Categorie:
MITI E LEGGENDE
I migliori cavalli in Paradiso non hanno coda
I migliori cavalli in Paradiso
non hanno la coda.
Questa è una regola che tutti conoscono
senza eccezione.
Quando arriva un nuovo cavallo
con una coda tagliata,
tutti sanno che quel cavallo
ha fatto un ottimo lavoro.
Il suo proprietario non poteva sopportare
di separarsi dal suo amico
così ha conservato la sua coda intrecciata,
avvolta in nastri
per tenere con sé il suo ricordo
in un modo così amorevole.
Entrare in Paradiso senza coda
è un onore, un messaggio
che, senza eccezione, annuncia a tutti,
vicini e lontani, che quel cavallo
era più di una splendida cavalcata.
Ma che quel cavallo era amato
e adorato da qualcuno e, quando il suo tempo
al servizio su questa Terra è terminato,
ha lasciato dietro di sé
un cuore spezzato e un’anima
da cui non si separerà mai.
-Miska Carlberg Paget-
Fortunatamente, con il tuo migliore amico a quattro zampe non c’è bisogno di parole, ti lancia uno sguardo e tu comprendi….
Ma, a volte, arriva un giorno in cui tu credevi, ed hai cercato, di essere mentalmente preparato il più possibile, a dovergli dirgli addio.
E’ triste, è agghiacciante, è indescrivibile, forse te l’aspettavi, ma davvero rimane sempre un momento comunque inaspettato, inderogabile e devi essere pronto a perdere il tuo amore peloso in un batter d’occhio, anche se fuori splende il sole e si sente il profumo dei fiori.
E poi… se ne va…
Indipendentemente dal modo e dal momento, è qualcosa con cui prima o poi tutti noi amanti/proprietari di animali dobbiamo fare i conti.
E questo è il prezzo che paghiamo per amarli.
Anche se sappiamo che, nel migliore dei casi, ci sarà una naturale scadenza, il tempo che trascorrono con noi non sarà mai lungo quanto vorremmo.
Una cosa che tanti di noi spesso fanno, per assicurarsi di poter tenere fisicamente con sé un pezzo del proprio amico, è tagliare una porzione del suo pelo.
E’ come se fosse il suo ultimo regalo per noi, è qualcosa impregnato d’amore che si può mettere in un ciondolo, si può legare al polso sotto forma di braccialetto, appendere alle chiavi, o conservare in una scatola delle ombre commemorativa, ovvero quel contenitore che raccoglie una varietà di oggetti sentimentali come ciocche di capelli, lettere d’amore e fiori secchi, che diventano preziosi ricordi di relazioni romantiche e legami familiari ed affettivi.
I proprietari dei cavalli, per esempio, tagliano una porzione di coda o di criniera da intrecciare, prima che arrivi il giorno di dire addio.
L’intreccio dei crini di cavallo risale a centinaia di anni fa, all’inizio poiché questi animali, diventati addomesticati, erano utilizzati come uno dei principali mezzi di trasporto, e quindi intrecciare le loro criniere era il modo migliore, per evitare che i peli si aggrovigliassero nell’equipaggiamento da equitazione.
In seguito, questa pratica fu implementata anche tra contadini e braccianti, come mezzo per impedire al cavallo di danneggiare la propria criniera o coda, impigliandosi nell’attrezzatura agricola.
L’intrecciatura divenne sempre più popolare, diventando anche un modo per distinguere i cavalli l’uno dall’altro: trecce e posizioni specifiche servivano a distinguere un cavallo prestigioso da uno di rango inferiore, come quelli usati per le battaglie e le cacce.
A volte, però, succedeva di trovare il proprio cavallo con una treccia particolare tra il crine e si diceva, che fosse stata fatta da un ladro che aveva distinto l’animale in quel modo, affinché sapesse quale cavallo tornare a rubare.
Nel corso della storia, ci sono state numerose spiegazioni per questo genere di evento, che non si riusciva a spiegare del tutto: il ritrovamento di coda o criniera del proprio cavallo, annodate od intrecciate.
Secondo l’antico folklore, sono state le Fate a dare inizio alla tradizione dell’intreccio.
A quanto pare, queste creature amavano visitare i cavalli quindi, nel cuore della notte, andavano nelle scuderie e facevano nodi nelle criniere degli animali, noti come “Nodi di Fata” oppure “Nodi elfici“.
Pertanto, si racconta che, durante la notte, un gruppo di Fate errava in cerca di cavalli e, una volta trovato quello ideale, gli torcevano il crine, per formare piccole staffe e redini sull’animale.
Poi cavalcavano i cavalli per tutta la notte, coinvolgendoli in avventure magiche.
I cavalli venivano sempre restituiti al mattino, ma i nodi rimanevano fino al ritorno delle creature fatate.
Si dice, che snodare la criniera avrebbe portato sfortuna in quanto, quando le fate fossero tornate, avrebbero dovuto rifare tutto il loro duro lavoro, prima di poter cavalcare ancora una volta; e questa cosa le avrebbe fatte adirare.
Mentre, lasciando la criniera del proprio cavallo intrecciata, avrebbe reso benevolenti le Fate, le quali lo avrebbero cavalcato con più eleganza.
Questo mito urbano è cambiato nel corso dei secoli, spostando la colpa da una creatura mitica all’altra.
Secondo un’antica leggenda inglese, i cavalli agitati ed irrequieti al mattino, con la criniera e la coda aggrovigliate e contorte, sarebbero stati cavalcati di notte dai Folletti.
Alcuni, invece, credono che l’origine risieda nella “Caccia selvaggia“, un antico mito popolare europeo, descritto per la prima volta dai fratelli Grimm, che narra la storia di un gruppo di cacciatori spettrali, i quali si lanciano in una folle corsa attraverso i cieli a cavallo.
Questa storia potrebbe non sembrare troppo spaventosa ma, se hai letto la Caccia Selvaggia, saprai che precedeva una qualche catastrofe come una guerra, una peste o la morte di chi ne era stato testimone.
E per coloro che erano particolarmente superstiziosi, sarebbe stato piuttosto spaventoso.
In Brasile si narra di Saci-pererê, un ragazzino di colore con un berretto rosso in testa ed un’unica gamba, malizioso e giocoso, che vive nascosto nei boschi e foreste, per spaventare quelli che distruggono la natura.
Tormenta le persone, affinché non tornino mai più e smettano di degradare l’ambiente, ma possiede anche il potere magico di scomparire e di far nascere turbini di aria, per non essere catturato dai cattivi.
Tra le altre sue caratteristiche, come nascondere oggetti, immobilizzare le persone, ecc., troviamo anche fare delle trecce alla criniera dei cavalli.
In Scandinavia, invece, troviamo i Tomtenisse, cioè degli Elfi tipicamente associati al Solstizio d’Inverno ed al periodo natalizio, descritti come bassi, con una lunga barba bianca, i quali indossano un cappuccio conico di maglia grigio o rosso, o qualche altro colore brillante.
Essi vivono nelle case e nei fienili delle cascine, agendo segretamente come loro guardiani.
Se trattati bene, proteggono la famiglia e gli animali dal male e dalla disgrazia, aiutano anche nelle faccende e nel lavoro di fattoria.
Ma attenzione, sono noti per essere molto permalosi, soprattutto quando offesi quindi, una volta insultati, di solito giocano brutti scherzi, rubano oggetti e persino mutilano o uccidono il bestiame.
Il Tomtenisse è collegato agli animali da allevamento in generale, ma il suo animale preferito è il cavallo, facilmente riconoscibile quando è un suo prescelto, in quanto sarà particolarmente sano e ben curato.
A volte il Tomtenisse intreccia anche la criniera e la coda e, annullare queste trecce senza permesso, può significare disgrazia per chi ha commesso il fattaccio, vista l’ira profonda di questa creatura magica, la quale potrebbe far impazzire le persone o morderle.
Il morso di un Tomtenisse è velenoso, e di solito è necessaria la guarigione ultraterrena.
Dulcis in fundo, non potevano mancare le streghe…
Sempre in Brasile, troviamo la “Crina de Bruxa” (Criniera della Strega), che non è altro che una criniera aggrovigliata, in cui il crine del cavallo è disposto in modo tale da assomigliare ad una treccia.
Quando gli animali appaiono con la criniera tutta aggrovigliata, si dice, quindi, che sia opera delle streghe.
Ma oggi, razionalmente, si spiega che, dietro i peli aggrovigliati nella criniera del cavallo, si nascondano pipistrelli vampiri, che si nutrono di sangue.
Poiché si attaccano alla criniera del cavallo per potergli succhiare il sangue dal collo, si consiglia di praticare dei piccoli fori nel collo dell’animale, in modo da far defluire il sangue, permettendo così ai pipistrelli di nutrirsi…
Sempre a proposito di Streghe, un’altra leggenda racconta che le streghe rapivano gli esemplari più belli di cavalli, da cavalcare verso luoghi misteriosi e lontani e che, per renderli ancor più maestosi e regali, intrecciavano code e criniere con bacche o fiori colorati.
Quando le streghe facevano ritorno, e non avevano più la necessità di usare quel cavallo, con i loro incantesimi risucchiavano la forza dall’animale, lo restituivano al suo padrone nella stalla, e lasciavano le trecce intatte, come ringraziamento.
Al contrario, alcuni proprietari intrecciavano le code dei cavalli con dei nastri, a cui venivano aggiunti talismani adatti a proteggerli dalle streghe.
Ciò accadeva, in quanto si pensava che i cavalli avessero potere chiaroveggente e che quindi fossero bersagli particolari per le Streghe, le quali li rubavano dalle stalle o dai campi.
Esse li utilizzavano per tutta la notte, per poi riportarli indietro, sudati ed esausti, poco prima dell’alba.
I proprietari, quindi, intrecciavano nastri protettivi incantati su code o criniere, chiamati “Nodi di Magia”, per proteggere il loro cavallo dalle Streghe, cosa che ancora oggi rimane nella superstizione.
Infatti, modificandola un po’, si crede che si debbano tagliare la coda e la criniera ai cavalli, prima che essi arrivino al Ponte dell’Arcobaleno, ai quali poi lì sarà concessa una coda ed una criniera speciale.
