11° anniversario di matrimonio.
PIANETA: Saturno
ELEMENTO: Terra
SEGNO ZODIACALE ASSOCIATO: Sagittario/Bilancia
CHAKRA: 5, Vishudda (C. della Gola)– 6, Ajna (C. del Terzo occhio)
Il Drago cinese (龙, lóng ), nella cultura, nella mitologia e nel folklore cinese è una creatura leggendaria, solitamente raffigurata con forma animale, tipo pesce e tartaruga, ma soprattutto come un serpente a quattro zampe.
Tradizionalmente, il Drago cinese simboleggia poteri potenti e buon auspicio, collegati soprattutto al clima, nel controllo sull’acqua, le precipitazioni, i tifoni e le inondazioni, i mari.
E’ talmente importate, che in Cina hanno chiamato un famoso tè verde ‘Long Jing‘, in inglese Dragon Well, ovvero “Fonte del Drago”.
A questo proposito, nel tè Long Jing esiste la leggenda in cui si narra che, in un periodo di grande siccità, un monaco taoista invitò gli abitanti a pregare il Drago e finalmente arrivò la pioggia, che pose a quell’arido periodo.
Il Drago può allontanare gli spiriti malvagi e proteggere gli innocenti, e simboleggia anche la fertilità.
Fa parte dei quattro animali leggendari cinesi, la Tartaruga, l’Unicorno e la Fenice, rappresentando uno dei quattro animali benevoli e con poteri magici, che gli permettono di mimetizzarsi, mutare forma e dimensioni.
Il Drago vola nei cieli, vive nelle acque profonde e nelle viscere della Terra.
Creatura buona e nobile, in antichità, era associato all’Imperatore ed al potere imperiale.
Il fondatore della dinastia Han, Liu Bang, affermò di essere stato concepito, dopo che sua madre aveva sognato un Drago.
Durante la dinastia Tang, gli imperatori indossavano abiti con il motivo del drago, come simbolo imperiale, ma anche gli alti funzionari potevano presentarsi con abiti contenenti il simbolo del Drago.
Nell’antica Cina, quindi, l’imperatore era simboleggiato con il Drago e gli era riservato il “Trono del Drago”.
Gli antichi Cinesi si identificavano come gli “Dei del Drago“, in quanto è un rettile immaginario, che rappresenta l’evoluzione dagli antenati e l’energia del Qi.
Infatti, motivi simili a Draghi, in pietra bruno-rossastra sono stati trovati nel sito di Chahai (Liaoning) nella cultura Xinglongwa (6200–5400 a.C).
Ma la presenza di Draghi, all’interno della cultura cinese, risale a diverse migliaia di anni fa, con la scoperta nel 1987 di una statua di Drago risalente al V millennio a.C. della cultura Yangshao, nell’Henan.
Inoltre, nell’antichità i Cinesi, scoprendo ossa di dinosauro, si riferiscono ad esse come ‘Ossa di Drago‘.
In seguito, questo personaggio si è evoluto come animale mitologico, dipinto a forma del Drago con una testa di cavallo e una coda di serpente.
Inoltre, viene descritto come con “tre articolazioni” e “nove somiglianze” del Drago, cioè: dalla testa alla spalla, dalla spalla al petto, dal petto alla coda.
Queste sono le articolazioni; quanto alle nove somiglianze, sono le seguenti: le sue corna somigliano a quelle di un cervo, la sua testa quella di un cammello, i suoi occhi a quelli di un demone, il suo collo a quello di un serpente, il suo ventre a quello di una vongola, le sue squame a quelle di una carpa, i suoi artigli a quelli di un aquila, le sue zampe quelle di una tigre, le sue orecchie a quelle di una mucca.
E sulla testa ha una cosa simile ad un grosso nodulo, chiamato ‘Chimu‘ (尺木) che, senza il quale non può salire al Cielo.
Alcuni Draghi cinesi hanno una perla fiammeggiante sotto il mento o tra gli artigli, la quale è associata all’energia spirituale, alla saggezza, alla prosperità, al potere, all’immortalità, al tuono o alla luna.
Infatti, l’arte cinese raffigura spesso una coppia di Draghi, che inseguono o combattono per la perla fiammeggiante.
Occasionalmente, queste creature possono essere raffigurate con ali da pipistrello, che crescono dagli arti anteriori, ma la maggior parte non ha ali, poiché la loro capacità di volare (e controllare pioggia/acqua, ecc.) è mistica, e non un attributo fisico.
In alcune zone, è considerata sfortuna raffigurare un Drago rivolto verso il basso, poiché è considerato irrispettoso in quanto, in quella posizione, non può salire verso il Cielo.
Nella religione popolare, il Drago cinese, governante i corpi idrici in movimento, come cascate, fiumi o mari, dispensatore di pioggia rappresentazione zoomorfa del potere di generazione maschile, Yang, è spesso raffigurato come un umanoide, vestito con un costume e copricapo da re, ma con una testa di Drago.
