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MITI E LEGGENDE
AMORE DA LEGGENDA: YANG GUIFEI E L’IMPERATORE XUANZONG
Scritto da MadameBlatt
scritto da MadameBlatt
Negli anni del 700 d.C., Yang Yuhuan era conosciuta come una delle quattro antiche bellezze cinesi e, così come le altre tre fanciulle, diventò una figura storica oltre che leggendaria.
Storicamente, Yang Yuhuan era la moglie del principe Shou, figlio dell’Imperatore Xuanzong della dinastia Tang.
Ma, bramando la sua bellezza, l’Imperatore Xuanzong voleva averla come sua concubina.
Poiché non poteva sposare ufficialmente sua nuora, lo fece in modo subdolo.
Per prima cosa, fece di Yuhuan una suora taoista, poi le diede il titolo di “Yang la Suprema Verità”, che la autorizzava a diventare un membro della sua corte.
In seguito, nel 745 d.C., l’Imperatore Xuanzong conferì a Yuhuan il titolo di Guifei (First Lady), rendendola la sua “preferita” a corte tra lo sgomento di centinaia di altre sue concubine.
Solitamente, un Imperatore non si sarebbe preoccupato di avere una seria storia d’amore con una concubina, ma l’affetto che aveva per Guifei Yang era eccezionale e, bisogna dire, che anche la donna era molto innamorata del suocero, tanto che i due erano inseparabili.
I favori dell’Imperatore si estesero anche ai suoi parenti e un cugino della donna in particolare, Yang Guozhong, fu nominato primo ministro, rivelandosi però una persona malvagia, che si fece molti nemici dentro e fuori la corte.
L’Imperatore Xuanzong e Guifei Yang avevano entrambi una mentalità artistica, il primo esperto di strumenti musicali e la seconda nel canto e nel ballo.
Insieme si esibivano spesso nell’allora famosa ‘Rainbow Feather Garment Dance’ (Danza dell’abito di piume e arcobaleno), tuttavia i bei tempi non durarono a lungo.
Infatti, mentre l’Imperatore si abbandonava alla passione per Guifei Yang, scoppiò la guerra civile alle frontiere.
Nel primo decennio del sesto secolo, il governo Tang aveva stabilito molte fortezze, conosciute come città ‘fan’, nelle frontiere settentrionali per rinforzare la loro difesa ed aveva conferito il titolo di ‘Jiedushi’ (Governatore militare) ai loro massimi capi, che avevano così diritto a enormi poteri militari, civili e finanziari.
Nel 755 d.C., un Jiedushi di nome An Lushan divenne così potente, che iniziò a sfidare la sovranità dell’Imperatore Xuanzong guidando, fra l’altro, una ribellione che chiedeva la fine del governo corrotto del primo ministro Yang Guozhong, cugino di Guifei Yang.
Quando l’esercito ribelle marciò verso Chang’an, la capitale, l’Imperatore dovette fuggire con i suoi cortigiani, scortato da un esercito.
Raggiunto un villaggio chiamato Mawei Slope, a poco più di 100 li dalla capitale, i soldati ed i loro ufficiali si rifiutarono di proseguire e chiesero che il primo ministro Yang Guozhong e sua cugina Yang Guifei fossero eliminati, incolpandoli dei problemi che avevano assillato la dinastia.
L’imperatore Xuanzong dovette purtroppo cedere alla loro richiesta, anche se amava teneramente Guifei Yang e sapeva che era diventata il capro espiatorio dei misfatti del Primo Ministro.
Dopotutto, la sua vita e, per estensione, il destino della dinastia, era più importante di quello di una donna.
Naturalmente, Guifei Yang venne a conoscenza di ciò che era accaduto e venne sopraffatta da un immenso dolore.
Senza rancore contro il suo amante regale, con molta riluttanza si impiccò con una sciarpa bianca, senza che l’onnipotente ed affettuoso Imperatore potesse impedirlo. Coprendosi il viso con le mani, lasciò scorrere le lacrime senza controllo.
La ribellione, così, fu finalmente sedata e l’Imperatore Xuanzong tornò al suo palazzo.
Ma ora che Guifei Yang se n’era andata per sempre, egli non aveva altro in mente che il suo ricordo: tutto ciò che vedeva e toccava gli ricordava i loro momenti insieme.
Le radici di loto del lago ricordavano la pelle chiara ed i rami di salice le sopracciglia della sua adorata.
L’Imperatore divenne svogliato e insonne e, quando riusciva a dormire, l’assenza di Guifei Yang si faceva sentire più dilaniante che mai nei sogni.
Vedendo che l’Imperatore soffriva così tanto per la morte di Guifei Yang, un prete taoista si offrì di aiutarlo, affermando di poter comunicare con i defunti.
Quindi, iniziò a cercare lo spirito di Guifei Yang in paradiso e negli inferi, alla fine rintracciandolo in un’isola divina, sulla quale si ergevano padiglioni dopo padiglioni, popolati da ninfe e fate.
Guifei Yang era la più bella di tutte e, all’arrivo dell’inviato del suo amante reale, si affrettò fuori dalla sua camera senza curarsi troppo del proprio aspetto.
Eppure era bella come quando aveva fatto la “danza dell’abito di piume e arcobaleno”.
Piangendo, lo spirito della donna ringraziò l’inviato per averle portato l’amore dell’Imperatore:
«Per favore, dillo a sua maestà. Sebbene la vita sia breve nel mondo mortale, è senza tempo su quest’isola divina. Date questa metà della mia forcina al mio diletto e fategli conoscere il mio amore per lui: è solida come l’oro di cui è fatta».
Ogni settimo giorno del settimo mese, l’Imperatore Xuanzong visitava il Tempio della Longevità, dove poteva comunicare tranquillamente con la sua amata e pregava:
«Possiamo essere uccelli gemelli che volano fianco a fianco in cielo e alberi gemelli intrecciati sulla terra».
La loro storia d’amore, culminata con una tragica fine, guadagnò l’ammirazione delle generazioni a venire e divenne leggenda, ma all’epoca incorse in una forte disapprovazione da parte dei sudditi dell’imperatore.
Tra le tante leggende, il poema “Lament of Endless Grief” (Lamento di dolore senza fine), scritto da Bai Juyi, uno dei più grandi poeti Tang, è il più popolare.
SCILLA E CARIDDI, LA LEGGENDA DELLO STRETTO DI MESSINA
Scritto da MadameBlatt
scritto da MadameBlatt
La piccola città costiera di Scilla, U Scigghiju, appena a nord di Reggio Calabria, sulla Costa Viola, oggi è una rinomata località turistica situata su un promontorio all’ingresso settentrionale dello Stretto di Messina.
Il suo nome Skýla, dal greco “cagna”, richiama un misterioso mostro marino, descritto da Omero nella sua opera “Odissea”, ma anche da Esiodo ed Ovidio.
Nel XIV libro delle ‘Metamorfosi di Ovidio’, Scilla era una ninfa di incredibile bellezza dai lunghi capelli corvini e gli occhi luminosi come stelle, la cui storia si intrecciò a quella di Glauco, un bellissimo pescatore della città di Antedone, in Beozia, dai lunghi capelli rossi, figlio di Poseidone.
Scilla abitava sulle sponde della Calabria, ma amava bagnarsi nelle acque cristalline di Messina.
Glauco era amato e corteggiato senza successo da molte sirene, finché un giorno, mangiando un’erba argentata cresciuta nei pressi di una spiaggia, il giovane si tramutò in un Tritone, diventando un semidio immortale del mare.
Al posto delle gambe ebbe una coda da sirena, le spalle diventarono sempre più larghe, le guance si ricoprirono di una peluria verde.
Un giorno, Glauco vide Scilla e se ne innamorò perdutamente ma la giovane, avendo paura di lui, lo respinse, nonostante i tentativi del semidio di sedurla, vantandosi della sua natura divina.
Continuando ad essere respinto, Glauco chiese aiuto alla maga Circe, dicendole di preparare una pozione magica che potesse fare bruciare Scilla d’amore verso di lui.
Ma Circe era innamorata di Glauco, e provò a dissuaderlo con delle parole:
“meglio sarebbe che tu vagheggiassi chi ti vuole,
chi ha gli stessi desideri ed è presa da uguale passione”.
La maga, quindi, si offrì a Glauco, il quale la rifiutò provocando la sua ira e il suo desiderio di vendetta.
Però, invece di vendicarsi sul semidio, diresse la sua ira verso l’innocente Scilla, che non aveva nessuna colpa.
Quindi, la maga preparò una pozione magica che versò nelle acque in cui Scilla nuotava, tramutandola in un mostro con le teste di sei cani attorno alla vita e con tre file di denti.
La fanciulla, per l’orrore che ebbe di sé, si nascose in una grotta sottomarina sulle sponde calabre, dove secondo la leggenda ancora vive.
Secondo Esiodo, un antico poeta greco del VII sec, Scilla era la figlia di Ecate, la quale era associata alla Luna, agli Inferi e, soprattutto, ai feroci segugi.
Invece Omero, la descrive come figlia di Crataide e del Dio del mare Forco, anche se potrebbe trattarsi di Tifone, Tritone o Tirreno, tutte figure legate al mare.
Successivamente, in altre narrazioni Scilla era una bellissima umana mortale, che aveva relazioni con Poseidone, Minosse re di Creta e il Dio del mare Glauco, fino a quando per gelosia venne trasformata dalla maga Circe, o dalla ninfa del mare Anfitrite, consorte di Poseidone, in un mostro.
La fanciulla venne colta di sorpresa nella sua piscina e, quando le erbe magiche furono gettate nelle acque, si trasformò nell’orrenda creatura.
Le zampe scomparvero e, al loro posto, comparvero terribili cani dai denti aguzzi che abbaiavano.
Queste bestie erano pronte a lacerare qualunque cosa fosse alla loro portata.
Scilla, la cui parte superiore era rimasta intatta, assistette con orrore alla sua trasformazione.
Così Scilla venne trasformata in un mostro con dodici zampe e sei teste che spuntavano da varie parti del corpo, ciascuna con tre feroci file di denti, così che il suo morso fosse decisamente peggiore della sua corazza.
I cani la trascinarono via, si fermarono solo quando arrivarono sulla costa italiana che domina la Sicilia, dove era destinata a rimanere, nascosta in una grotta, costretta a divorare i marinai che si avventuravano nello Stretto di Messina.