Con questo atto, i cavalli potranno dimostrare che, erano talmente amati sulla Terra, che i loro padroni ne abbiano conservato alcune parti, per un perpetuo amorevole ricordo.
Per questo motivo, sono nate delle attività che creano ricordi utilizzando il crine di cavallo, e spesso anche di altri animali, affinché i proprietari possano assicurarsi di poter tenere con sé una parte di loro, anche quando non saranno più qui fisicamente.
Perché i nostri amati cavalli (ed altri animali), non sono mai solo cavalli per noi.
L’amore e la passione che abbiamo per loro, non possono essere spiegati.
Anche perché non ce n’è davvero bisogno…
Mentre il tempo farà svanire le loro impronte di zoccoli, quelle che rimarranno nei nostri cuori, non scompariranno mai!
Il Basilisco, conosciuto anche come Basiliscus, Sibilus, Basiliscu, Baselicoc, in latino “Regulus” (Principe) e in greco “Basiliskos” (Piccolo Re), è una creatura mitologica soprannominata il “Re dei Serpenti”, in quanto capace di uccidere o pietrificare guardando direttamente negli occhi la vittima.
Esistono varie descrizioni del Basilisco, il quale viene dotato di diverse abilità minacciose e diversi aspetti.
Una delle tante, sostiene che il Basilisco sia nato dalla testa mozzata di Medusa, uccisa dall’eroe greco Perseo .
Nella sua opera “Storia Naturale”, invece, Plinio il Vecchio narra che il Basilisco di Cirene, antica colonia greca e città romana in Libia, era un piccolo serpente lungo circa venti centimetri, così velenoso da lasciare sulla sua scia un’ampia traccia di veleno mortale, e con uno sguardo altrettanto letale.
Questa creatura è ornata da una macchia bianca brillante sulla testa come una specie di diadema, sbaraglia tutti i serpenti con il suo sibilo e non muove il corpo in avanti in molteplici spire come gli altri serpenti, ma avanza con la parte centrale sollevata in alto. Il Basilisco brucia i cespugli non solo con il suo tocco, ma anche con il suo respiro, brucia l’erba e frantuma le rocce.
Il suo effetto sugli altri animali è disastroso, ma riesce ad uccidere anche indirettamente: una volta, un Basilisco è stato ucciso con una lancia da un uomo a cavallo e l’infezione, che saliva attraverso l’arma, ha ammazzato non solo il cavaliere ma anche il cavallo.
L’unico animale in grado di combattere il Basilisco era l’odore di una Donnola anche se, secondo la leggenda, l’animale doveva aver mangiato prima della Ruta.
Oppure, i Basilischi venivano gettati nelle tane delle donnole, facilmente riconoscibili dalla sporcizia del terreno, e quest’ultime li uccidevano con il loro fetore, morendo esse stesse nello stesso momento, e la battaglia della natura era compiuta.
Plinio il Vecchio narra anche che il Basilisco uccide con lo sguardo da lontano, riesce a distruggere tutti gli animali e le piante, tutto ciò che vive, non solo con il suo tocco ma anche con il suo respiro. E lo fa non solo con i suoi occhi, ma anche con il suo respiro espirato.
Nicandro di Colofone, un poeta greco del II secolo a.C., fornisce un’altra descrizione del Basilisco, scrivendo di considerare il Re dei Serpenti, piccolo davvero ma di gran lunga superiore a tutti gli altri.
La sua testa è appuntita color oro e larga tre palmi in lunghezza distesa, e nessuno dei mostri della terra dalle grosse spire sopporta il suo sibilo.
Quando a mezzogiorno si muovono verso un pascolo o una foresta, o un luogo di abbeveramento, si voltano e fuggono.
Il morso del Basilisco gonfia il corpo di un uomo e dagli arti la carne cade livida ed annerita.
Nemmeno un uccello, che insegue le tracce sopra i cadaveri, sia esso un’aquila o un avvoltoio, o un corvo che gracchia, né alcuna specie di bestia selvaggia che pascola sulle colline, si ciberà di lui, tanto sia terribile il fetore che emana.
Eppure anche se l’avidità o la fame attirasse uno di questi predatori, una rapida fine sarebbe giunta per lui sul posto.
Infatti, la morte causata da un Basilisco può essere inflitta direttamente mordendo, o indirettamente mangiando le carogne della sua preda avvelenata dal veleno.
Inoltre, questo veleno è così forte, che l’acqua rimane inquinata per secoli, portando quindi la morte a chiunque la beva.
Anche Claudio Eliano, filosofo e scrittore del 200 d.C., scrive che il veleno del Basilisco agisce attraverso oggetti indiretti.
Egli narra della morte di un uomo comune, che il veleno raggiunge attraverso il suo bastone, che è stato morso dalla mitica creatura.
Il motivo del potere di uccisione indiretta del veleno rimane lo stesso, cambiano solo le circostanze e i protagonisti.
Eliano dice anche che il canto del gallo sia dannoso per il Basilisco, il quale trema davanti a questo uccello e poi muore.
Pertanto, Eliano consiglia, a coloro che viaggiano in Libia, di armarsi di un gallo per proteggersi da un Basilisco.
Nella letteratura mitologica, si fa riferimento anche ad un’altra efficace contro il Basilisco, uno specchio.
Questo oggetto poteva riflettere lo sguardo mortale della creatura e bloccare, quindi, il suo veleno ed i vapori che espirava.
Beda il Venerabile, un monaco anglossassone del VII secolo d.C., fu il primo ad affermare che il Basilisco sia nato da un uovo deposto ogni sette anni da un gallo anziano.
L’uovo doveva essere sferico e doveva essere covato da un serpente o da un rospo sopra un nido di peli di Iuvi, cosa che poteva impiegare fino a nove anni.
Ma attenzione: il Basilisco può essere solo un maschio, perché deve avere il ricettacolo più appropriato di veleno e qualità distruttive.
Nella mitologia celtica preromana, invece, si narra che il Basilisco nasce da un uovo che un vecchio gallo depone poco prima di morire.
Dopo pochi giorni, ciò che si trova all’interno riceve poca protezione dal suo guscio, perché è molto simile a un guscio d’uovo dopo essere stato immerso in acqua bollente ed aceto.
Un Basilisco adulto apre l’uovo per liberare il piccolo; infatti, un adulto e la Donnola sono le uniche creature che possono accogliere il neonato, poiché chiunque altro lo guardi morirà, a causa del suo sguardo infuocato.
La nascita avviene durante la Luna Piena a mezzanotte in una notte limpida, purché la stella Sirio sia nell’Ascendente, affinché il Basilisco emerga.
Per questo motivo, in sanscrito, Sirio è la “Stella del Capo”.
L’Ascendente di Sirio segna il periodo più caldo dell’anno, in relazione alla capacità del Basilisco di bruciare tutto con la sua presenza nociva.
Il Basilisco nasce a mezzanotte e muore quando il Gallo canta all’alba, simboleggiando i concetti di estremi, tempo fuori dal tempo, tra spazi, transizioni e luce che vince sull’oscurità.
Ermete Trismegisto, un personaggio leggendario dell’Età pre-classica, sembra sostenesse, che le ceneri di Basilisco fossero necessarie per trasformare l’argento in oro.
Le terrificanti qualità del Basilisco influenzarono i Padri della Chiesa, che lo percepirono come un’allegoresi (procedura operativa adoperata nell’interpretazione dei testi sacri, grazie alla quale è possibile rinvenire il senso mascherato in maniera icastica delle parole) diabolica e lo paragonarono a Satana.
Il suo scopo primario è la morte e la distruzione: la morte fisica naturale risultante da questo spirito deriva da piaghe, malattie e infermità, disastri naturali e persino terrorismo.
La sua origine può essere fatta risalire all’antico Israele.
Gli Egiziani adoravano il Basilisco come “il signore e re dei serpenti per intimorire tutti gli altri, né per essere distrutti da nessuno“.
Esponevano un Basilisco incoronato sulla testa dei loro Dei, come osservato nella tavola di Bembine ed in altri monumenti egiziani, dimostrando il tentativo di Satana di elevarsi al di sopra di Dio come oggetto di adorazione.
Infatti, l’informazione sul Basilisco come il “re dei serpenti”, dovuta alla connotazione negativa di un serpente, aiutò Sant’Agostino a stabilire un collegamento tra la creatura mitologica ed il diavolo, il “Re dei demoni”:
«Rex est serpentium basiliscus, sicut diabolus rex est daemoniorum. Et conculcabis leonem et draconem»
«Il basilisco è re dei serpenti, come il diavolo è re dei demoni. E calpesterà il leone e il drago».
In alcune culture, il Basilisco è un simbolo di saggezza e spesso viene raffigurato mentre divora un essere umano.
Per gli Antichi, essere divorati dalla saggezza significava illuminazione, gnosi ed iniziazione ai misteri.
Il Basilisco è anche collegato all’onnipotente dio gnostico Abraxas, sovrano della magia e dei poteri spirituali nell’Universo, che nell’arte è raffigurato con la testa di un gallo, o di un leone, e il corpo di un uomo con le gambe che terminano in serpenti o scorpioni.
Nel folklore latinoamericano, il Basilisco è visto come una creatura che possiede abilità divine, principalmente per la sua incredibile abilità di attraversare rapidamente i corpi idrici, un’impresa sia ipnotizzante che simbolo del camminare tra i Mondi.
Nel tardo Medioevo, il Basilisco era descritto non solo come un avvelenatore perpetuo, ma anche come un ibrido dall’aspetto peculiare di un gallo con la coda di un serpente.
Oppure come una grande creatura sputafuoco con un ruggito terrificante; o come un gallo con una coda di serpente ed ali di drago; o come una lucertola con la testa di un gallo, la coda di un serpente e otto zampe di pollo.
Un racconto polacco narra che, nel 1587, in una cantina di uno dei tanti caseggiati fatiscenti di Varsavia, una domestica trovò i corpi di due ragazze scomparse.
Un consiglio comunale straordinario ed un medico di nome Benedictus si riunirono e, dopo l’ispezione dei corpi, il medico annunciò che la causa della morte di quelle disgraziate ragazze era stata un attacco di Basilisco.