Quindi, ci sono quattro principali Re Drago, che rappresentano ciascuno dei Quattro Mari:
¥ Mare Orientale (corrispondente al Mar Cinese orientale)
¥ Mare del Sud (corrispondente al Mar Cinese meridionale)
¥ Mare Occidentale (corrispondente al Lago Qinghai)
¥ Mare del Nord corrispondente al Lago Baikal).
Per questo motivo, in epoca premoderna, molti villaggi cinesi, soprattutto quelli vicini a fiumi e mari, avevano edificato templi dedicati al loro “Re Drago” locale.
In tempi di siccità o inondazioni, era consuetudine che la nobiltà locale ed i funzionari governativi guidassero la comunità, nell’offrire sacrifici e nel condurre altri riti religiosi, per placare il Drago, chiedendo la pioggia o la sua cessazione.
Si narra, che migliaia di anni fa Yandi, un leggendario capo tribù, venne a luce, frutto dell’interazione telepatica di sua madre con un potente Drago.
Con l’aiuto del Drago ed alleandosi con Huangdi, un altro leggendario capo tribù e secondo alcuni, nipote di un Drago, aprì il preludio alla civiltà cinese.
Quindi, gli imperatori Yandi e Huangdi sono gli antenati del popolo cinese, e furono immortalati come Draghi, prima di ascendere al Cielo.
Col passare del tempo, i Cinesi iniziarono a definirsi “i discendenti di Yandi e Huangdi”, nonché “discendenti dei Draghi”.
Nella cultura cinese, le persone eccellenti ed eccezionali sono paragonate a un Drago, mentre le persone incapaci, senza risultati, sono paragonate ad altre creature dispregiate, come un verme.
Numerosi proverbi e modi di dire cinesi fanno riferimenti al Drago, per esempio:
“Sperando che il proprio figlio diventi un drago” (望子成龙 – 望子成龍 ).
Per il Tao (concetto di base del pensiero filosofico e religioso cinese), il Drago rappresenta la Via: ovvero la forza, l’illuminazione che si rivela in un baleno, per poi svanire subito.
Infatti, anche il Drago si mostra soltanto in modo fugace in una frazione di secondo, e soltanto parzialmente e, come la Via, non si coglie mai nella sua interezza.
In Cina, i Draghi hanno vari colori e, a seconda di questi, cambia di significato, in quanto il colore stabilisce la sua anzianità ed altre cose:
DRAGO NERO: è quello più giovane, che ha meno di 100 anni, ed è quello che porta gli ordini dei suoi superiori. Vive al Nord e causa tempeste, quando si scontra con altri Draghi. Il Drago cinese nero è spesso legato alla vendetta. In alcuni film cinesi, molte organizzazioni criminali, o bande di strada, usano i Draghi neri come emblemi e, spesso, i criminali hanno tatuaggi di queste creature sulle braccia o sulla schiena, che rappresentano il male o la vendetta. Nell’antica Cina, il Drago nero è spesso legato a catastrofi, come tempeste e inondazioni.
DRAGO BLU/VERDE: è il messaggero degli Dei, insieme alla fenice, alla tartaruga ed alla tigre bianca. Il Drago blu/verde è associato alla Primavera, a Est. E’ considerato di buon auspicio, in quanto porta vento e pioggia ed a più di 100 anni. Nella cultura cinese, il blu e il verde sono colori che rappresentano la natura, la salute, la guarigione, la pace e la crescita. Un drago blu/verde, quindi, simboleggia l’avvicinarsi della primavera, una nuova vita e la crescita delle piante.
DRAGO GIALLO: è solitario e compare quando si ha bisogno di lui. E’ quello più amato ed è quello più diffuso. Fin dalle antiche dinastie imperiali, il giallo è stato considerato il colore reale. I Draghi gialli erano un simbolo dell’imperatore e rappresentavano saggezza, fortuna e potere.
DRAGO ROSSO: questo è il colore più fortunato della Cina. Viene spesso utilizzato per decorare la casa/edifici, utilizzato per un matrimonio o un festival. Il Drago rosso ha quindi un simbolismo fortunato. Le persone dipingono Draghi rossi per decorare le loro case o passerelle, per celebrare le varie feste. È tradizione usare i Draghi rossi per le ‘danze dei draghi’. La sfilata o ‘danza del drago’ è tipica del Capodanno cinese. Si realizza una grande figura di carta pesta e stoffa, che viene mossa all’interno da un gruppo di persone, che si muovono in movimenti sinuosi e coordinati, che mimano i movimenti del Drago, simboleggiando longevità, portando pioggia e proteggendo contro gli spiriti maligni ed i demoni.
DRAGO BIANCO: dopo 700 anni, il Drago diventa bianco e viene considerato un Dio, simbolo della morte.