Abitando in una caverna in alto nelle scogliere dello stretto, Scilla attendeva che prede ignare, ovvero pesci, delfini e uomini, le passassero davanti e poi lanciava una delle sue teste, per trascinare la vittima nella sua tana, per schiacciarla e mangiarla a piacere.
“Nessuno poteva guardarla con gioia, nemmeno un dio se passava di lì. Ha dodici piedi, tutti penzolanti nell’aria, e sei lunghi colli magri, ognuno dei quali termina in una testa macabra con tripla fila di zanne, fitte e fitte, e cupamente minacciose di morte. Fino alla cintola è sprofondata nel fondo della caverna, ma le sue teste sporgono dal pauroso abisso, e così pesca dalla propria dimora, brancolando avidamente intorno alla roccia”.
-Odissea , 12:87-95-
La rupe su cui Scilla vive:
“La sua cima affilata… è ricoperta da nuvole nere che non scorrono mai via né lasciano il tempo sereno intorno alla cima, anche in estate o al tempo del raccolto. Nessun uomo sulla terra potrebbe salire in cima o anche solo mettervi piede, nemmeno se avesse venti mani e piedi per aiutarlo, perché la roccia è liscia come se fosse stata levigata. Ma a metà della rupe c’è una caverna oscura, rivolta a ovest e che scende verso Erebus… Neppure un forte giovane arciere potrebbe raggiungere l’imboccatura spalancata della caverna con una freccia scagliata da una nave sottostante… Nessun equipaggio può vantarsi di aver mai navigato la loro nave oltre Scilla indenne … Scilla non è nata per la morte: è una cosa del terrore, intrattabile, feroce e impossibile da combattere”.
-Odissea, 12:75-120-
Nel V secolo a.C.,Scilla apparve sulle monete di Cuma e di Acragas (l’odierna Agrigento) e su numerosi vasi di ceramica a figure rosse del V e IV secolo a.C.,soprattutto in quelli della ceramica attica e dell’Italia meridionale a figure rosse, ritratta come una specie di sirena con teste di cane che escono dalla sua vita.
Fu così che Scilla si ritrovò per caso con Cariddi, sua compagna di continue stragi di marinai.
Le due condividono un triste destino ed una storia.
Cariddi era una ninfa figlia di Poseidone e Gea, bella e graziosa, ed era famosa per possedere una smisurata ingordigia, golosa ed insaziabile.
La ninfa era però anche incline ai furti e così, un giorno, rubò a Ercole una mandria di buoi, che lui aveva precedentemente e “a fatica” rubato a Gerione, per compiere la sua decima fatica.
Ercole, figlio di Zeus, si adirò con lei e, per vendicarsi. invocò suo padre il quale, per punirla del suo gesto, le scagliò addosso un fulmine e la gettò nelle acque dello Stretto di Messina.
Una volta nell’abisso, Cariddi fu trasformata in un mostro simile a una lampara, che per tre volte al giorno ingurgitava acqua salata e altrettante volte la rigettava, creando vortici e forti correnti, capaci di affondare qualsiasi nave.
Cariddi prese come residenza una grotta, di fronte a quella di Scilla, compagna delle sue continue stragi di marinai e, mentre quest’ultima schiacciava nelle sue fauci gli incauti uomini, Cariddi li ingoiava e li respingeva con un possente ruggito.
Chiunque attraversava lo Stretto, era atteso da una tragica fine.
Un’altra versione racconta che, invece, la ninfa fosse una creatura libidinosa, oppure che, molto tempo fa nacque una bellissima naiade dal grande Dio del mare, Poseidone.
Il suo nome era Cariddi ed amava e ammirava suo padre con tutto il cuore.
E così, quando Poseidone entrò in guerra con il grande Dio Zeus e scatenò grandi tempeste, Cariddi cavalcò le maree, portando l’acqua sulle spiagge.
In questo modo, il mare inghiottì villaggi, campi, foreste e città, rivendicandoli per Poseidone.
Dopo un po’ di tempo, Cariddi aveva conquistato così tante terre per il regno di suo padre, che Zeus si arrabbiò con lei.
Giurò di fermarla per sempre e, per fare questo, la trasformò in un mostro dalla grande bocca spalancata, mentre le sue braccia e le sue gambe divennero pinne.
Da quel momento, Cariddi fu costretta a vivere in una grotta sotto un fico solitario su un’isoletta nello Stretto di Messina.
Tra coloro che si scontrarono con i mostri c’era il grande Odisseo (Ulisse).
Nell’Odissea di Omero, le acque vorticose di Cariddi fecero naufragare la nave dell’eroe Ulisse, mentre tornava a casa dalla guerra di Troia.
Appena sopravvissuta alle sirene, la nave, nel tentativo di evitare Cariddi, si avvicinò un po’ troppo alla tana di Scilla.
I sei migliori membri dell’equipaggio di Ulisse furono afferrati dalle sei teste di Scilla, mentre attraversavano le acque turbolente dello stretto.
La nave oltrepassò le vittime ancora urlanti e riuscì a superare il passaggio, ma la fuga fu solo temporanea.
Sbarcati in Sicilia, gli uomini di Ulisse ignorarono le rigide tradizioni locali e cucinarono del bestiame sacro, che apparteneva a Iperione.
Come punizione, Zeus mandò quindi una tempesta e uno dei suoi fulmini, che fracassò l’albero, uccise il timoniere mentre cadeva.
La nave fece naufragio, l’equipaggio annegò e solo Ulisse sopravvisse, legando insieme pezzi di relitti.
Però, arrivò un’altra tempesta e trascinò l’eroe a Cariddi, dove fu sballottato, finché riuscì a scappare aggrappandosi al ramo sporgente di un fico selvatico.
Quindi, egli programmò la sua fuga, aspettando che le acque lo vomitassero fuori e lo portassero al sicuro insieme al relitto della sua nave.
Finalmente, dopo nove giorni alla deriva, la fortuna dell’eroe era cambiata!
Questo mito è sicuramente l’interpretazione antropomorfica delle due correnti che si incontrano nello Stretto di Messina, prodotte dal Mar Ionio e dal Mar Tirreno, rispettivamente una più calda e l’altra più fredda.
Questo incontro provoca il fenomeno dei cosiddetti “Gorghi dello stretto”, che altro non sono che gorghi nell’acqua che ricordano le tre bocche di Cariddi.
La combinazione di Scilla e Cariddi ha dato origine a un vecchio detto di “trovarsi tra Scilla e Cariddi“, un detto che si è evoluto nell’idioma più popolare, “tra l’incudine e il martello“, entrambi equivalenti a pericoli in qualsiasi direzione vengano affrontati .
Questa è una meravigliosa leggenda su un vero e proprio pericolo, che ci hanno tramandato navigatori e marinai un tempo terrorizzati…
Ancora oggi i mostri marini rimangono un terrore per tutti i marinai di passaggio e le fonti di molti racconti.
Certo, ora siamo più tranquilli, ma i veri uomini e le vere donne di mare comprendono il pericolo che si nasconde sotto l’acqua, lontano dalla vista, ma mai veramente lontano dalla mente.
Fate attenzione…
**Specie di Drimia che prende il nome dalla leggenda
“Quando ho visto per la prima volta il Monte Shasta
sopra le pieghe intrecciate della Sacramento Valley,
il mio sangue si è trasformato in vino
e da allora non mi sono più stancato.”
— John Muir, 1874 —
Con i suoi 4.321,8 metri, Mount Shasta, situato nel sud della Catena delle Cascate, nella contea di Siskiyou in California, sembra voler toccare il cielo.
Quinta vetta più elevata dello Stato, è uno stratovulcano, ovvero un vulcano a forma conica, formato dalla sovrapposizione di vari strati di lava solidificata, pomice e ceneri vulcaniche e caratterizzato da pendii piuttosto ripidi (fino a 45°) e da periodiche eruzioni di tipo esplosivo.
Ma il Monte Shasta, in realtà, “tace” dal 1786, anche se non è detto che lo faccia per sempre.
Per migliaia di anni, i Nativi americani delle tribù Shasta, Klamath, Pit, Modoc e Wintu hanno utilizzato le abbondanti risorse naturali dell’area del Monte Shasta.
Intorno al 1820 arrivarono i primi Europei, accodati ai cacciatori che vi erano andati per gli animali da pelliccia. Argento e Oro portarono i minatori in quest’area, dopo il 1851 e, quando la ferrovia pose i binari attraverso Strawberry Valley nel 1887, iniziò l’industria del legname.
Oggi, gli amanti dell’outdoor, dagli appassionati di sport estremi ai vacanzieri in famiglia e ai pensionati, godono delle vaste opportunità ricreative che la regione del Monte Shasta ha da offrire.
Ma questo magnifico monte, veramente eccezionale da guardare, non è solo famoso per sua bellezza, in realtà è sempre stato oggetto di un numero insolitamente elevato di miti e leggende.
Il Monte Shasta è un magnete: i viaggiatori non vanno lì solo per ammirare la sua statura, o per sfruttare il relax e lo svago che offre, tanti rimangono in balia della sua costante maestosità innevata e da tutti i segreti che cela.
Molto tempo fa, gli Indiani nativi americani lo consideravano un luogo sacro e, per la maggior parte delle persone, oggi lo è ancora.
Migrando da una fonte di cibo all’altra, varie tribù indiane usavano Shasta come punto cardinale.
In piedi da solo, sentinella, faro, punto di differenza, qualunque sia l’aggettivo applicato, è una montagna infernale.
E’ impossibile non rimanerne attratti!
Scopriamone insieme qualche motivo…
IL MISTERO DEL BUCO
Circa 10 anni fa, è apparso un buco profondo circa 20 metri sul lato del Monte Shasta,
Sembrava che fosse stato scavato a mano di notte, usando un sistema di carrucole improvvisato per rimuovere la terra in eccesso.
Gli unici indizi lasciati dagli scavatori erano una scala, alcuni secchi e una bottiglia d’acqua di plastica.
Elijah Sullivan, un uomo cresciuto a Mount Shasta, un’antica città di disboscatori che si trova alla base della montagna, da cui ha preso il nome, è da circa un decennio che cerca di risolvere il mistero di questo buco gigante, cosa che ha dato vita ad un docu-film intitolato “The Hole Story”.
La montagna è sacra per la tribù Winnemem Wintu, originaria dell’area del fiume McCloud nella California settentrionale, ed il suo capo, Caleen Sisk si è detto preoccupato che i visitatori la stiano danneggiando
Quindi, una delle teorie di Sullivan si basa sul fatto, che qualcuno abbia scavato un buco gigantesco alla ricerca di manufatti dei Nativi americani.