Benedictus chiese ai consiglieri di far scendere un uomo in cantina, il quale doveva essere ricoperto di specchi su tutti i lati e doveva usare questa strana arma per uccidere il Basilisco.
Jan Taurer, un condannato a morte della Slesia, si offrì di farlo in cambio della salvezza della sua vita.
Quindi scese in cantina e tra le macerie trovò un Basilisco morto, e lo tirò fuori con un forcone, davanti a duemila persone.
Si dice che questa creatura fosse grande quanto un gallo, con un collo da tacchino ed occhi simili a quelli di una rana.
Ciò che era accaduto a Varsavia ebbe ampia risonanza in tutta Europa e si riflettè in vari racconti, che raccontavano la caccia al Basilisco del 1587.
In seguito, storie simili a conferma dell’esistenza del Basilisco, furono registrate anche in altre città europee.
Nonostante la sua natura crudele, il Basilisco rappresenta comunque il potere e per questo è diventato la creatura protettrice ed il simbolo tradizionale della città svizzera di Basilea.
In questa città si racconta che, nel 1474, un vecchio gallo fu processato in tribunale per aver deposto un uovo, da cui avrebbe potuto schiudersi un Basilisco: l’animale fu condannato a morte e decapitato e l’uovo distrutto.
Un’altra storia narra che, un tempo, un Basilisco vivesse in una grotta sotto il Gerberberglein nel centro di Basilea.
Questa leggenda è commemorata in un’iscrizione presso la fontana Gerberbrunnen, ma esistono tante altre fontane con protagonista il Basilisco, le “Basiliskenbrunnen”, progettate per la prima volta nel 1884, così come statue in tanti punti della città.
Anche in Italia troviamo il simbolo del Basilisco in alcuni comuni: Aversa, Sternatia, Lauria, Melfi, Teana, Venosa, Peschiera Borromea, Belluno.
Questo animale mitologico appare in “Game of Thrones”, una serie televisiva statunitense di genere fantastico iniziata nel 2011, e nel secondo libro della serie di Harry Potter, “La camera dei segreti”, a simboleggiare potere e controllo.
In quest’ultimo, Harry ed i suoi amici della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts vengono perseguitati da una strana e mortale creatura chiamata Basilisco, fatta nascere da Salazar Serpeverde.
Il Basilisco non è solo una creatura fantastica, è anche il nome di un genere di Sauri, Basiliscus, appartenenti alla famiglia delle Corytophanidae,la quale comprende 4 specie, caratterizzato dalla presenza di un rilievo di pelle di forma triangolare sopra gli occhi.
I Basilischi necessitano dei climi caldo-umidi dell’America tropicale, delle foreste lungo i fiumi dal Nord del Messico, Guatemala, fino a raggiungere all’Ecuador meridionale.
Il Basilisco è conosciuto anche come: Jesus Christ lizard, Jesus lizard, South American Jesus lizard o Lagarto de Jesus Cristo (Lucertola di Gesù Cristo, Lucertola di Gesù, Lucertola del sud America, Lagarto di Gesù Cristo), perché quando fugge dai predatori, raccoglie abbastanza slancio per attraversare l’acqua per una breve distanza, mentre tiene la maggior parte del suo corpo fuori, simile alla biblica storia di Gesù che cammina sulle acque.
Come Spirito Animale, il Basilisco arriva quando hai ignorato le esigenze del tuo Sé Ombra, quando porti dentro di te i semi della tua rovina, a meno che tu non permetta al Sé Ombra di respirare e di esprimersi.
Se hai avuto a che fare con qualcuno che intende farti del male, il Basilisco viene in tuo aiuto fornendoti la forza ed i mezzi per resistere.
Se qualcuno ti manca di rispetto, questa creatura emerge per aiutarti a creare confini marcati nella “sabbia”, visto che nessuno osa oltrepassare le restrizioni da lei imposte.
Se stai cercando di unire la tua natura inferiore e superiore in modo da poter vivere in equilibrio, il Basilisco ti aiuta a raggiungere l’armonia.
Ma può anche palesarsi, quando qualcuno sta cercando di spingerti a fare qualcosa che non vuoi fare o corromperti: spiritualmente,può aiutarti a garantire che tu rimanga fedele ai tuoi principi e non comprometta mai la tua integrità.
Come Animale Totem, il Basilisco emerge quando bisogna prepararsi ad abbracciare il cambiamento e ad adattarsi prontamente.
Esso ispira una rapida adattabilità ed agilità mentale, incoraggiando a pensare alle strategie veloci di fronte a cambiamenti improvvisi.
Il Totem Basilisco sottolinea l’importanza di raggiungere l’equilibrio tra vari aspetti della propria vita, lavoro e tempo libero, serietà e gioco, fisico e spirituale.
E’ anche un emblema di lungimiranza e visione, quindi bisognerebbe lasciarsi guidare a perseguire con fiducia idee innovative e percorsi apparentemente irraggiungibili.
In Astrologia, il Basilisco è associato allo Scorpione, che rappresenta la trasformazione e la rinascita, ed a Plutone, il pianeta della morte e della rigenerazione.
Qui, la creatura simboleggia il cambiamento ed il rinnovamento, ricordando che la vita è ciclica e niente dura per sempre.
Nei Tarocchi, il Basilisco è associato all’arcano n.13, La Morte, e rappresenta la trasformazione e la rinascita, l’affrontare le proprie paure e superarle per andare avanti.
La carta appare spesso quando bisogna confrontarsi con i propri demoni interiori o affrontare le sfide a testa alta.
Ritroviamo il Basilisco anche nel Feng Shui, dove rappresenta l’Elemento del Fuoco e la direzione sud-ovest. Simboleggia potere ed autorità, ricordando di abbracciare il cambiamento e la crescita.
A dispetto della connotazione negativa datale per la maggior parte del tempo, la figura del Basilisco offre una guida mistica, lezioni cruciali e profonde intuizioni, a coloro che avranno la fortuna di incontrarla.
Fate attenzione…
Sītā (dal sanscrito “solco”), conosciuta anche come Siya, Janaki, Maithili, Vaidehi e Bhumija, è una Dea indù protagonista del testo Ramayana, consorte di Rāma, l’avatar del Dio Vishnu, e considerata a sua volta avatar della di lui consorte, Lakṣmī .
Ella è nota per la sua dedizione, abnegazione, coraggio e purezza.
Un giorno, mentre stava arando, Sītā, figlia di Bhūmi (Dea della terra) fu trovata dal re indù di Videha, Janaka, il quale l’adottò.
Quando Sītā raggiunse l’età adulta, Janaka organizzò uno Swayamvara (cerimonia per scegliere un marito tra una lista di pretendenti) a Janakpurdham, con la condizione che la fanciulla avrebbe sposato solo colui che sarebbe stato in grado di tendere il Pināka, l’arco celeste del Dio Shiva.
Janaka sapeva che l’arco di Shiva non era sollevabile, tanto meno era possibile tenderlo per i comuni mortali, e per le persone egoiste non era nemmeno avvicinabile.
Soltanto Sītā, mentre giocava con le sue sorelle durante l’infanzia, aveva inconsapevolmente sollevato il tavolo su cui era stato posto l’arco, e ciò era qualcosa che nessuno a Mithila poteva fare.
Questo incidente fu tuttavia osservato da Janaka, il quale decise di farne una condizione per Swayamvara, perché voleva un genero che fosse forte quanto sua figlia.
A quel tempo, Viśvā-mitra, uno dei più saggi dell’antica India, aveva portato Rāma e suo fratello Lakshmana nella foresta, per la protezione del sacrificio.
Sentendo parlare di questo Swayamvara, Viśvā-mitra chiese a Rāma di parteciparvi e lo portò insieme al fratello al palazzo di Janaka a Janakpur.
Janaka fu molto felice di apprendere che Rāma e Lakshmana erano figli di Dasharatha, il re di Kosala.
La mattina dopo, al centro della sala, Rāma sollevò l’arco di Shiva con la mano sinistra, tese la corda e ruppe però l’arco.
Quindi, un altro avatar di Vishnu, Paraśurāma, si arrabbiò molto perché l’arco di Shiva si era spezzato, non sapendo però che anche Rāma era un avatar di Vishnu.
Quindi, dopo essere stato informato di ciò, si scusò per essersi arrabbiato.
Con quella prova dell’arco, Rāma soddisfò la condizione di Janaka di sposare Sītā la quale, più tardi, durante il Vivāhapañcamī, una festa di nozze, venne condotta alla cerimonia di matrimonio sotto la guida di Śatānanda, un astrologo indiano.
Fu un matrimonio collettivo, in cui Rāma sposò Sītā, Bhārata sposò la principessa Māṇḍavī, Lakshmana sposò Urmila e Śatrughna sposò Śrutakīrti (tutti fratelli di Rāma).
Qualche tempo dopo il matrimonio, Kaikeyī, la matrigna di Rama, costrinse Dasharatha a nominare Bharata re, sobillata dalle lusinghe della sua cameriera Manthara, quindi Rāma fu costretto a lasciare Ayodhya e trascorrere un periodo di esilio nelle foreste di Dandaka e poi a Panchavati.
A quel punto, Sītā e Lakshmana rinunciarono volontariamente alle comodità del palazzo e si unirono a Rāma.
Sūrpaṇakhā, una demone e sorella di Ravana, il re di Lanka, offrì il suo amore a Rāma, il quale la rifiutò e, infuriata, cercò di uccidere Sītā.
Nella foresta di Panchavati, Sītā fu rapita da Ravana, re di Lanka.
Lakshmana tagliò il naso di Sūrpaṇakhā e la rimandò indietro.
Ravana decise di rapire Sītā, e fece travestire Maricha, suo zio, da magnifico cervo per attirare la donna.
Quest’ultima, attratta dallo splendido animale dorato, chiese a suo marito di farne il suo animale domestico e, quando Rāma e Lakshmana si allontanarono dalla capanna, Ravana la rapì, travestendosi da mendicante.
Sītā fuggì, rifugiandosi presso il Dio indù del fuoco, Agni, e al re-avvoltoio Jaṭāyu, che cercava di proteggerla, Ravana tagliò le ali, riportando la donna prigioniera in uno dei suoi palazzi.
Nonostante ciò, Jaṭāyu sopravvisse abbastanza a lungo da informare Rāma di ciò che era successo.
Nel corso della prigionia, per un anno Ravana espresse il suo desiderio per Sītā, la quale rifiutò le sue avances.
Rāma inviò Hanumān, una divinità sua devota compagna, a cercare Sītā e, quando il dio la trovò, la donna gli dette i suoi gioielli da portare al marito, come prova della sua esistenza in vita.
Sītā fu finalmente salvata da Rāma, che intraprese una guerra per sconfiggere Ravana.
Dopo il salvataggio, Rāma sottopose la moglie ad una prova di dimostrazione della sua castità, durante la quale il Dio del fuoco Agni apparve davanti al marito per attestare la purezza di Sītā.
Una versione tailandese del Ramayana, racconta che la donna iniziò a camminare sul fuoco di sua spontanea volontà, per dimostrare la sua purezza; infatti, non bruciò ed i carboni ardenti si trasformarono in fiori di Loto.
In seguito a Ayodhya, Rāma fu incoronato re con Sītā al suo fianco però, anche se la fiducia e l’affetto verso la moglie non vacillarono mai, divenne presto evidente che alcuni sudditi non accettavano la lunga prigionia della donna sotto Ravana.
La gente comune iniziò a spettegolare su Sītā, mettendo in dubbio la decisione di Rāma di renderla regina.
Il re fu estremamente sconvolto nel sentire la notizia, ma alla fine disse a Lakshmana, che come re doveva rendere felici i suoi sudditi e che la purezza della regina di Ayodhya doveva essere al di sopra di ogni pettegolezzo.
Quindi, con il cuore pesante, gli ordinò di portare Sītā in una foresta fuori Ayodhya e di abbandonarla.
Per la seconda volta nella sua vita, Sītā, incinta, fu costretta all’esilio, trovando rifugio nell’eremo di Vālmīki, e ciò probabilmente fu causato da una maledizione lanciatale durante la sua infanzia.
Da giovane, Sītā aveva catturato una coppia di pappagalli divini, che provenivano proprio dall’eremo di Vālmīki.
Questi uccelli avevano la capacità di parlare, così come la giovane di comprendere gli animali.
La femmina di pappagallo in quel momento era incinta e chiese a Sītā di lasciarli andare, ma la giovane liberò solo il maschio, e la femmina morì a causa della separazione dal suo compagno.
Di conseguenza, l’uccello maschio maledisse Sītā, dicendole che un giorno avrebbe subito lo stesso destino, di essere separata dal marito durante la sua gravidanza.
Il pappagallo maschio rinacque come lavandaio.
A Vālmīki, quindi, Sītā diede alla luce due gemelli di nome Kuśa e Lava, che crebbe da sola, i quali divennero valorosi ed intelligenti e, alla fine, si unirono al padre.
Una volta rassicuratasi che Rāma aveva accolto i propri figli, Sītā chiese la liberazione da un mondo ingiusto e da una vita che raramente era stata felice, quindi la Terra si spaccò in due ed apparve sua madre Bhūmi, la quale portò via con sé sua figlia.
‘
Il Coniglio pasquale, (in inglese Easter Bunny, in tedesco Osterhase, ma prima ancora Oschter Haws), chiamato anche Coniglio di primavera, Coniglietto pasquale o Coniglio di Pasqua, è un animaletto immaginario, caratteristico dei Paesi di lingua tedesca e negli USA, il quale lascia doni per i bambini a primavera o a Pasqua.
La prima menzione conosciuta è un testo tedesco del 1572, che tradotto recita:
“Non preoccuparti
se il coniglietto pasquale ti sfugge;
se dovessero mancare le sue uova,
cucineremo il nido”.
Pasqua è una celebrazione della primavera e della nuova vita ed i suoi simboli, uova e fiori, evidenziano la fertilità femminile, esattamente come il Coniglio nelle tradizioni europee, dove è conosciuto anche come Lepre pasquale, con il suo sorprendente potenziale riproduttivo.
Nel corso degli anni il simbolismo della lepre ha avuto molti ruoli rituali e religiosi: per esempio venivano sepolte insieme agli esseri umani durante l’età neolitica in Europa, rappresentando la rinascita.
Durante l’Età del ferro, le sepolture rituali delle lepri erano comuni e, nel 51 a.C., Giulio Cesare raccontò che in Gran Bretagna questi animali non venivano mangiati, a causa del loro significato religioso.
Nel Rinascimento, le lepri appaiono spesso come simboli della sessualità nella letteratura e nell’arte, ma quelle bianche simboleggiano la vittoria sulla tentazione sessuale.
Invece, nelle tradizioni popolari inglesi e tedesche, la figura della lepre è specificamente collegata alla Pasqua, come è descritto in alcuni resoconti del 1600, dove si narra che in Germania i bambini andavano a caccia di uova di Pasqua nascoste dalla Lepre pasquale, proprio come avviene oggi negli Stati Uniti.
Ma anche in Inghilterra c’era la tradizione della Lepre pasquale, come quella del “Hare Pie Scramble”, che si teneva in un villaggio del Leicestershire, e consisteva nel mangiare un pasticcio fatto con carne di lepre, dopo che ci si era arrampicati per prenderne una fetta.
Nel ‘700, un parroco locale cercò di fermare questa usanza considerata pagana, ma senza esito, visto che l’usanza continua in quel villaggio ancora oggi.
Ma perché era considerato pagano festeggiare la lepre?
In tutto il nord Europa, per esempio, le tradizioni popolari narravano della convinzione che le streghe assumessero la forma di una lepre, per rubare il latte dalle mucche dei vicini.
Oppure che le streghe, sotto queste vesti, fossero in grado di risucchiare l’energia vitale delle persone, facendole ammalare.
Quindi, le megere dell’inverno dovevano essere bandite a Pasqua, scopo che si cercava di ottenere tramite numerose festività e rituali.
L’Equinozio di primavera veniva celebrato simbolicamente in opposizione alle attività prosciuganti della vita delle streghe e dell’inverno, per esempio con l’Osterfeuer, o Fuoco di Pasqua, una celebrazione tedesca, che prevede grandi falò all’aperto destinati a spaventare le megere.
In Svezia, il folklore popolare narra che a Pasqua le streghe volano via tutte sui loro manici di scopa, per festeggiare e ballare con il diavolo sulla leggendaria isola di Blåkulla, nel Mar Baltico.
Un’altra teoria sull’origine del Coniglio pasquale asserisce che derivi dalla tradizione pagana, in particolare dalla festa di Eostre, una dea della fertilità, il cui animale simbolo era un coniglio che, come scritto prima, simboleggia tradizionalmente la fertilità.
Inoltre, le uova sono anche rappresentative della nuova vita e centinaia di anni fa, le Chiese imponevano alle loro congregazioni di astenersi dalle uova durante la Quaresima, consentendo loro di consumarle nuovamente a Pasqua.
Da qui, probabilmente, nasce quindi l’idea di un Coniglio/Lepre, che depone le uova, ovvero “fertilità e nuova vita”.
Ciò deriva dal fatto che, nel 692 d.C., un concilio ecclesiastico a Costantinopoli, proibiva di mangiare latticini e uova durante la Quaresima e, poiché le uova sode si conservavano più a lungo, divennero parte delle celebrazioni pasquali.
Nel 1290, il re inglese Edoardo I ordinò che 450 uova decorate con tinture e foglie d’oro venissero donate alla famiglia reale nel giorno di Pasqua.
In seguito, nel 1682, il medico tedesco Georg Franck von Franckenau descrisse i bambini della zona di Heidelberg alla ricerca di “uova di lepre” nei giardini, e questa fu la prima descrizione conosciuta di una caccia alle uova di Pasqua.
Re Luigi XIV, nel 1725, fece realizzare in Francia un uovo di cioccolato, per celebrare la fine del digiuno quaresimale.
I primi Coniglietti pasquali commestibili, di pasta frolla e zucchero, furono prodotti anche in Germania agli inizi del 1800.
In quel periodo, i bambini creavano nidi d’erba e li sistemavano nei giardini primaverili dei genitori, affinché il Coniglio pasquale li riempisse durante la notte con uova dai colori vivaci.
Nel 1819, la principessa Vittoria di Sassonia, si trasferì dalla Germania in Inghilterra, portando con sé la tradizione della caccia alle uova di Pasqua.
Dalla fine del XVII secolo, flussi sempre più significativi di immigrati tedeschi raggiunsero le colonie britanniche, stabilendosi prevalentemente a New York ed in Pennsylvania, con una migrazione di massa dalla Germania agli Stati Uniti, ed il Coniglio pasquale arrivò con loro, che trasportarono la propria tradizione di una Lepre che deponeva le uova, chiamata “Osterhase” o “Oschter Haws”.
I loro figli costruivano dei nidi in cui questa creatura poteva deporre le sue uova colorate così, alla fine, l’usanza si diffuse in tutti gli Stati Uniti e le consegne del leggendario coniglio, nella mattina di Pasqua, si estesero fino a includere cioccolato ed altri tipi di caramelle e regali, mentre i cestini decorati sostituirono i nidi.
Inoltre, i bambini spesso lasciavano le carote per il Coniglio pasquale, nel caso in cui avesse fame a causa di tutti i suoi salti.
Alcuni anni dopo, in America comparvero stampe di “Lepre di Pasqua” e “Coniglio di Pasqua”.
La caccia alle uova di Pasqua ed il rotolamento delle uova sono due tradizioni popolari legate alle uova.
Negli Stati Uniti, il White House Easter Egg Roll, una gara nata nel 1878, in cui i bambini spingono uova sode decorate attraverso il prato della Casa Bianca, è un evento annuale che si tiene il lunedì dopo Pasqua, ancora oggi.
L’evento non ha alcun significato religioso, anche se alcune persone considerano il rotolamento delle uova un simbolo della pietra che bloccava la tomba di Gesù, che veniva rotolata via, portando alla sua Resurrezione.