Infatti, è risaputo che esiste un’enorme attività di saccheggio di artefatti di nativi americani, visto che, per secoli, tante tribù hanno abitato le pendici del Shasta, nonostante ciò sia reato.
Altri affermano, che gli scavatori stessero cercando l’oro e che qualcuno alla fine è stato perseguito per aver scavato il buco.
Il buco continua ad essere un mistero a distanza di anni, ma Sullivan perseguita nella sua ricerca di verità.
PERSONE SCOMPARSE
Nella contea di Siskiyou, ci sono casi di persone scomparse, che tuttora rimangono irrisolte.
= Dieci giorni prima del Natale del 2002, la 34enne Angie Fullmer, di Mount Shasta, messi sotto l’albero dei regali per le sue figlie, andò a fare un giro intorno al lago Siskiyou con il suo fidanzato.
La coppia iniziò a litigare, quindi lei scese dal camion dell’uomo e andò via.
Quasi subito l’uomo sentì sbattere la portiera di un’auto, quindi credette che qualcuno avesse dato un passaggio alla donna, per tornare a casa.
Dopo 12 ore, però, egli denunciò la scomparsa di Angie, la quale non è mai stata ritrovata.
= La quindicenne Hannah Zaccaglini fu vista l’ultima volta, mentre usciva da casa di un suo vicino, per tornare nella sua abitazione a McCloud, località alle pendici del Monte Shasta, la sera del 4 giugno 1997.
Lì non è mai arrivata e non è mai stata più vista.
La maggior parte degli effetti personali di Hannah sono stati lasciati a casa, compresi i vestiti, la borsa, i soldi, la spazzola per capelli, la ventiquattrore e il basso. Sebbene un padre e un figlio siano stati arrestati in relazione al suo omicidio nel dicembre 2012, le accuse sono state successivamente ritirate per mancanza di prove.
Il caso di Hannah Zaccaglini resta irrisolto.
= Al momento della sua scomparsa, Davohnte Morgan stava visitando Mount Shasta.
Fu visto l’ultima volta su un video di sorveglianza, mentre camminava sul Mt. Shasta Boulevard, la mattina del 5 maggio 2020.
La ragazza di Morgan riferì alla polizia, che avevano litigato il 4 maggio e si erano lasciati.
Il giorno dopo, la donna uscì dal suo hotel per una passeggiata e, mentre rientrava in stanza,raccontò sempre agli agenti, di aver superato Morgan, ma non si erano scambiati parola.
L’uomo non fu mai più visto né sentito.
Ancora oggi, c’è una ricompensa di $ 25.000, per chiunque possa fornire informazioni che portino a ritrovare Morgan.
= Sempre nell’area di McCloud, scomparve Karin Elizabeth Knechtel Mero la quale, in quel giorno del 15 febbraio 1997, aveva 27 anni.
Però, la sua scomparsa fu denunciata solo otto mesi dopo, in quanto le autorità ed i suoi genitori, inizialmente, credevano che Karin fosse fuggita spontaneamente, per evitare un mandato d’arresto nei suoi confronti.
Ma con il passare dei mesi senza sue notizie, la polizia e la sua famiglia iniziarono a preoccuparsi.
Anche perché, 3 anni prima la ragazza aveva subito un trapianto di fegato e doveva assumere dei farmaci che nessuno mai aveva richiesto.
Ciò portò le autorità a credere che fosse morta.
Il suo caso è spesso citato con quello di Hannah Zaccaglini, in quanto le due donne sono scomparse più o meno nello stesso periodo, vicino allo stesso luogo, ed avevano le stesse conoscenze e amicizie.
Ma questi sono solo alcuni dei casi di sparizioni irrisolte sul Monte Shasta.
CHAKRA
I nostri corpi rispecchiano la Terra, ma anche l’intero Universo.
La Terra sperimenta i centri energetici, come diversi livelli di coscienza, e così anche i nostri corpi.
Nel nostro corpo esistono sette centri energetici principali chiamati Chakra, ma anche sette nel Mondo.
Questi ultimi sette Chakra, Chiave della Terra sono:
I o della Radice (base della spina dorsale) – Monte Shasta, California
II o Sacrale (sotto l’ombelico) – Lago Titicaca, Sud America
III o del Plesso Solare (sopra l’ombelico) – Uluru-Katatjuta, Australia
IV o del Cuore (cuore )- Glastonbury Tor-Shaftesbury, Inghilterra
V o della Gola (gola)- Grande Piramide – Monte degli Ulivi
VI o Terzo Occhio (base superiore del naso) – Kuh-e Malek Slah, Iran
VII o della Corona (parte superiore della testa) – Monte Kailas, Tibet
Quindi, il Monte Shasta detiene la posizione di primo, della Radice o Chakra di base del Mondo.
Testimonianze raccontano di sensazioni di leggerezza, di profonda connessione, come se, da un momento all’altro, Esseri mistici possano apparire da dietro questa gigantesca roccia.
E ancora di una sensazione di travolgente pace, vicino alle sorgenti di acqua pura del fiume Sacramento situato alla base del Monte Shasta.
Questo è davvero un posto molto speciale.
LEMURIA
Si narra, e si crede, che il Monte Shasta ospiti Lemuria un’antica civiltà segreta abitata dai discendenti di quelli che vengono chiamati i Lemuriani.
Essi sono persone presumibilmente dotate di capacità tecnologicamente avanzate, e si dice che siano stati i primi umani sulla Terra, e che vivevano in un continente sommerso perduto, noto come Lemuria.
Inoltre possiedono un organo delle dimensioni di una noce, che sporge dalla loro fronte e presumibilmente li impregna di vasti poteri psichici come ESP, telecinesi, telepatia, capacità di apparire e scomparire a piacimento ed il potere di influenzare le menti degli altri.
La storia narra che, quando il loro continente affondò a causa di un non meglio specificato evento apocalittico e cataclismico, che secondo alcuni fu lo stesso che affondò la più nota Atlantide, e che per altri è il Diluvio Universale, questo popolo si rifugiò nelle viscere di Mount Shasta.
Questa convinzione nasce da un libro intitolato ‘A Dweller on Two Planets’, scritto da Frederick S. Oliver nel 1899, il quale narra la sua storia…
Nell’estate del 1883, l’adolescente Frederick aiutò la sua famiglia a segnare i confini della loro terra, come da richiesta per l’estrazione mineraria, che prevedeva di piantare pali di legno nel terreno, e quindi segnare la loro posizione su un taccuino.
Ad un certo punto durante questo arduo compito, la mano di Frederick iniziò a tremare e ad avere convulsioni in modo incontrollabile, per poi scrivere cose apparentemente di sua spontanea volontà.
Il ragazzo corse a casa in preda al panico, la sua mano continuava ad agire di propria iniziativa, scrivendo febbrilmente per tutto il percorso, come se avesse una mente propria e, appena arrivò sua madre, gli diede altra carta su cui scrivere.
Frederick, anzi la sua mano, continuò a scrivere, e scrivere, e scrivere, scarabocchiando sul foglio.Quando finalmente si placò, si rivelò come l’inizio di un testo.
Nei tre anni successivi, la mano di Frederick veniva occasionalmente sopraffatta da questa forza misteriosa, scrivendo diverse pagine qua e là, finché finalmente nel 1895 completò un intero libro, che raccontava e descriveva l’esistenza di una città segreta della Lemuria sul Monte Shasta e la sua storia.
Il ragazzo continuò, affermando di essere stato scelto dai Lemuriani come loro segretario, e che l’intero libro era stato incanalato telepaticamente attraverso di lui e sulla carta tramite la scrittura automatica.
Frederick affermò anche di essere stato portato astralmente nella città stessa e di averla vista con i propri occhi, descrivendola come se si trovasse nelle profondità della montagna e comprendesse vasti labirinti di tunnel illuminati con porte automatiche segrete, elegante architettura e appartamenti placcati d’oro e tappezzati di una lussuosa sostanza soffice.
In effetti, secondo Frederick, l’intera città era generosamente addobbata di scintillanti cristalli, oro, argento, bronzo e pietre preziose, il tutto alimentato da energie cristalline, brillantemente illuminato ed era inaccessibile agli estranei, senza l’espresso invito degli stessi Lemuriani.
In questa fantastica città abbondava l’alta tecnologia, con numerose menzioni di vari incredibili gadget e veicoli impiegati dai residenti della città, compresi grandi dirigibili a forma di sigaro che sfrecciavano e si libravano sopra di loro.
Questo libro, in realtà, era piuttosto rivoluzionario e in anticipo sui tempi quando fu pubblicato, facendo menzione dettagliata di nozioni concettuali così elevate come la meccanica quantistica, l’antigravità, il transito di massa e l’energia del punto zero, che chiamava “energia del lato oscuro”, tutti concetti estremamente unici e prematuri all’epoca.
Purtroppo, lo scrittore morì nel 1899 all’età di 33 anni, ma il suo bizzarro libro fu finalmente pubblicato nel 1905 da sua madre, Mary Elizabeth Manley-Oliver.
Al momento della pubblicazione, il libro di Frederick Oliver divenne istantaneamente un classico dell’occulto ed una fonte apertamente riconosciuta per molti sistemi di credenze, sette e culti New Age.
Generò anche un sequel intitolato ‘An Earth Dweller’s Return’, ma non fu certamente l’ultima menzione letteraria della strana città perduta dei Lemuriani sul Monte Shasta.
Infatti, da quel momento in poi, la fama e gli scritti su questo misterioso luogo non si sarebbero più potuti contare.
Tra i vari racconti che si facevano, sul Monte Shasta, ce n’è uno interessante del 1932, di un certo signor Edward Lanser, il quale stava passando mitico Monte su un treno, quando vide l’intero lato meridionale della montagna prendere vita, di una strana illuminazione rosso-verde brillante, quasi accecante.
Quando chiese al capotreno cosa avesse visto, gli fu assicurato che era opera dei Lemuriani.
Il perplesso Lanser in seguito indagò ulteriormente sulla strana luce, chiedendo alla gente delle città della zona cosa avesse visto.
Gli fu risposto che c’era una misteriosa comunità di persone, che viveva all’interno della montagna, nota per eseguire rituali mattina e sera, che faceva uso di strane fonti di luce brillante.
Probabilmente Lanser aveva assistito ad un rito conosciuto come la “Cerimonia di adorazione a Guatama”.