Con gli anni, il folklore si è ampliato, rendendo il Coniglietto pasquale un po’ simile a Babbo Natale: ovvero, questo animale giudica se i bambini si siano comportati bene o meno e, in base a questo, porta dei doni.
Un’antica leggenda tedesca narra di come una madre, senza molti soldi, non potendo dare dolci ai suoi figli, decorò delle uova che nascose in giardino il giorno di Pasqua.
Quando i bambini andarono a caccia delle uova in giardino, videro un coniglio e pensarono che fosse stato il coniglio a deporre le uova!
Sebbene in Italia l’usanza del Coniglio pasquale non sia tradizionale, negli ultimi anni alcune case dolciarie hanno cominciato a proporre coniglietti di cioccolata o di peluche, in alternativa o abbinati alle tradizionali uova di cioccolato.
Nel 2015, è stata lanciata una prima versione della “caccia alle uova pasquali” nelle città di Torino, Napoli, Milano e Roma, con protagonista un coniglio chiamato, appunto, “Pasquale”.
Che aspetto ha il Coniglietto pasquale?
Questo animaletto è raffigurato come un Coniglio bianco con le orecchie lunghe, che saltella in giro con abiti umani colorati.
Vive segretamente nella zona meridionale dell’Oceano Pacifico, sull’Isola di Pasqua, Rapa Nui, dalla quale parte alla vigilia di Pasqua, per consegnare regali e caramelle in tutto il mondo.
Si dice anche, che l’Isola di Pasqua ospiti animali magici che fungono da fedeli aiutanti del Coniglietto pasquale, simili agli elfi nel laboratorio di Babbo Natale.
Il principe Shihābuddīn Moḥammed Khuram nacque dall’imperatore Jahangir e dalla madre indù Jodhabai, nell’anno 1592.
In seguito gli fu conferito il titolo “Shāh Jahān”, che significa “Imperatore del mondo“.
Egli nacque con un cucchiaio d’argento e godette di tutti i privilegi dell’eredità reale, ebbe l’addestramento marziale e studiò teologia nelle migliori accademie con i migliori studiosi, amato immensamente da suo nonno Akbar.
Un giorno, mentre Shāh Jahān faceva la sua solita passeggiata nel celebre bazar Meena del Forte di Agra, intravide una bellissima ragazza persiana che vendeva artigianato e gioielli.
A prima vista, fu folgorato dalla bellezza di questa fanciulla, che accese in lui un immediato senso di amore.
Era consuetudine tra le donne del Meena Bazaar, vendere oggetti di valore nelle loro bancarelle, poiché avevano nelle donne reali le loro migliori clienti.
Il principe innamorato, dopo un paio di notti insonni, chiese dove si trovasse la ragazza persiana, e venne a sapere che ella non era altri che Arjumand Banu Begum, la nipote della sua matrigna Noor-Jahan, nonchè la figlia di Asaf Khan.
Ella era una donna di talento e colta, parlava bene in arabo e persiano, e sapeva comporre poesie.
Era nota per avere una combinazione di modestia e candore, una donna calorosamente semplice e indipendente.
All’inizio dell’adolescenza, aveva attirato l’attenzione di importanti nobili del regno.
Così, nel 1607, iniziò la storia d’amore tra i due giovani, Shāh Jahān ed Arjumand Banu, quando entrambi avevano quasi 15 anni.
Con il dovuto tempo, questo affetto si moltiplicò in entrambi i cuori e finalmente, cinque anni dopo il loro fidanzamento, fu celebrato il matrimonio.
Arjumand Banu così, nel 1612 divenne la seconda moglie di Shāh Jahān (anche se ben presto fu la sua favorita per tutto il resto della sua vita) il quale, trovandola l’eletta tra tutte le donne del tempo, le conferì il titolo di “Mumtāz Maḥal” (in persiano “gioiello del palazzo”).
La coppia trascorse circa 19 anni di vita coniugale all’insegna del divertimento, dell’allegria e della fiducia reciproca e, mentre lui regnava sull’impero, dettando i comandi della corte reale, impartendo ordini o addirittura guidando le spedizioni militari, lei lo seguiva come un’ombra.
Mumtāz Maḥal era la sua compagna costante e fidata confidente, sedeva accanto all’imperatore nella Sala dell’Udienza Privata e nella Sala dell’Udienza Pubblica.
Si nascondeva dietro una tenda e, se non era d’accordo con qualcosa, gli posava la mano sulla schiena, fuori dalla vista degli altri.
Grazie alla sua intercessione, Shāh Jahān perdonò i nemici o sospese le condanne a morte.
La sua fiducia in lei era così grande, che le diede il più alto onore della Terra: il suo sigillo imperiale, il Mehr Uzaz, che convalidava i decreti imperiali e nulla poteva essere fatto senza il suo consenso..
Spesso Mumtāz Maḥal interveniva per conto dei poveri e degli indigenti, patrocinò anche un certo numero di poeti, studiosi e altre persone di talento, fornì pensioni e donazioni alle figlie di studiosi poveri, teologi e uomini pii.
Nei loro 19 anni di matrimonio, ebbero 14 figli insieme (otto figli e sei figlie), sette dei quali morirono alla nascita o in età molto giovane.
L’erede era il figlio maggiore, Dara, e Shāh Jahān nominò altri 3 figli governatori di diverse altre province dell’India.
Shāh Jahān riversava però un amore eccessivo su Dara trascurando gli altri tre e, non essendo un padre sensibile, non riuscì a comprendere il cambiamento comportamentale del figlio Aurangzēb, il quale iniziò a nutrire una sorta di apatia nei confronti del padre.
Aurangzēb guidò con successo le spedizioni militari, nascondendo sempre il suo odio verso il padre, ma arrivò il giorno in cui Shāh Jahān iniziò la ribellione di Khan-i-Jahan Lodi, guidando gli accampamenti militari verso sud.
Mumtāz Maḥal decise di trasferirsi con lui, nonostante fosse incinta e non godesse di un ottimo stato di salute a causa del corpo debole.
Shāh Jahān ordinò alle sue truppe di accamparsi a Burhanpur, dopo una corsa di quasi 800 km., dove in seguito attaccarono il nemico, sconfiggendolo.
Il re ed altri nobili con tutto il loro armamentario bellico celebrarono l’evento, ignari di cosa ci fosse in serbo, e trascurando Mumtāz Maḥal, che si aspettava che trascorresse del tempo con lei.
In quello stesso momento, arrivò un eremita sufi con un paio di mele ed avvertì anche Shāh Jahān di fare attenzione alla persona a lui vicina con gli occhi neri e la pelle bianca.
Shāh Jahān ignorò il suggerimento, senza immaginare che la persona con gli occhi neri e la pelle bianca fosse il suo terzo figlio Aurangzēb, che covava una cospirazione contro suo padre.
Arrivò il giorno del travaglio e Mumtāz Maḥal, nella sua Sharmiyana (tenda), era circondata dalle esperte ostetriche e dal medico, dalla figlia maggiore Jahanara Begum e Sat-ul-Nisa, la sua cameriera prescelta, era in piedi vicino a lei.
Intanto, Shāh Jahān era fuori dal campo e, in contatto con gli eunuchi che facevano da messaggeri, aspettava la buona notizia.
All’improvviso gli arrivò un messaggio e lui si precipitò sul posto, ordinando a tutti gli altri di allontanarsi tranne Jahanara, la cameriera preferita, ed il medico reale Bazir Khan.
Mumtāz Maḥal gemeva sotto i dolori del travaglio da più di 35 ore, il suo viso stava impallidendo ed una sorta di sonnolento torpore attanagliava il suo corpo.
Era il 17 giugno 1631, e Shāh Jahān, seduto vicino a Mumtāz Maḥal, si avvicinò al suo viso, mentre le lacrime scendevano dagli occhi.
Egli mormorava e pregava Allah, percependo che la sua amata era sull’orlo del collasso.
Il dottor Bazir khan era impotente.
Mumtāz Maḥal morì di di emorragia post-partum quel giorno, dando alla luce il suo quattordicesimo figlio, dopo un parto durato circa 30 ore.
Il suo corpo fu temporaneamente sepolto a Burhanpur nel giardino Zainabad sulla riva del fiume Tapti.
Subito dopo il suo lutto, Shāh Jahān fu inconsolabile e si rifugiò in lutto appartato per un anno.
Quando apparve di nuovo, i suoi capelli erano diventati bianchi, la sua schiena era piegata ed il suo viso infossato.
Fu sua figlia maggiore Jahanara a portarlo gradualmente fuori dal dolore, prendendo il posto di sua madre a corte.
Dopo 30 anni di regno, Shāh Jahān fu arrestato da suo figlio Aurangzēb, che lo depose.
Shāh Jahān non ha mai voluto he Burhanpur fosse il vero punto di riposo di sua moglie, quindi il corpo di Mumtāz Maḥal fu dissotterrato nel dicembre 1631 e trasportato in una bara d’oro, scortata da suo figlio Shah Shuja, di nuovo ad Agra.
L’imperatore rimase a Burhanpur per concludere la campagna militare che lo aveva originariamente portato nella regione e, mentre era lì, iniziò a pensare alla progettazione ed alla costruzione di un giardino adatto e di un luogo funerario ad Agra per sua moglie.
Questo fu un compito che richiese i migliori architetti disponibili e 22 anni per essere completato, dal quale nacque il Tāj Mahal, inserito dal 9 dicembre 1983 nella lista dei “patrimoni dell’umanità” dell’UNESCO e nel 2007 fra le “sette meraviglie del mondo”, da sempre considerato uno delle più notevoli bellezze dell’architettura musulmana in India.
Il Tāj Mahal fu commissionato da Shāh Jahān per essere costruito come mausoleo per Mumtāz Maḥal, come un’incarnazione di amore immortale e devozione coniugale.
La bellezza del monumento è anche presa come rappresentazione della bellezza di Mumtāz Maḥal, e questa associazione porta molti a descrivere il Tāj Mahal come femminile.
Alla sua morte, Shāh Jahān fu deposto insieme con la sua defunta moglie, in una cripta relativamente semplice sotto la camera interna, con i volti rivolti a destra verso La Mecca.
Ai lati della tomba si trovano iscrizioni calligrafiche ed una di esse suggerisce che “Tāj “ sia un’abbreviazione del nome Mumtāz.
E’ bene citare che, tra le altre cose, Shāh Jahān fu anche il fondatore della nuova città di Delhi, il cui nome originario era proprio Shāhjahānābād.
“𝐑𝐢𝐯𝐨𝐥𝐠𝐢 𝐢𝐥 𝐯𝐢𝐬𝐨 𝐯𝐞𝐫𝐬𝐨 𝐢𝐥 𝐒𝐨𝐥𝐞 𝐞 𝐥𝐞 𝐨𝐦𝐛𝐫𝐞 𝐜𝐚𝐝𝐫𝐚𝐧𝐧𝐨 𝐝𝐢𝐞𝐭𝐫𝐨 𝐝𝐢 𝐭𝐞“
–𝐏𝐫𝐨𝐯𝐞𝐫𝐛𝐢𝐨 𝐦𝐚𝐨𝐫𝐢–
Il Sole è la stella più vicina alla Terra, è un mare di fiamme inquieto e ribollente e, nei tempi antichi, la gente lo immaginava come una sfera perfetta di fuoco celeste creata dagli Dei.
Tecnicamente, occorrerebbero circa 333.000 Terre per eguagliare la massa del Sole, ed al suo interno potrebbero starci più di un milione di Terre, in quanto il suo volume è maggiore, poiché la materia solare ha circa un quarto della densità della materia terrestre.
Sebbene l’energia del Sole provenga dal profondo, la luce che vediamo proviene da un guscio esterno, chiamato “fotosfera” dallo spessore di “solo” 300 km.
Il calore ed altri tipi di radiazioni possono fuoriuscire solo attraverso questo strato esterno e la fotosfera brilla, perché viene riscaldata a quasi 5.800 K (Kelvin) dalle reazioni nucleari nel nucleo.
Sopra la fotosfera c’è la “cromosfera”, dallo spessore di circa 5.000 km, mentre alla sua base ha una temperatura di circa 4.000 K.
Per secoli, gli esseri umani hanno tentato di spiegare il Sole nei termini della propria visione del Mondo, descrivendolo spesso come un dio, un demone, uno spirito dispettoso, un creatore onnipotente o uno spietato portatore di vita. Qualunque sia stato il suo ruolo, la maggior parte delle culture ha riconosciuto l’importanza del Sole come primo controllore di tutta la vita sulla Terra, oltre a spiegare, comprendere ed affrontare i fenomeni della natura.
Il Sole è il donatore di luce e di vita alla totalità del Cosmo, con il suo occhio non lampante e onniveggente, egli è il severo garante della giustizia.
Con la connessione quasi universale della luce, il Sole è la fonte della saggezza e le sue qualità di sovranità, potere di beneficenza, giustizia sono il fulcro di qualsiasi gruppo religioso d’élite, al cui interno si trova un’ideologia solare altamente sviluppata.
I re governati dal potere del Sole, identificato come Divinità Suprema, rivendicano la discesa della Stella madre del Sistema solare; le divinità solari, gli dei che personificano il Sole, sono sovrani dotati di onniscienza.
Ed intorno al suo alone luminescente, sono nate tante leggende, miti e folklore.
Eccone alcuni.
𝔽𝕖𝕥𝕠𝕟𝕥𝕖 𝕖 𝕚𝕝 ℂ𝕒𝕣𝕣𝕠 𝕕𝕖𝕝 𝕊𝕠𝕝𝕖
Nella mitologia greca Fetonte, il cui nome significa “splendente”, era il figlio del Dio-Sole Helios e di Climene, una donna mortale.
Egli viveva solo con sua madre, poiché suo padre era responsabile della guida del carro di cavalli, che trasportava il Sole da un lato all’altro della Terra durante il giorno.
Un giorno, un compagno di scuola di Fetonte lo derise non credendo alla sua affermazione di essere figlio di un dio e il fanciullo, in lacrime, chiese a Climene la prova della sua paternità.
La donna assicurò a suo figlio che il grande Dio Helios era davvero suo padre e lo mandò a trovarlo.
Fetonte, felice e pieno di speranza, si recò in India, poiché lì si trovava il palazzo di suo padre, che quotidianamente iniziava il giorno proprio da Oriente.
Raggiunto il palazzo, Fetonte rimase stupito ed abbagliato dalla magnificenza delle massicce colonne ornate di oro scintillante e pietre preziose che lo decoravano, mentre i soffitti e le porte erano realizzati in avorio lucido ed argento.
Fetonte si presentò all’austera presenza del suo presunto padre, Helios, seduto su un trono tempestato di diamanti, e circondato dalle presenze del Giorno, del Mese, dell’Anno e dell’Ora.
Tra gli altri suoi sudditi, c’erano la Primavera, adorna di fiori, l’Estate, con una ghirlanda di chicchi maturi a forma di lancia, l’Autunno, con i piedi arrossati dal succo d’uva e l’Inverno, con la brina tra i capelli.
Il ragazzo raccontò ad Helios l’umiliazione che aveva dovuto subire a causa dell’imputazione di illegittimità, supplicandolo di riconoscerlo come suo figlio e di stabilire al di là di ogni dubbio la legittimità della sua nascita.
Helios si commosse profondamente ed affermò fermamente la paternità e la legittimità di Fetonte, dichiarando davanti a tutti i suoi attendenti, che avrebbe concesso volentieri al figlio qualunque favore gli avesse chiesto.
Fetonte, felice perché il grande Helios lo aveva riconosciuto come suo figlio, decise di mettere alla prova i limiti dell’amore e della benevolenza di suo padre, chiedendogli di poter guidare il fantastico Carro del Sole per un giorno.
Helios era spaventato dalla richiesta irrazionale di suo figlio, cercò di dissuadere Fetonte, spiegandogli che nemmeno il potente Zeus poteva pretendere di guidare il Carro del Sole, figurarsi un semplice mortale.
Purtroppo però, una volta promesso un favore, gli Dei non potevano ritirarlo né negarlo e, nonostante Helios usasse tutte le sue capacità persuasive per supplicare l’imprudente Fetonte di ritirare la sua oltraggiosa richiesta, non ebbe alcun risultato.
A quel punto, Helios non potè far altro che cedere e dandogli delle informazioni e direttive, consigliò a Fetonte di guidare il carro lungo una rotta intermedia e di non andare né troppo in alto né troppo in basso.
Helios ha dipinto un’espressione di potere e arroganza sul volto di suo figlio.
Non appena iniziò, Fetonte si rese conto di aver intrapreso più di quanto fosse capace di fare, e si ritrovò del tutto impotente nel controllare i cavalli infuocati.
Quando gli animali si resero conto della debolezza e dell’inesperienza del loro giovane condottiero, iniziarono a seguire un percorso selvaggio e pericoloso.
Si narrava, che il Carro del Sole avesse aperto uno squarcio nei cieli che era poi divenuto la Via Lattea, una galassia a spirale.
Quindi, l’incontrollabile auriga solare cominciò a seguire una rotta troppo bassa, colpendo la terra e scatenando immense distruzioni, tra cui l’incendio del continente africano e la sua trasformazione in deserto, rendendo il popolo etiope dalla pelle nera, poiché bruciato dal fuoco del Sole, e causando perfino notevoli danni al fiume Nilo.
Zeus infuriato, pensando al pericolo di una distruzione maggiore, colpì il ragazzo con il suo fulmine ed il corpo morto di Fetonte cadde nel fiume Eridano, che in seguito sarebbe stato conosciuto come il fiume Po d’Italia.
Lo sfortunato Fetonte fu profondamente pianto dalle sue sorelle, le Eliadi, che furono trasformate in pioppi per stare vicino al fiume e proteggere per sempre il loro fratello.
𝕄𝕚𝕥𝕠 𝕕𝕖𝕝𝕝𝕒 𝕔𝕣𝕖𝕒𝕫𝕚𝕠𝕟𝕖 𝕕𝕖𝕘𝕝𝕚 𝔸𝕓𝕠𝕣𝕚𝕘𝕖𝕟𝕚 𝕒𝕦𝕤𝕥𝕣𝕒𝕝𝕚𝕒𝕟𝕚
C’è stato un tempo in cui tutto era fermo.
Tutti gli Spiriti della Terra dormivano, tranne il grande Padre di tutti gli Spiriti, l’unico sveglio.
Egli, dolcemente svegliò la Madre Sole e, quando aprì gli occhi, un caldo raggio di luce si diffuse verso la Terra addormentata.
Il Padre di tutti gli Spiriti disse alla Madre Sole:
“Madre, ho un lavoro per te. Scendi sulla Terra e risveglia gli Spiriti dormienti. Dai loro delle forme.”
La Madre Sole scivolò sulla Terra, e in quel momento era nuda, e cominciò a camminare in tutte le direzioni e, ovunque camminasse, crescevano piante.
Ritornata al campo in cui aveva cominciato il suo lavoro, la Madre si riposò, molto soddisfatta di sé.
Il Padre di tutti gli Spiriti vide il suo lavoro, e poi le ordinò di andare nelle caverne e risvegliare gli Spiriti.
Questa volta, Madre Sole si avventurò nelle oscure caverne sui fianchi delle montagne dove la luce brillante, che irradiava da lei, risvegliò gli Spiriti e, dopo che se ne fu andata, insetti di ogni tipo volarono fuori dalle caverne.
La Madre Sole si sedette ed osservò la gloriosa vista dei suoi insetti mescolarsi ai suoi fiori.
Ma ancora una volta il Padre degli Spiriti la esortò a proseguire il suo lavoro ed ella si avventurò in una grotta molto profonda, diffondendo la sua luce attorno a sé.
Il suo calore sciolse il ghiaccio e furono creati i fiumi ed i torrenti del Mondo; poi creò pesci e piccoli serpenti, lucertole e rane. Successivamente risvegliò gli Spiriti degli uccelli e degli animali ed essi irruppero nella luce del Sole in una gloriosa gamma di colori. Vedendo ciò, il Padre di tutti gli Spiriti fu soddisfatto del lavoro di Madre Sole.