Si suppone che “Guatama” fosse la parola Lemuriana per “America”, e che la cerimonia celebrasse l’arrivo dei loro antenati nel continente, dopo che la loro civiltà era stata tragicamente inghiottita sotto le onde.
I Lemuriani erano noti per scendere dal loro segreto regno di montagna in città di tanto in tanto, e che avessero un fisico “torreggiante” e dall’aspetto strano, abbigliati con le loro vesti bianche e a piedi nudi, che compravano enormi quantità di zolfo, sale e strutto, e che pagavano sempre in pepite d’oro, che superavano di gran lunga il valore della merce.
Quando Lanser manifestò la volontà di salire sulla montagna e trovare questi Lemuriani, oltre alla fonte di luce che aveva visto, venne ridicolizzato, gli venne impedito di attuare ciò e le sue speranze di trovare la città furono deluse irrimediabilmente.
Invece nel 1940, il professor Edward L. Larkin del Mt. Lowe Observatory, affermò di aver a lungo osservato la mistica città, attraverso il suo telescopio in diverse occasioni.
Larkin aveva scoperto la città per caso, mentre stava calibrando il suo telescopio e aveva visto qualcosa che brillava in modo anomalo sulla montagna.
Trovando che ciò fosse strano, si concentrò quindi sull’oggetto e scoprì che si trattava di un enorme tempio in “stile orientale”, che descrisse come “un’opera meravigliosa di marmo scolpito e onice che rivaleggia in splendore architettonico con la magnificenza dei templi dello Yucatan”.
Il professore in seguito raccontò di aver visto anche altri templi sul fianco della montagna, alcuni dei quali replicavano lo stile greco, con magnifiche colonne di marmo bianco splendente.
Spesso c’erano misteriose luci intense nelle ore serali, ed affermò che i templi e le luci provenivano dai discendenti del popolo Lemuriano.
Nel 1962, un articolo di Andrew Tomas raccontò di un incendio boschivo del ’31, che aveva devastato gran parte della montagna, e che si era bloccato grazie all’avanzare di una misteriosa nebbia, apparsa misteriosamente, che fermò il fuoco.
Il giorno dopo l’incendio, si scoprì che era rimasta una zona di demarcazione perfettamente chiara e curva, tra la terra carbonizzata e le aree non danneggiate.
La gente del posto disse che questo era opera dei Lemuriani, che proteggevano il loro dominio attraverso qualche magia tecnologica sconosciuta.
Anche in tempi attuali, si narra di vedere persone camminare lungo le pendici o per le strade cittadine delle città sul Monte Shasta, solo per scomparire improvvisamente come se non fossero mai stati lì, presumibilmente a causa delle loro capacità psichiche e della straordinaria abilità esperta nel mimetizzarsi con l’ambiente circostante.
Spesso sono solo intravisti con visione periferica (quando diciamo “ho visto con la coda dell’occhio”) e sfuggono a qualsiasi tentativo di individuarli direttamente.
A volte sono noti per apparire per aiutare gli agricoltori che sono caduti in disgrazia, utilizzando una sorta di tecniche agricole avanzate, che fanno rivivere il suolo come per magia.
Ma di questi racconti ne esistono a migliaia.
Abbondano anche le storie di persone che entrano effettivamente nella meravigliosa e ingioiellata città di Lemuria.
Un certo dottor M. Doreal affermò di essere penetrato nella tana di montagna dei Lemuriani, e di aver visto quella che descrisse come “un’enorme caverna lunga 20 miglia, larga 15 miglia e alta 2 miglia, illuminata da un gigantesco, ardente sole artificiale proprio al centro”.
Ancora un altro resoconto menziona un uomo che si addormentò sulla montagna solo per essere svegliato da un Lemuriano, che poi lo portò in una magnifica città lastricata d’oro.
Sebbene esploratori più moderni abbiano cercato di trovare il misterioso complesso sotterraneo Lemuria, la sua ubicazione, rimane il perenne dubbio, se sia mai realmente esistita.
Si continua a domandarsi, chi siano questi presunti Lemuriani, sopravvissuti di un continente perduto da tempo o Alieni?
Sono degli Esseri interdimensionali, oppure un gruppo di hippy accampati nel deserto?
Ma i resoconti sono veri?
Ciò che si sa, è che il Monte Shasta è stato a lungo circondato da miti e leggende, una vetta imponente e maestosa che ha attirato, e ancora attira, su di sé strane storie.
Insomma, cristalli di quarzo brillano e lastricano la strada per portare a Mount Shasta, circondata dalla sua nuvola di mistero.
Chiaroveggenti, sciamani, allineatori di Chakra, insegnanti di yoga, massaggiatori, scavatori di anime: tutti sono qui a causa della montagna.
Tutti sono attratti dalla sua reputazione di Portale diretto verso un’altra dimensione.
Che sia Lemuria, Atlantide, o qualsiasi altra cosa, Shasta è la porta d’ingresso di una casa mistica, in un quartiere alieno di realtà alternativa.
L’impulso di andare verso l’ignoto è molto più grande della paura di lasciare ciò che si conosce.
Alcuni combattono Shasta per tanto tempo, prima di non poterla più negare.
Dalla prima volta che se ne sente parlare e, soprattutto se si mettono gli occhi sul Monte Shasta, si capisce che non se ne potrà più fare a meno.
Se poni la domanda comune:
“Cosa ti ha portato al Monte Shasta?”
Possono esserci solo due tipi di risposta:
1) “Non lo so, so solo che devo essere qui”.
2) “La montagna mi ha chiamato”.
Mount Shasta ha un effetto trainante sul campo energetico, cose a cui non pensavi da una vita, potrebbero essere esposte e portate nella tua mente con tutta la loro forza. Vecchie ferite ed avvenimenti negativi potrebbero riversarsi nella tua mente con un livello molto maggiore di significato e chiarezza.
E’ come se la montagna volesse eliminare tutto ciò che non hai affrontato dal tuo passato.
Perché, esso prima deve essere sentito per conoscerlo, in modo che possa essere guarito.
E’ una sorta di catarsi.
Lo senti anche tu questo richiamo?
Glorioso Monte Shasta
Shasta! O Monte Shasta!
Quali segreti nascondi,
Cosa abita in quel tuo cuore,
Quale luce dimora?
Sotto le tue vette innevate così luminose
Quali benedizioni tieni,
Quale conoscenza custodisci così bene
Da coloro che cercano di audacia?
Penso di sentirti parlare con me
Dalle tue pure altezze lassù.
Sento e sento la tua risposta ora;
“C’è solo un modo: attraverso l’Amore!”
“Per chi conosce bene quella
‘Presenza’ e la vive, inoltre,
I miei segreti sono un libro aperto,
A lui non ho nulla da nascondere.
“Impara bene che la chiave d’oro della vita,
Apre ogni serratura;
Con essa puoi spalancare la mia porta,
Perché l’amore non ha mai bisogno di bussare.
“O figli della Terra che cercate più Luce,
Imparate prima il Grande Comando dell’Amore!
Versate i Suoi Flussi d’oro curativi,
E rimarrete nel mio Cuore.”
-Godfre Ray King-
The Butterfly Lovers, gli Amanti delle Farfalle, è una leggenda cinese, ambientata durante la dinastia Jin orientale (266–420 d.C.) e narra di una tragica storia d’amore di una coppia di amanti, Liang Shanbo (梁山伯) e Zhu Yingtai (祝英臺), i cui nomi formano il titolo della storia: Liang Zhu (梁祝).
Zhu era una bellissima ragazza alfabetizzata, l’ultima di nove figli e l’unica figlia femmina di una famiglia nobile e benestante.
Il suo desiderio più grande era quello di frequentare l’università, che però era riservata agli uomini.
Così, con l’approvazione di suo padre, si travestì da uomo e prese la strada per Hangzouh, una città dove avrebbe potuto realizzare il suo sogno, studiando in una famosa accademia per gli esami imperiali.
Lungo la strada incontrò Liang, un giovane di umili origini, che si recava anche lui a scuola nella stessa città.
I due diventarono buoni amici e la loro amicizia crebbe durante i lunghi anni di studio.
Studiarono insieme per i successivi tre anni a scuola e Zhu, gradualmente, si innamorò di Liang.
Sebbene Liang eguagliasse Zhu negli studi, era più che altro un “topo di biblioteca” e non riusciva a notare le caratteristiche femminili del suo compagno di classe.
I due studiavano vicino alla stessa finestra e dormivano nella stessa camera da letto, senza che il giovane si accorgesse che la sua cara amica in realtà era una donna.
Un giorno, Zhu ricevette una lettera da suo padre, che le chiedeva di tornare a casa il prima possibile.
Così, non avendo altra scelta, fece le valigie immediatamente e disse addio a Liang.
Tuttavia, nel suo cuore, si era accorta di provare amore per Liang ed era determinata a stare con lui per l’eternità.
Quindi, prima della sua partenza, rivelò la sua vera identità alla moglie del preside e le chiede di consegnare un ciondolo di giada a Liang, come promessa di fidanzamento.
Liang, ancora ignaro, accompagnò il suo “amico-fratello” per 18 miglia, in quanto non riusciva a salutarlo, a lasciarlo andare. Durante il viaggio, Zhu suggerì a Liang che in realtà è una donna, con degli esempi: paragonò loro due a una coppia di anatre mandarine (simbolo degli innamorati nella cultura cinese), ma Liang non coglieva i suoi accenni e non ebbe nemmeno il minimo sospetto, che il suo compagno fosse una donna travestita.
Zhu alla fine ebbe un’idea e disse a Liang che avrebbe fatto da sensale per lui e sua “sorella”.
Così, prima che si separassero, Zhu invitò Liang ad andarlo a trovare a casa sua in seguito, in modo che potesse proporre di sposare sua “sorella”.
Con questa promessa, Liang e Zhu si separarono con riluttanza al padiglione di Changting.
Dopo la laurea, quando andò a far visita a Zhu, si rese conto della verità: la fanciulla gli apparve in abiti femminili e quest’ultimo rimase scioccato nello scoprire che la sua compagna di scuola era in realtà una donna.
Scoprendosi follemente innamorato di lei, le chiese di sposarlo.
Ma arrivò troppo tardi: Zhu era già stata promessa in moglie dai suoi genitori ad un uomo ricco e nobile, chiamato Ma Wencai.
Liang, in un dolore inconsolabile, si ammalò, lentamente deperì e poi morì.
Zhu fu costretta a rispettare i patti del matrimonio con Ma Wencai.