Chiamò a sé tutte le sue creature ed insegnò loro a godere delle ricchezze della Terra ed a vivere in pace gli uni con gli altri.
Poi salì in cielo e divenne il Sole.
Le creature viventi osservavano con soggezione il Sole, mentre strisciava nel cielo, verso ovest e, quando finalmente affondò sotto l’orizzonte, furono presi dal panico, pensando che le avesse abbandonate.
Per tutta la notte rimasero immobili al loro posto, pensando che la fine dei tempi fosse arrivata e, dopo quella che sembrò loro una vita, Madre Sole fece capolino sopra l’orizzonte ad est.
Così, i figli della Terra impararono ad aspettarsi il suo andare e venire e non ebbero più paura.
All’inizio i bambini vivevano insieme pacificamente, ma alla fine l’invidia si insinuò nei loro cuori e cominciarono a litigare.
Madre Sole fu costretta a scendere dalla sua casa nel cielo per mediare i loro litigi, dando ad ogni creatura il potere di cambiare la propria forma in qualunque cosa scegliesse.
Tuttavia non era soddisfatta del risultato finale, per esempio i ratti che aveva creato si erano trasformati in pipistrelli; c’erano lucertole giganti e pesci con la lingua ed i piedi blu.
E poi, il più strano dei nuovi animali aveva un becco come un’anatra, denti per masticare, una coda come un castoro e la capacità di deporre le uova: si chiamava “ornitorinco”.
Madre Sole guardò la Terra e pensò tra sé, che avrebbe dovuto creare nuove creature, affinché il Padre di tutti gli Spiriti non si arrabbiasse per ciò che ora vedeva.
Così dette alla luce due figli: il Dio era la “Stella del mattino” e la Dea era la “Luna”, che poi mandò sulla Terra, diventando i nostri antenati.
Madre Sole li aveva resi superiori agli animali, perché facevano parte della sua mente e non avrebbero mai voluto cambiare forma.
“𝕀𝕝 𝕊𝕠𝕝𝕖 𝕖 𝕤𝕦𝕒 𝕗𝕚𝕘𝕝𝕚𝕒”,
𝕝𝕖𝕘𝕘𝕖𝕟𝕕𝕒 𝕕𝕖𝕝𝕝𝕒 𝕥𝕣𝕚𝕓ù 𝕚𝕟𝕕𝕚𝕒𝕟𝕒 ℂ𝕙𝕖𝕣𝕠𝕜𝕖𝕖,
𝕕𝕖𝕝𝕝𝕒 ℂ𝕒𝕣𝕠𝕝𝕚𝕟𝕒 𝕕𝕖𝕝 ℕ𝕠𝕣𝕕 𝕖 𝕋𝕖𝕟𝕟𝕖𝕤𝕤𝕖𝕖.
Mentre Sole viaggiava attraverso il cielo, ogni giorno a metà giornata, si fermava per cenare a casa di sua figlia.
Ora, Sole odiava le persone perché strizzavano sempre gli occhi quando la guardavano: “Mi guardano in faccia!”, disse un giorno a suo fratello Luna.
“A me piacciono,” disse Luna, “mi sorridono sempre.”
Sole era gelosa e decise che avrebbe ucciso le persone, mandandogli la febbre.
Molte persone stavano morendo e quelle rimaste decisero che avrebbero dovuto uccidere Sole.
Con un po’ di magia, una delle persone fu trasformata in un serpente a sonagli e mandata ad aspettare vicino alla porta della figlia, per mordere Sole, quando si fosse fermata a cena.
Ma fu la figlia ad essere morsa dal serpente, quando aprì la porta per cercare sua madre.
Quindi, il serpente ritornò sulla Terra con Sole ancora viva e la figlia morta.
Quando Sole scoprì l’accaduto, si chiuse in casa e si addolorò.
La gente non aveva più la febbre, ma adesso faceva freddo ed era sempre buio.
Quindi, sette persone furono scelte per visitare la terra dove i fantasmi danzano, per vedere se riuscivano a recuperare la figlia di Sole.
Mentre il fantasma della fanciulla danzava davanti a loro, la colpirono con delle verghe facendola cadere, poi la intrappolarono in una scatola.
Durante il viaggio di ritorno, figlia si lamentò di non riuscire a respirare, quindi aprirono appena il coperchio.
A quel punto, diventò un uccello rosso e fuggì, volando di nuovo nella Terra dei fantasmi.
Vedendo le sette persone ritornare a mani vuote, Sole cominciò a piangere e ciò causò una grande alluvione.
E, per divertire Sole nel tentativo di fermare il diluvio, la gente ballava.
Questo è il motivo per cui la gente ancora oggi balla la Danza del Sole.
“𝕃𝕒 𝕋𝕣𝕚𝕓ù 𝕕𝕖𝕝 ℚ𝕦𝕚𝕟𝕥𝕠 𝕄𝕠𝕟𝕕𝕠”,
𝕝𝕖𝕘𝕘𝕖𝕟𝕕𝕒 𝕕𝕖𝕘𝕝𝕚 𝕀𝕟𝕕𝕚𝕒𝕟𝕚 𝕋𝕠𝕝𝕥𝕖𝕔𝕙𝕚
𝕕𝕖𝕝𝕝’𝔸𝕞𝕖𝕣𝕚𝕔𝕒 𝕔𝕖𝕟𝕥𝕣𝕒𝕝𝕖
Un tempo, furono creati cinque Mondi e cinque Soli, uno dopo l’altro.
Il primo Mondo fu distrutto, perché i suoi abitanti agirono in modo sbagliato, quindi furono mangiati dai gattopardi e distrutti dal Sole. Il secondo Sole vide la sua popolazione trasformarsi in scimmie, a causa della mancanza di saggezza.
Il terzo Sole vide il suo Mondo distrutto da incendi, terremoti e vulcani, perché le persone non facevano sacrifici agli Dei.
Il quarto Mondo perì in un’alluvione che sommerse anche il Sole. Prima di creare il quinto Mondo, il nostro Mondo, gli Dei si incontravano nell’oscurità, per decidere chi avrebbe avuto l’onore di accendere il quinto Sole.
Tecciztecatl (divinità lunare azteca) si offrì volontario, quindi gli altri Dei accesero un grande fuoco in cima ad una piramide ed egli si preparò a gettarsi nelle fiamme.
Era vestito con bellissime piume di colibrì, oro e turchese, e per quattro volte tentò di gettarsi nel fuoco suicida, ma ogni volta la paura lo bloccò.
Quindi il più umile di tutti gli Dei, Nānahuātl, vestito di semplici canne, si gettò nel fuoco.
Teccitztecatl si vergognò così tanto, che anche lui si gettò nel fuoco.
Nānahuātl, grazie al suo sacrificio, diventò il Dio del Sole, permettendo a questa stella di poter continuare a brillare sulla Terra.
Infatti, il nuovo Sole si alzò nel cielo, dando luce al quinto Mondo.
𝕏ī𝕙é, 𝕝𝕒 𝔻𝕖𝕒 𝕕𝕖𝕝𝕝𝕒 𝕃𝕦𝕔𝕖 𝕖 𝕞𝕒𝕕𝕣𝕖 𝕕𝕖𝕚 𝔻𝕚𝕖𝕔𝕚 𝕊𝕠𝕝𝕚
Xīhé era una delle due mogli dell’imperatore Di Jun (insieme a Changxi), ed anche la madre di dieci Soli, che avevano sembianze di Corvi a tre zampe.
Essi risiedevano su un albero di gelso, il Fusang, nel Mare Orientale e, durante l’antica settimana cinese fatta di dieci giorni, quotidianamente uno degli uccelli Sole veniva incaricato di viaggiare intorno al Mondo, su una carrozza guidata da Xīhé.
Quindi, ogni giorno appariva un Sole, finché alla fine della settimana si riunivano tutti nella Valle della Luce a est.
Essendo una madre affettuosa, Xīhé lavava i suoi figli e poi li metteva a letto tra i rami del gigantesco gelso.
Un giorno, stanchi di questa routine, tutti e dieci i Soli scapparono insieme, provocando una terribile ondata di caldo che fece bruciare il Mondo.
Di Jun dette all’arciere Hou Yi l’incarico di tenere sotto controllo i disobbedienti Soli, per evitare conseguenze disastrose.
Hou Yi, per prima cosa, cercò di ragionare con i Soli ma, quando ciò non funzionò, fece finta di sparargli con il suo arco per intimidirli. Quando i Soli si rifiutarono nuovamente di prestare ascolto agli avvertimenti di Hou Yi, l’arciere iniziò a sparargli contro uno per uno.
Ogni volta che cadevano, si trasformavano in Corvi a tre zampe finchè, alla fine, rimase soltanto un Sole.
L’imperatore Di Jun e la madre del Sole Xīhé chiesero che fosse risparmiato per la prosperità dell’uomo.
In una variante, l’ultima freccia di Hou yi fu rubata da un ragazzo coraggioso, o dallo stesso imperatore Di Jun, che si rese conto che la Terra aveva bisogno di un Sole.
“𝕀𝕝 ℝ𝕒𝕘𝕟𝕠 𝕖𝕕 𝕚𝕝 𝕊𝕠𝕝𝕖”, 𝕝𝕖𝕘𝕘𝕖𝕟𝕕𝕒 𝕕𝕖𝕝𝕝𝕒 𝕥𝕣𝕚𝕓ù ℂ𝕙𝕖𝕣𝕠𝕜𝕖𝕖
All’inizio dei tempi, c’era solo l’oscurità e la gente continuava a scontrarsi ed a morire.
La Volpe raccontò che le persone dall’altra parte del mondo avevano molta luce, ma erano troppo avide per condividerla. Quindi, l’Opossum andò lì per rubare un pezzettino di luce.
Trovò il Sole appeso ad un albero, che illuminava tutto, pertanto ne prese un pezzettino e lo nascose nel pelo della coda.
Il calore gli bruciò il pelo della coda: ecco perché gli Opossum hanno la coda pelata.
Anche la Poiana provò a rubare il Sole, cercando di nasconderne un pezzetto tra le piume della sua testa: ecco perché le Poiane hanno la testa calva.