Gli accompagnatori nuziali suonarono i loro gong ed i loro tamburi per tutto il percorso che portava al tempio.
Ma quando passarono davanti alla tomba di Liang, il cielo si oscurò improvvisamente ed il vento sferzò sabbia e pietre nell’aria. Il corteo delle portantine fu costretto a fermarsi e Zhu scese da quella nuziale e si tolse i vestiti da sposa rossi.
Indossando solo un abito da lutto, si diresse lentamente alla tomba di Liang, si inginocchiò e scoppiò in lacrime.
Il vento e la pioggia cominciarono a soffiare, il tuono rimbombava e la tomba si aprì.
Zhu sorrise e vi saltò dentro.
Con un gran boato, la tomba si richiuse, e allora il vento si placò e le nuvole si dispersero; la pioggia passò e il cielo si schiarì.
Un paio di bellissime farfalle volarono fuori dalla tomba, danzando liberamente alla luce del sole, in perfetta sincronia, scomparendo nel cielo azzurro.
E questa scena divenne nota come “gli Amanti delle farfalle”.
Questa leggenda è talmente amata che, adiacente al fiume Yuyao con una superficie di 300 mu, esiste il Liang-Zhu Cultural Park, il quale presenta molteplici scenari tra cui “Diventare fratelli giurati al Ponte di Paglia”, “Essere compagni di classe per tre anni”, “18 miglia di Addio”, ” Addio alla Torre” e “Riunione degli Amanti delle Farfalle” secondo la linea principale della storia di Liang Shanbo e Zhu Yingtai.
Inoltre nel villaggio di Shaojiadu, cinque miglia a ovest della città di Ningbo, sorge il Tempio di Liang Shanbo, costruito nel 347, che ha una statua della coppia seduta, con Zhu che porta una corona di fenice e mantello ricamato, seduta sul lato destro di Liang Shanbo.
Il corridoio sul retro è la loro camera da letto, con un letto di legno vermiglio, dietro il quale si trova la tomba della coppia.
Le persone nella città di Ningbo tendono ad adorare il tempio, per la beatitudine dell’amore eterno delle coppie.
Questa leggenda, proposta nel 2004 da sei città cinesi tra i “capolavori del patrimonio orale ed immateriale dell’Umanità” dell’UNESCO, attraverso il Ministero della Cultura cinese nel 2006, ha ispirato anche diverse rappresentazioni teatrali, cinematografiche e musicali, che la rendono famosa in tutto il Mondo.
Atlantide, dal greco antico “Isola di Atlante”, è un’isola leggendaria, citata per la prima volta da Platone, nei suoi dialoghi “Timeo” e “Crizia”, nel IV secolo a.C.
Chiamata anche Atlantis, Atalante o Atlantica, si dice che si trovasse nell’Oceano Atlantico, ad ovest dello Stretto di Gibilterra (antiche Colonne d’Ercole) ed è stata oggetto di fascino tra filosofi e storici occidentali per quasi 2.400 anni.
Crizia, in un dialogo di Platone, dice di aver sentito la storia di Atlantide da suo nonno, che l’aveva ascoltata dallo statista ateniese Solone (300 anni prima del tempo di Platone) che, a sua volta, l’aveva appresa da un sacerdote egiziano, che risaliva a 9.000 anni prima.
In un passato molto lontano, nell’Oceano Atlantico, appena oltre le Colonne d’Ercole (odierno Stretto di Gibilterra) esisteva una grande isola, più estesa della Libia e dell’Asia Minore messe insieme.
Essa apparteneva a Poseidone (Nettuno), il quale si era innamorato di una giovane donna dell’isola, di nome Cleito e l’aveva sposata.
Poseidone costruì una città sull’isola e su una montagna al centro della città fece costruire un palazzo per Cleito.
La coppia ebbe dieci figli e col tempo Poseidone divise tra loro l’isola, dando a ciascuno una sezione da governare, prediligendo il figlio Atlante, il quale portava anche il nome dell’Oceano che la circondava.
Atlantide era un paradiso: nessuno doveva lavorare sodo, lì cresceva ogni tipo di cibo meraviglioso e gli animali abbondavano.
Poseidone aveva creato un flusso di acqua calda e un flusso di acqua fredda per l’isola.
In quel meraviglioso luogo c’era una cultura gloriosa con mirabili palazzi e templi.
I re erano ricchi di oro, argento ed altri metalli preziosi, e il popolo di Atlantide viveva in un’Età d’oro di armonia ed abbondanza.
Poi le cose cominciarono a cambiare.
Gli Dei iniziarono a sposarsi con gli umani, gli Atlantidei divennero avidi più di quanto non fossero già e decisero di conquistare le terre intorno al Mediterraneo.
Infatti, man mano che gli Atlantidei diventavano potenti, la loro etica declinava.
“Quando la parte divina cominciò a svanire, e si diluì troppo spesso e troppo con la mescolanza mortale, e la natura umana prese il sopravvento, essi allora, non poteva sopportare che la loro fortuna si comportasse in modo sconveniente, e a colui che aveva occhio per vedere divenne visibilmente svilita, perché stavano perdendo il più bello dei loro doni preziosi; ma a coloro che non avevano occhio per vedere la vera felicità, apparivano gloriosi e benedetti proprio nel momento in cui erano pieni di avarizia e di potenza ingiusta”.
Quindi i loro eserciti alla fine conquistarono l’Africa fino all’Egitto e l’Europa fino al Tirreno (Italia etrusca), prima di essere respinti da un’alleanza guidata dagli Ateniesi.
Irritato dal comportamento degli Atlantidei, Zeus mandò una serie di terremoti, inondazioni ed incendi, che fecero sprofondare Atlantide in un mare fangoso, nel corso di un giorno e di una notte, facendola scomparire.
Indipendentemente dal fatto che Platone credesse o meno alla propria storia, il suo intento nel raccontarla sembra essere stato quello di rafforzare le sue idee di una società ideale, usando storie di antiche vittorie e calamità, per richiamare alla mente eventi più recenti come la guerra di Troia o la disastrosa invasione di Atene in Sicilia nel 413 a.C.
Infatti la descrizione della cultura di Atlantide era avanzata ed aveva una costituzione sospettosamente simile a quella delineata nella sua opera “Repubblica“.
Studiosi del Medioevo e del Rinascimento credevano che Platone stesse raccontando un evento reale ed erano curiosi di trovare la posizione di Atlantide.
Infatti, dopo la scoperta delle Americhe, alcuni Europei fecero un collegamento tra le terre appena trovate ed Atlantide ed alcuni pensavano che i nativi americani potessero essere discendenti del popolo di Atlantide fuggito dalla loro isola distrutta.
La leggenda di Atlantide ispirò scrittori e pensatori.
Sir Francis Bacon, filosofo inglese del 1600, scrisse una favola politica intitolata “La Nuova Atlantide”, nel quale descriveva un mondo ideale.
Nel 1800, Atlantide riguadagnò popolarità, quando studiosi e scrittori popolari cercarono di utilizzare prove scientifiche per sostenere la sua esistenza.
Molti, tuttavia, utilizzarono solo le prove che supportavano le loro idee, opportunamente ignorando il resto ma, nonostante ciò, la leggenda persiste.
Addirittura, persone provenienti da terre come la Scozia, la regione basca della Spagna e la Scandinavia, hanno rivendicato gli Atlantidei come loro antenati.
Una città di nome Atlantide potrebbe non essere mai esistita sopra o sotto il mare in tempesta, ma ci sono state diverse città nella storia, che si sono ritrovate sommerse dall’oceano.
Per esempio, dagli anni ’60, studi geologici, meteorologici ed archeologici hanno avuto la tendenza a supportare la leggenda, ipotizzando che Atlantide fosse in realtà l’isola di Thera nel Mar Mediterraneo, vicino all’isola di Creta.
Thera (ora chiamata Thíra) era una delle colonie della ricca civiltà minoica di Creta, dove i Minoici avevano costruito lussuosi palazzi e templi e da lì commerciavano in tutto il Mediterraneo.
Geologi e meteorologi hanno stabilito che, intorno al 1470 a.C., il vulcano di Thera eruttò e parte dell’isola affondò nel mare.
Essi hanno studiato Thíra, trovando i resti di una grande città minoica costruita attorno al vulcano, corredata da un palazzo e corsi d’acqua, che sembrano corrispondere alla pianta generale descritta da Platone.
Oppure, all’inizio degli anni 2000, i subacquei al largo della costa settentrionale dell’Egitto hanno scoperto la città di Thonis-Heracleion.
Essa era un importante centro marittimo e commerciale nel mondo antico, una città portuale nota agli storici dell’antica Grecia, oltre ad essere il principale emporio dell’Egitto, fino a quando non fu sostituita da Alessandria, situata a 15 miglia a sud-ovest, nel II secolo a.C.
Comunque sia, il segno più evidente che Atlantide sia un mito, è che nessuna traccia di essa è mai stata trovata, nonostante i progressi nell’oceanografia e nella mappatura dei fondali oceanici negli ultimi decenni.
Per quasi due millenni, le persone hanno sperato e sospettato, che le vaste profondità marine avrebbero potuto in qualche modo nascondere una città o un continente sommerso.
E, sebbene rimanga molto mistero sul fondo degli oceani del mondo, è inconcepibile che gli oceanografi, i sottomarini e le sonde di acque profonde mondiali non abbiano in qualche modo avvistato o rilevato una massa continentale “più grande della Libia e dell’Asia insieme”.
Oltre al fatto che la tettonica a placche dimostra che Atlantide è immaginaria, poiché i continenti sono andati alla deriva, il fondo marino si è esteso nel tempo, non si è contratto quindi, semplicemente, non ci sarebbe un luogo in cui essa avrebbe potuto sprofondare.
D’accordo, ma perché non continuare a sognare?
La Strige, in latino e in greco Strix, nella mitologia era un uccello notturno di cattivo auspicio, prodotto di una metamorfosi, che si nutriva di sangue e carne umana.
Nello stesso tempo, Strix (dal greco “stridere”, a causa del suo verso) è anche un genere di uccelli della famiglia degli Strigidae, che comprende Gufi ed Allocchi.
Pertanto, si accomunava il verso dei Gufi con quello della Strige e viceversa.
Questa creatura, con le altre varianti conosciute, era un demone che si credeva attaccasse i bambini, per prosciugarne il sangue.
Differiva dalle altre creature vampiro, in quanto era considerata un mutaforma, piuttosto di un morto che ritornava in vita.
Quindi, la Strige era una creatura terrificante, che possedeva una reputazione terrificante, ed era descritta come un uccello.
La Strige aveva il becco dorato, ali di colore rosso e zampe nere, con piedi artigliati, che l’aiutavano a cacciare le sue prede.
I suoi occhi erano diversi da quelli dei gufi, perché erano gialli e rotondi senza pupille.
Secondo Plinio, la Strige era impiegata nelle maledizioni e il suo nome poteva essere anche usato come un’invettiva.
Con le sue piume si creavano pozioni magiche d’amore, così come scrive Orazio nella sua opera “Epodi”.
In altre leggende, invece, il piumaggio della Strige veniva usato per creare una pozione di ringiovanimento, se combinato con vari altri ingredienti.
La Strige segnalava un attacco con terribili strilli e spesso stava appesa a testa in giù, come i pipistrelli.
Quando attaccava, quasi sempre in gruppo, questo essere causava disgrazie alle vittime, spruzzandole con latte maleodorante o causando danni più gravi, come usare i suoi artigli feroci per sventrare i bambini.
L’aglio era spesso utilizzato come un mezzo per sbarazzarsi dello spirito malvagio e prevenire tali attacchi.
Le Strigi si potevano trovare anche nel Tartaro o negli Inferi, luoghi in cui mostravano ulteriormente la loro natura oscura.
Il primo racconto ufficiale sulla Strige è tratto dalla perduta opera “Ornitologia”, dell’autore greco del III secolo a.C., Boeus, parzialmente inserita nelle “Metamorfosi” di Antonino Liberale.
Questo racconta la storia di Polifonte la quale, figlia di Ipponoo e Thraissa, respinse Afrodite ed andò sulle montagne, come compagna di Artemide nei suoi divertimenti.
Irritata per l’insulto, l’offesa Afrodite la fece innamorare follemente di un orso.
Quando Artemide scoprì questa situazione, sentendosi tradita, con odio amaro le rivoltò contro le bestie feroci.
Allora Polifonte fuggì spaventata nella casa del padre e, a tempo debito, diede alla luce due figli, Agrio e Oreio, che divennero uomini di grande statura e forza immensa.
Essi, però, non mostravano onore né a Dio né all’uomo, ed erano sfrenatamente insolenti verso tutti.
I gemelli rapivano tutti gli stranieri che incontravano e banchettavano con la loro carne.
Così incorsero nell’ira di Zeus, che mandò Hermes a punirli.
Il Dio stava per tagliare loro mani e piedi, ma Ares, a cui Polifonte faceva risalire la sua stirpe, li salvò da questo destino.
Così Polifonte ed i suoi figli furono trasformati in uccelli e la donna divenne una Strige “che piange di notte, senza cibo né bevande, con la testa in basso e la punta dei piedi in alto, presagio di guerra e conflitto civile per gli uomini“.
Il primo riferimento latino è nello “Pseudolus” di Plauto, datato 191 a.C., in cui un cuoco, descrivendo la cucina dei suoi inferiori, paragona la sua azione a quella degli Striges, cioè sventrare una sfortunata vittima.
Seneca il Giovane, nel suo “Hercules Furens”, mostra le Strigi che abitano alla periferia del Tartaro.
Ovidio racconta la storia delle Strigi, che attaccarono il leggendario re Proca nella sua culla, e di come furono respinte con il Corbezzolo e placate con carne di maiale, come spiegazione dell’usanza di mangiare fagioli e pancetta nelle Calende di giugno.
Nell’antichità, si credeva che le Strigi potessero essere delle vecchie malvage, che di notte assumevano sembianze di uccelli orrendi, per dilaniare i lattanti.
Invece Gaio Petronio Arbitro, nella sua opera “Satyricon”, usa il termine Striga intendendo “Strega”, narrando di un giovane, che era stato attaccato dalle streghe, e ne colpì una coprendosi col mantello, per evitare di entrare in contatto diretto con l’essere.
La Striga, però, lo toccò ugualmente e, di conseguenza, il ragazzo diventò paonazzo e morì pochi giorni dopo.
Questo racconto dimostra che, probabilmente, nel linguaggio popolare il termine Strige era passato dall’indicare l’uccello malefico e di malaugurio, a quello di una donna malvagia, che si nutre di sangue, la Strega.
Solo successivamente, la Strega divenne una donna con poteri soprannaturali e frequentazioni demoniache.
Le leggende sulle Strigi sopravvissero fino al Medioevo, come riportato nelle “Etymologiae” di Isidoro, dando sia nome che attributi agli esseri indicati come Striga in latino, in tutta l’Europa centrale ed orientale.
Per esempio in rumeno, Strigăt significa ‘urlo’, Strigoaică è il nome del vampiro femminile rumeno, Strigoi è il vampiro maschio rumeno e in albanese si dice Shtriga.
Strigăt è anche il nome rumeno del Barbagianni comune e della falena Sfinge Testa di Morto.
Tanto tempo fa, nell’antica Persia, oggi Iran, viveva un grande guerriero di nome Sām.
Lui e la sua bellissima moglie non avevano figli, quindi Sām pregò per un figlio.
Alla fine, sua moglie rimase incinta e diede alla luce un bambino.
Questo bambino era sano, ma aveva la pelle ed i capelli bianchi come la neve.
Quando Sām vide suo figlio, si arrabbiò terribilmente.
Pensava che Dio gli avesse dato come punizione questo strano ragazzo dai capelli bianchi.
Quindi, decise di sbarazzarsi del suo bambino.
Portò il ragazzo, che si chiamava Zāl, sui monti Alborz e lo lasciò lì a morire.
In cima alla montagna viveva un bellissimo e saggio uccello chiamato Simorḡ.
L’uccello gigante notò il bambino abbandonato, lo prese in braccio e lo portò al suo nido, per darlo da mangiare ai suoi pulcini.
Ma Dio aveva altri piani perché, quando Simorḡ ed i suoi pulcini guardarono la faccia di Zāl, ebbero pietà di lui ed adottarono il bambino dai capelli bianchi.
Passarono molti anni e Zāl divenne un giovane molto bello.
Molti viaggiatori sulle montagne di Alborz intravedevano questo bel ragazzo con lunghi capelli bianchi e pelle candida come la neve.
Alla fine, le voci su Zāl si diffusero nella casa di Sām, ma il vecchio guerriero le ignorò.
Poi una notte fece uno strano sogno: in esso vide un uomo di una terra lontana, che cavalcava su un cavallo verso di lui.
Lo strano uomo dichiarò: “Il tuo bellissimo figlio è nato!”
Sām si svegliò terrorizzato e chiese ad un saggio sacerdote, cosa significasse il sogno.
Il sacerdote rispose: “Ogni animale, dai leoni sulla terraferma ai pesci nel mare, ama i propri figli, indipendentemente dall’aspetto.
Ma tu hai abbandonato tuo figlio innocente, solo perché ha i capelli e la pelle bianchi!
Guarda i tuoi stessi capelli bianchi!
Anche questo è un peccato?”
Sām si rese quindi conto di quanto fosse stato sciocco e si recò sui monti Alborz.
Dopo aver cercato in giro, trovò il nido di Simorḡ.
Pregò l’uccello di restituirgli suo figlio.
L’uccello saggio guardò Zāl, che ora era un adolescente intelligente e, anche se la cosa gli spezzava il cuore, chiese al ragazzo di tornare da suo padre, che si era davvero pentito delle sue azioni.
Zāl non voleva lasciare il suo nido, ma Simorḡ gli assicurò che sarebbe stato più felice con suo padre.
Prima che se ne andasse, diede a Zāl tre delle sue piume.
“Se mai avrai bisogno del mio aiuto, o tuo padre ti tradirà, getta una delle mie piume nel fuoco sacro e mi precipiterò al tuo fianco”, promise Simorḡ.
Con le piume speciali nelle sue mani, Zāl tornò a casa con suo padre.
Passò il tempo e Zāl crebbe, fino a diventare un guerriero abile e bello.
Aveva le spalle e la criniera di un leone, un bel viso, un cuore generoso, ed era il più grande guerriero che la Persia avesse mai visto.
Le voci di un tale guerriero raggiunsero le orecchie della bellissima principessa Rudābeh, che viveva nel regno di Kabul.
Quando aveva sentito una descrizione di Zāl, si era innamorata di lui, giurando che lo avrebbe sposato.
La fanciulla pagò alla sua serva centinaia di monete d’oro e gioielli per farle consegnare le sue lettere a Zāl.
Quando Zāl ricevette le lettere, divenne curioso e decise di incontrare Rudābeh.
Zāl raggiunse il palazzo di Rudābeh, scoprendo che viveva in cima ad una torre.
Ma Rudābeh aveva un piano tutto suo: sciolse i suoi lunghi capelli neri, in modo che Zāl potesse salire nella sua stanza e farle visita.
Dopo essersi incontrati di persona, Zāl si innamorò della bellissima principessa e decisero di sposarsi.
Tuttavia, il padre di Rudābeh, re Mehrab di Kabul, era un adoratore di idoli e nipote del malvagio Zahhāk.
Quando il re della Persia, Manuchehr, venne a conoscenza dell’intenzione di Zāl di sposare Rudābeh, rifiutò di concedere il permesso.
Re Manuchehr e re Mehrab erano nemici mortali e questo diede loro una scusa per andare in guerra. Tuttavia, poco prima che fosse dichiarata la guerra, i sacerdoti di Kabul e della Persia leggendo le stelle, previdero un incontro benedetto tra Zāl e Rudābeh.
“Dal matrimonio di Zāl e Rudābeh nascerà un figlio potente.
Più grande di qualsiasi guerriero prima di lui.
Sarà il difensore più famoso della Persia e sarà imbattibile”, dichiararono.
Dopo aver sentito questo, entrambi i re accettarono di permettere alla giovane coppia di sposarsi e diedero le loro benedizioni.
Così finalmente, Zāl e Rudābeh si sposarono con una bellissima cerimonia a Kabul.
Rudābeh rimase incinta e, dopo nove mesi, ebbe un travaglio difficile e stava per morire.
Zāl ricordò la piuma di Simorḡ, che aveva ricevuto molti anni prima.
Quindi, accese un fuoco sacro e gettò la piuma tra le fiamme.
Quando la piuma bruciò, il cielo si oscurò di nuvole temporalesche e Simorḡ apparve maestosamente davanti a Zāl.
Simorḡ ordinò al guerriero di preparare un farmaco con gli ingredienti che gli aveva portato.
I medici diedero la medicina magica a Rudābeh, che poi diede facilmente alla luce un figlio sano di nome Rostam, il quale divenne uno dei più celebri guerrieri persiani di tutti i tempi.
-Tratto da “Shahnameh”, di Hakīm Abūl-Qāsim Ferdowsī Tūsī-
Hakīm Abūl-Qāsim Ferdowsī Tūsī è considerato il maggior poeta epico della letteratura persiana medievale, dell’anno 1000.
Shahnameh è per la Persia, ciò che l’Iliade l’Eneide e l’Odissea rappresentano per i Greci ed i Romani, o il Mahābhārata e il Rāmāyana sono per l’India, ovvero poemi epici che usano la storia popolare ed una narrazione intricata, contenendo sempre gesta eroiche.
Nella mitologia sumera, Enki (noto anche come Ea, Enkig, Nudimmud, Ninsiku) era il Dio malizioso della saggezza, dell’acqua dolce, dell’intelligenza, dell’inganno e del male, dell’artigianato, della magia, degli incantesimi, dell’esorcismo, della guarigione, della creazione, della virilità, della fertilità e dell’arte, e risiedeva nell’oceano sotto la terra.
Egli era raffigurato come un uomo barbuto, che indossa un berretto cornuto e lunghe vesti, mentre saliva sulla Montagna dell’Alba.
Il suo nome significava “Signore della Terra” ed i suoi simboli erano il pesce e la capra, entrambi rappresentazioni della fertilità.
In precedenza, però, Enki (allora conosciuto come Enkig) era una divinità sumera dell’acqua dolce e protettrice della città di Eridu, considerata dai Mesopotamici la prima città fondata all’inizio del Mondo.
Il Dio apparve per la prima volta nel primo periodo dinastico, 2600-2350 a.C. circa.
Enki era figlio di Anu, il Dio del cielo, figlio di Apsu, il padre primordiale, nei testi babilonesi.
Era anche indicato come il figlio della dea Nammu, una Dea madre primordiale, che aveva dato alla luce la Terra e il Cielo.
La moglie di Enki era Ninhursag (nota anche come Ninmah, come Damgalnuna o Damkina per gli Assiri) ed i loro figli erano Asarluhi (Dio della conoscenza magica), Enbilulu (Dio dei canali e delle dighe), il saggio umano Adapa , e il re degli Dei, Marduk (che in seguito assorbì le qualità di Asarluhi).
Questa coppia divina, nello sforzo di guarire Enki, ebbe altri 8 figli: Abu (Dio delle piante e della crescita); Nintulla (Signore di Dilmun e dei metalli preziosi); Ninsitu (Dea della guarigione, moglie del Dio della guarigione Ninazu); Ninkasi (Dea della birra); Nanshe (Dea della giustizia sociale, fertilità, divinazione e interpretazione dei sogni); Azimua (Dea della guarigione, moglie della divinità degli inferi Ningishida); Emshag (Signore di Dilmun, Dio della fertilità) e Ninti (Dea della costola, donatrice di vita).
Enki spesso era anche raffigurato come il padre (o lo zio) di una delle divinità più popolari e longeve, Inanna, Dea della guerra, della sessualità, della passione, della fertilità, dell’amore e delle prostitute.
Aveva un fratello gemello, Adad (conosciuto anche come Ishkur), Dio del tempo e delle tempeste.
Secondo i Babilonesi, invece, Enki era il figlio maggiore dei primi Dei, Apsû e Tiāmat.
All’inizio dei tempi, il Mondo era un vorticoso caos indifferenziato, da cui si separava Apsû, il principio maschile personificato dall’acqua dolce e Tiāmat, il principio femminile definito dall’acqua salata.
Apsû e Tiāmat diedero alla luce gli Dei più giovani, ma queste divinità non avevano nulla da fare, e quindi si divertivano come meglio potevano.
Il loro rumore costante distraeva Apsû, interrompendo il suo sonno e così, dopo essersi consultato con il suo Visir, decise di ucciderli.
Tiāmat, sentendo la loro discussione, rimase inorridita dal piano e così, lo riferì a suo figlio.
Enki considerò vari piani e le loro conseguenze, e poi procedette con quello che riteneva migliore: fece addormentare suo padre e poi lo uccise.
Tiāmat non aveva mai considerato una tale possibilità e, quindi, rinnegò i suoi figli.
Poi sollevò un esercito di demoni e mostri, guidati dal campione Quingu (o Kingu).
Questo esercito degli Dei più antichi sconfisse Enki e gli Dei più giovani in battaglia, ogni volta che si scontravano, finché il gruppo più giovane non fu respinto ed iniziò a perdere la speranza di vittoria.
A questo punto Marduk, figlio di Enki, si fece avanti con un’offerta: se gli Dei lo avessero nominato loro re, li avrebbe condotti alla vittoria.
Prima di questo, non c’era stato alcun generale che sovrintendesse alle operazioni, ma ogni Dio si alternava al comando.
Una volta che Marduk fu eletto re, incontrò Quingu in un combattimento singolo e lo sconfisse, colpendo poi Tiāmat con una freccia così grande da dividerla in due.
Dagli occhi della Dea, mentre moriva, scorrevano le lacrime, che si trasformarono nei fiumi Tigri ed Eufrate, e il suo corpo fu usato da Marduk per modellare la terra.
Quingu ed altri Dei, che avevano incoraggiato la guerra di Tiāmat, furono giustiziati ed il corpo di Quingu utilizzato per creare esseri umani.
Marduk si era consultato con Enki su tutte queste scelte e, per questo motivo, Enki è spesso accreditato come co-creatore del mondo e della vita.
In origine, Enki era il Dio patrono della città di Eridu (prima città della Mesopotamia) ma, in seguito, il suo culto si diffuse in tutta la Mesopotamia e tra i Cananei (civiltà e regione di lingua semitica dell’antico Oriente), gli Ittiti (popolo dell’Anatolia) e gli Urriti (popolo dell’Età del bronzo del vicino Oriente).
Era, inoltre, associato alla fascia meridionale di costellazioni chiamate ‘Stelle di Ea‘, ma anche alla costellazione AŠ-IKU , il Quadrato di Pegaso.
A partire dal secondo millennio a.C., a volte veniva indicato per iscritto dall’ideogramma numerico”40″, occasionalmente indicato come il suo “numero sacro”.
Infine, in epoca sumerica, il pianeta Mercurio, associato al babilonese Nabu (figlio di Marduk) era identificato con Enki.
Enki come protettore della città di Eridu è significativo per il suo ruolo di Dio della saggezza.
Infatti, si pensava che Eridu fosse la prima città creata dagli Dei a cui furono conferiti l’ordine e la legge all’inizio dei tempi e, in seguito, fu conosciuta come la “Città dei primi Re”. Fondata nel 5400 a.C., Eridu rimase un importante centro religioso per migliaia di anni ed anche culla di storie e leggende su un “Età dell’oro”, nello stesso modo in cui gli scrittori ebrei successivi usarono il Giardino dell’Eden.
Attualmente Governatorato di Dhi Qar (Iraq), gli scavi in questa città hanno portato alla luce santuari dedicati ad Enki, costruiti e ricostruiti nello stesso luogo nel corso di migliaia di anni.
Anche dopo che il Dio fu ampiamente adorato altrove, continuò ad essere associato ad Eridu ed alle ‘abzu’ (o ‘absu’), le acque sotterranee lì presenti.
Infatti, Enki era adorato principalmente nel suo tempio noto come E-abzu (Casa degli Abzu) e E-engur-ra (Casa delle Acque Sotterranee).
Come con tutti gli altri importanti Dei e Dee mesopotamici, i sacerdoti si occupavano della statua del Dio, del tempio e del complesso di templi, che servivano le persone in molti modi diversi.
I templi degli Dei erano case di guarigione, centri di consulenza, centri di distribuzione e luoghi santi.
Le persone interagivano principalmente con gli Dei durante le feste, attraverso la comunione con i sacerdoti minori, o a casa attraverso rituali privati.
Frequentato dal suo ministro Isimud, Enki aveva anche creature assortite al suo servizio come giganti, demoni (sia protettivi che distruttivi) ed altri esseri mistici.
Si narra, che tritoni e sirene abitassero le profondità acquose dell’abzu sotto la città, mentre i Sette Saggi (l’Abgal) vivevano con Enki nel suo palazzo.
Enki era conosciuto come Ninsiku, solo nel suo aspetto di patrono dell’artigianato e dell’arte, in particolare oggetti dedicati a soggetti divini.
Era il Dio preferito tra gli indovini (bārû) ed i sacerdoti esorcisti (ašipū), poiché era la fonte ultima di tutta la conoscenza rituale usata dagli esorcisti, per scongiurare ed espellere il male.
Inoltre, il suo legame con l’acqua lo fece anche identificare come divinità protettrice degli addetti alle pulizie.
Nella maggior parte delle storie e le leggende, Enki è associato alle altezze ed alle profondità della comprensione universale ed è sempre visto come un amico dell’umanità.
Quando gli è stata data la possibilità di scegliere tra servire la volontà degli Dei o i bisogni delle persone, Enki ha sempre scelto gli interessi umani e sempre il percorso della compassione, del perdono e della saggezza.
Considerato quindi il creatore e protettore dell’umanità, escogitò un piano per creare esseri umani dall’argilla, in modo che potessero svolgere il lavoro per gli Dei.
Ma il Dio supremo Enlil tentò di distruggere gli umani appena creati da Enki, con un’inondazione devastante, perché il loro rumore senza fine gli impediva di dormire.
Fortunatamente, l’intelligente Enki, avendo previsto il piano di Enlil, aveva preventivamente incaricato un saggio, Atrahasis, di costruire un’arca in modo che l’umanità potesse sfuggire alla distruzione.
Inoltre, aiutò l’umanità a mantenere il dono della magia e degli incantesimi, impedendo ad Adapa (un suo figlio) di diventare immortale.
Ci sono, però, anche leggende su Enki, non proprio positive.
In quanto Dio dell’acqua, Enki aveva un debole per la birra e con i suoi poteri fertilizzanti, aveva una serie di affari incestuosi.
Enki e la sua consorte Ninhursag avevano, tra i tanti, una figlia di nome Ninšar (Dea della preparazione della carne).
Quando Ninhursag lasciò Enki, ebbe un rapporto carnale con Ninsar, la quale diede alla luce Ninkurra (Signora dei pascoli).
In seguito ebbe rapporti anche con Ninkurra, che diede alla luce Uttu (Dea tessitrice).
Enki poi tentò di sedurre anche Uttu, consultando Ninhursag che, sconvolta dalla natura promiscua del coniuge, consigliò alla nipote di evitare le sponde del fiume e così sfuggire alle avances di suo nonno Enki.
In un’altra versione di questa storia, la seduzione riesce.
Ninhursag prese quindi il seme di Enki dal grembo di Uttu e lo piantò nella terra, dove sette piante germinarono rapidamente.
Enki trovò le piante ed iniziò subito a consumare i loro frutti.
Così, consumando la propria essenza fertile, rimase incinta (!), ammalandosi di gonfiori alla mascella, ai denti, alla bocca, alla gola, alle membra e alle costole.
Gli Dei non sapevano cosa fare, dal momento che Enki non aveva un grembo con cui partorire.
Ninhursag allora cedette e prese “l’acqua” di Enki nel suo stesso corpo, dando alla luce gli Dei della guarigione di ogni parte del corpo.
L’ultima fu Ninti, la quale ricevette il titolo di “Madre di tutti i viventi”.
Questo era anche un titolo dato alla successiva Dea urrita Kheba ed alla biblica Eva, che si suppone fosse stata creata dalla costola di Adamo.
Il Drago cinese (龙, lóng ), nella cultura, nella mitologia e nel folklore cinese è una creatura leggendaria, solitamente raffigurata con forma animale, tipo pesce e tartaruga, ma soprattutto come un serpente a quattro zampe.
Tradizionalmente, il Drago cinese simboleggia poteri potenti e buon auspicio, collegati soprattutto al clima, nel controllo sull’acqua, le precipitazioni, i tifoni e le inondazioni, i mari.
E’ talmente importate, che in Cina hanno chiamato un famoso tè verde ‘Long Jing‘, in inglese Dragon Well, ovvero “Fonte del Drago”.
A questo proposito, nel tè Long Jing esiste la leggenda in cui si narra che, in un periodo di grande siccità, un monaco taoista invitò gli abitanti a pregare il Drago e finalmente arrivò la pioggia, che pose a quell’arido periodo.
Il Drago può allontanare gli spiriti malvagi e proteggere gli innocenti, e simboleggia anche la fertilità.
Fa parte dei quattro animali leggendari cinesi, la Tartaruga, l’Unicorno e la Fenice, rappresentando uno dei quattro animali benevoli e con poteri magici, che gli permettono di mimetizzarsi, mutare forma e dimensioni.
Il Drago vola nei cieli, vive nelle acque profonde e nelle viscere della Terra.
Creatura buona e nobile, in antichità, era associato all’Imperatore ed al potere imperiale.
Il fondatore della dinastia Han, Liu Bang, affermò di essere stato concepito, dopo che sua madre aveva sognato un Drago.
Durante la dinastia Tang, gli imperatori indossavano abiti con il motivo del drago, come simbolo imperiale, ma anche gli alti funzionari potevano presentarsi con abiti contenenti il simbolo del Drago.
Nell’antica Cina, quindi, l’imperatore era simboleggiato con il Drago e gli era riservato il “Trono del Drago”.
Gli antichi Cinesi si identificavano come gli “Dei del Drago“, in quanto è un rettile immaginario, che rappresenta l’evoluzione dagli antenati e l’energia del Qi.
Infatti, motivi simili a Draghi, in pietra bruno-rossastra sono stati trovati nel sito di Chahai (Liaoning) nella cultura Xinglongwa (6200–5400 a.C).
Ma la presenza di Draghi, all’interno della cultura cinese, risale a diverse migliaia di anni fa, con la scoperta nel 1987 di una statua di Drago risalente al V millennio a.C. della cultura Yangshao, nell’Henan.
Inoltre, nell’antichità i Cinesi, scoprendo ossa di dinosauro, si riferiscono ad esse come ‘Ossa di Drago‘.
In seguito, questo personaggio si è evoluto come animale mitologico, dipinto a forma del Drago con una testa di cavallo e una coda di serpente.
Inoltre, viene descritto come con “tre articolazioni” e “nove somiglianze” del Drago, cioè: dalla testa alla spalla, dalla spalla al petto, dal petto alla coda.
Queste sono le articolazioni; quanto alle nove somiglianze, sono le seguenti: le sue corna somigliano a quelle di un cervo, la sua testa quella di un cammello, i suoi occhi a quelli di un demone, il suo collo a quello di un serpente, il suo ventre a quello di una vongola, le sue squame a quelle di una carpa, i suoi artigli a quelli di un aquila, le sue zampe quelle di una tigre, le sue orecchie a quelle di una mucca.
E sulla testa ha una cosa simile ad un grosso nodulo, chiamato ‘Chimu‘ (尺木) che, senza il quale non può salire al Cielo.
Alcuni Draghi cinesi hanno una perla fiammeggiante sotto il mento o tra gli artigli, la quale è associata all’energia spirituale, alla saggezza, alla prosperità, al potere, all’immortalità, al tuono o alla luna.
Infatti, l’arte cinese raffigura spesso una coppia di Draghi, che inseguono o combattono per la perla fiammeggiante.
Occasionalmente, queste creature possono essere raffigurate con ali da pipistrello, che crescono dagli arti anteriori, ma la maggior parte non ha ali, poiché la loro capacità di volare (e controllare pioggia/acqua, ecc.) è mistica, e non un attributo fisico.
In alcune zone, è considerata sfortuna raffigurare un Drago rivolto verso il basso, poiché è considerato irrispettoso in quanto, in quella posizione, non può salire verso il Cielo.
Nella religione popolare, il Drago cinese, governante i corpi idrici in movimento, come cascate, fiumi o mari, dispensatore di pioggia rappresentazione zoomorfa del potere di generazione maschile, Yang, è spesso raffigurato come un umanoide, vestito con un costume e copricapo da re, ma con una testa di Drago.
Quindi, ci sono quattro principali Re Drago, che rappresentano ciascuno dei Quattro Mari:
¥ Mare Orientale (corrispondente al Mar Cinese orientale)
¥ Mare del Sud (corrispondente al Mar Cinese meridionale)
¥ Mare Occidentale (corrispondente al Lago Qinghai)
¥ Mare del Nord corrispondente al Lago Baikal).
Per questo motivo, in epoca premoderna, molti villaggi cinesi, soprattutto quelli vicini a fiumi e mari, avevano edificato templi dedicati al loro “Re Drago” locale.
In tempi di siccità o inondazioni, era consuetudine che la nobiltà locale ed i funzionari governativi guidassero la comunità, nell’offrire sacrifici e nel condurre altri riti religiosi, per placare il Drago, chiedendo la pioggia o la sua cessazione.
Si narra, che migliaia di anni fa Yandi, un leggendario capo tribù, venne a luce, frutto dell’interazione telepatica di sua madre con un potente Drago.
Con l’aiuto del Drago ed alleandosi con Huangdi, un altro leggendario capo tribù e secondo alcuni, nipote di un Drago, aprì il preludio alla civiltà cinese.
Quindi, gli imperatori Yandi e Huangdi sono gli antenati del popolo cinese, e furono immortalati come Draghi, prima di ascendere al Cielo.
Col passare del tempo, i Cinesi iniziarono a definirsi “i discendenti di Yandi e Huangdi”, nonché “discendenti dei Draghi”.
Nella cultura cinese, le persone eccellenti ed eccezionali sono paragonate a un Drago, mentre le persone incapaci, senza risultati, sono paragonate ad altre creature dispregiate, come un verme.
Numerosi proverbi e modi di dire cinesi fanno riferimenti al Drago, per esempio:
“Sperando che il proprio figlio diventi un drago” (望子成龙 – 望子成龍 ).
Per il Tao (concetto di base del pensiero filosofico e religioso cinese), il Drago rappresenta la Via: ovvero la forza, l’illuminazione che si rivela in un baleno, per poi svanire subito.
Infatti, anche il Drago si mostra soltanto in modo fugace in una frazione di secondo, e soltanto parzialmente e, come la Via, non si coglie mai nella sua interezza.
In Cina, i Draghi hanno vari colori e, a seconda di questi, cambia di significato, in quanto il colore stabilisce la sua anzianità ed altre cose:
DRAGO NERO: è quello più giovane, che ha meno di 100 anni, ed è quello che porta gli ordini dei suoi superiori. Vive al Nord e causa tempeste, quando si scontra con altri Draghi. Il Drago cinese nero è spesso legato alla vendetta. In alcuni film cinesi, molte organizzazioni criminali, o bande di strada, usano i Draghi neri come emblemi e, spesso, i criminali hanno tatuaggi di queste creature sulle braccia o sulla schiena, che rappresentano il male o la vendetta. Nell’antica Cina, il Drago nero è spesso legato a catastrofi, come tempeste e inondazioni.
DRAGO BLU/VERDE: è il messaggero degli Dei, insieme alla fenice, alla tartaruga ed alla tigre bianca. Il Drago blu/verde è associato alla Primavera, a Est. E’ considerato di buon auspicio, in quanto porta vento e pioggia ed a più di 100 anni. Nella cultura cinese, il blu e il verde sono colori che rappresentano la natura, la salute, la guarigione, la pace e la crescita. Un drago blu/verde, quindi, simboleggia l’avvicinarsi della primavera, una nuova vita e la crescita delle piante.
DRAGO GIALLO: è solitario e compare quando si ha bisogno di lui. E’ quello più amato ed è quello più diffuso. Fin dalle antiche dinastie imperiali, il giallo è stato considerato il colore reale. I Draghi gialli erano un simbolo dell’imperatore e rappresentavano saggezza, fortuna e potere.
DRAGO ROSSO: questo è il colore più fortunato della Cina. Viene spesso utilizzato per decorare la casa/edifici, utilizzato per un matrimonio o un festival. Il Drago rosso ha quindi un simbolismo fortunato. Le persone dipingono Draghi rossi per decorare le loro case o passerelle, per celebrare le varie feste. È tradizione usare i Draghi rossi per le ‘danze dei draghi’. La sfilata o ‘danza del drago’ è tipica del Capodanno cinese. Si realizza una grande figura di carta pesta e stoffa, che viene mossa all’interno da un gruppo di persone, che si muovono in movimenti sinuosi e coordinati, che mimano i movimenti del Drago, simboleggiando longevità, portando pioggia e proteggendo contro gli spiriti maligni ed i demoni.
DRAGO BIANCO: dopo 700 anni, il Drago diventa bianco e viene considerato un Dio, simbolo della morte.