Dopo qualche tempo, ci provò anche nonna Ragno, la quale realizzò una ciotola di argilla.
Poi tessé una rete (la Via Lattea) attraverso il cielo, raggiungendo l’altra parte del Mondo.
Raccolse tutto il Sole mettendolo nella ciotola di argilla e lo portò a casa, dalla nostra parte del Mondo.
𝕃𝕒 𝕃𝕖𝕘𝕘𝕖𝕟𝕕𝕒 𝕤𝕦𝕝 𝕊𝕠𝕝𝕖 𝕕𝕖𝕝 𝕡𝕠𝕡𝕠𝕝𝕠 𝕄𝕒𝕠𝕣𝕚
Il popolo Maori della Nuova Zelanda racconta che, tanto tempo fa, quando le giornate erano più brevi di adesso, l’eroe Maui sentiva spesso i suoi fratelli lamentarsi della mancanza di luce durante il giorno.
Quindi, decise di risolvere il problema, domando il Sole.
Sebbene i suoi fratelli fossero scettici, loro e la loro tribù aiutarono Maui a tessere una rete di lino.
Maui ed i suoi fratelli partirono quindi verso est, per trovare il luogo di riposo del Sole.
Coprirono l’ingresso della grotta del Sole con reti e si spalmarono di argilla, per proteggersi dal suo calore.
Quando spuntò il Sole, esso lottò e si dibatté nelle reti, ma i fratelli resistettero.
Maui iniziò a battere il Sole con una mazza fatta con la mascella di un antenato, finché la stella non fu così indebolita, da non poter più correre attraverso il cielo.
Questo è il motivo per cui oggi il Sole viaggia così lentamente nel cielo.
“𝕀𝕝 ℂ𝕠𝕣𝕧𝕠 𝕖𝕕 𝕚𝕝 𝕊𝕠𝕝𝕖”,
𝕝𝕖𝕘𝕘𝕖𝕟𝕕𝕒 𝕕𝕖𝕝𝕝𝕒 𝕥𝕣𝕚𝕓ù 𝕋𝕤𝕚𝕞𝕤𝕙𝕚𝕒𝕟, 𝕘𝕣𝕦𝕡𝕡𝕠 𝕖𝕥𝕟𝕚𝕔𝕠 𝕒𝕞𝕖𝕣𝕚𝕟𝕕𝕠
Una volta, il Cielo non aveva giorno e, quando era sereno, c’era un po’ di luce proveniente dalle Stelle ed invece, quando era nuvoloso era molto buio.
Il Corvo aveva messo i pesci nei fiumi e gli alberi da frutto nella terra, ma era rattristato dall’oscurità.
Il Sole, a quel tempo, era custodito in Cielo da un Capo indiano, che lo aveva conservato in una scatola.
Il Corvo volò in alto ed arrivò fino ad un buco nel cielo, attraversandolo.
Arrivò ad una sorgente, dove la figlia del Capo sarebbe giunta per prendere l’acqua e metterla nella borraccia.
Il Corvo si trasformò in un seme di cedro e galleggiò sull’acqua. Quando la ragazza bevve dalla borraccia, inghiottì il seme senza accorgersene e rimase incinta.
Nacque un bambino, che in realtà era il Corvo.
Dopo qualche tempo, il bambino implorava di giocare con la pallina gialla che il nonno teneva in una scatola.
Quindi, gli fu permesso di giocare con il Sole e, quando il Capo distolse lo sguardo, si trasformò di nuovo in Corvo e volò indietro attraverso il buco nel cielo, portando il Sole con sé che, da quel momento, poté brillare libero nella volta celeste.
𝕃𝕒 “𝕃𝕖𝕘𝕘𝕖𝕟𝕕𝕒 𝕕𝕖𝕝 𝕊𝕠𝕝𝕖 𝕘𝕖𝕝𝕠𝕤𝕠”
Una leggenda della tribù Cherokee narra che, molto tempo, fa Sole era geloso di sua sorella Luna, perché la gente della Terra la guardava sempre con facce stravolte ed occhi socchiusi, mentre sorridevano alla sua dolce luce.
La figlia del Sole viveva in mezzo al Cielo, quindi ogni giorno il padre si fermava a farle visita.
Arrabbiato con gli umani per le loro brutte espressioni, Sole iniziò a sfruttare queste opportunità per inviare così tanto calore, che le persone iniziarono a morire di febbre.
Gli umani si rivolsero ai Piccoli Uomini, che nella leggenda Cherokee erano spiriti amichevoli e magici, che abitavano nelle foreste.
I Piccoli Uomini dissero che Sole doveva morire, così trasformarono un uomo in un serpente a sonagli ed un altro in uno spaventoso serpente con corna chiamato Uktena.
Il serpente a sonagli arrivò alla casa della figlia di Sole per aspettare il suo arrivo. Ma mentre aspettava, la figlia Sole aprì la sua porta ed il serpente a sonagli la morse accidentalmente, uccidendola.
Quando Sole andò a trovare sua figlia, la scoprì morta e cominciò a piangere, inondando la Terra con le sue lacrime.
Nel disperato tentativo di consolare Sole e fermarne il pianto, il popolo della Terra tentò di salvare la figlia morta, andando nella Terra dei fantasmi, ma fallì.
Quando tornarono, Sole cominciò a piangere ancora più forte e, per distrarlo, la gente cominciò a ballare ed a suonare, finché Sole non tornò finalmente ad essere felice.
Le Selkies, o Roan, sono delle creature terioforme (divinità con aspetto animale), appartenenti alla mitologia scozzese, irlandese, norvegese ed islandese, particolarmente diffusa nelle isole Shetland, isole Orcadi ed isole Fær Øer.
Chiamate anche Selky, Seilkie, Sejlki, Silkie, Silkey, Saelkie, Sylkie, ecc., e dall’aspetto di foche, perfettamente in grado di rimuovere il loro manto per assumere un aspetto umano, vivono in mare ed il nome deriva dallo scozzese arcaico “selich” = “foca grigia” (Halichoerus grypus).
Invece l’altro nome, “Roan” discende dal gaelico scozzese “maighdeann-ròin” = “fanciulle-foca”.
Le Selkies sono principalmente associate alle isole settentrionali scozzesi, dove sembra che vivano libere come foche nel mare, cambiando la pelle per diventare umane, quando vanno sulla terra.
Walter Traill Dennison, un contadino folclorista del ‘800, originario delle Orcadi, insisteva che “selkie” fosse il termine corretto da applicare a questi mutaforma, per distinguerli dai Tritoni, e che Samuel Hibbert-Ware, uno scrittore delle Shetland dello stesso periodo, commise un errore nel riferirsi a loro come “Tritoni” e “Sirene”.
Però, esaminando altre culture norrene, gli scrittori islandesi si riferiscono alle mogli-foca anche come Tritoni (marmennlar).
Tornando alle Selkies, queste creature mutaforma hanno una duplice natura: possono essere amichevoli ed utili verso gli esseri umani, ma essere anche pericolose e vendicative.
Secondo il folklore celtico, le Selkies possiedono anche un lato dispettoso ed una voce accattivante, possono trasformarsi da foca in forma umana solo in determinate notti, solitamente alla vigilia di Mezza estate o quando c’è la Luna Piena, e possono controllare il tempo ed il mare.
Esse hanno una ragnatela che unisce le dita, che permette loro di muoversi tra il mondo dell’uomo e quello del mare e, una volta che una Selkie cambia pelle, può ritornare alla sua forma di foca solo ritrovando la sua pelle.
Nella tradizione delle Orcadi, si dice che le Selkie siano vari tipi di foche, e che solo a quelle di dimensioni maggiori rispetto alla foca grigia, si possa attribuire la capacità di trasformarsi in esseri umani, e sono chiamate “Gente Selkie”.
Qualcosa di simile si afferma nella tradizione delle isole Shetland, secondo cui i Tritoni e le Sirene preferiscono assumere la forma di foche più grandi, chiamate “Pesci Haaf”.
Le Selkies sono solitamente descritte come attraenti e seducenti in forma umana, e molte storie su di loro narrano che abbiano relazioni romantiche o sessuali con esseri umani, spesso dando origine a bambini.
A volte possono anche essere costrette, o indotte con l’inganno, a sposare esseri umani, così come spesso qualcuno ruba e nasconde la loro pelle di foca, impedendo loro di tornare in mare.
Infatti, è tipico il racconto di un uomo che ruba la pelle di una Selkie, avendola trovata nuda sulla riva del mare, e la costringe a diventare sua moglie.
La moglie trascorre il suo tempo in cattività desiderando il mare, la sua vera casa, e guardando con desiderio l’oceano.
In seguito può succedere che lei abbia dei figli dal marito umano ma, se riesce a ritrovare la sua pelle di foca, cosa che spesso si verifica grazie all’aiuto dei suoi bambini, la mutaforma torna immediatamente al mare, abbandonando la prole che ama, ma dalla quale, in alcune versioni delle storie, va in visita sulla terraferma una volta all’anno.
In altre novelle, i figli non rivedranno mai più la loro madre, oppure la Selkie farà loro visita, avvicinandosi verso la riva, ed i bambini vedranno arrivare una grande foca che li “saluta” con il suo verso animale.
Esistono anche i Selkies maschi, descritti come bellissimi nella loro forma umana e dotati di grandi poteri seduttivi sulle donne.
Di solito cercano quelle che sono insoddisfatte della propria vita, come le donne sposate che aspettano i loro mariti pescatori.
In un racconto popolare, si narra che una donna delle isole Orcadi, soprannominata Ursilla, quando desiderava entrare in contatto con il suo Selkie maschio, versava sette lacrime in mare.
Naturalmente, di questi racconti esistono varie versioni a seconda della zona in cui vengono narrati, e in alcuni si dice che le Selkies non possano trasformarsi in umane a loro piacimento, ma debbano aspettare che le condizioni delle maree siano corrette.
Per esempio, per quanto riguarda Ursilla, il suo Selkie maschio contattato prometteva di farle visita al “settimo ruscello” o “marea primaverile”.
In alcune versioni, le Selkies possono assumere sembianze umane solo una volta ogni sette anni, perché sono corpi che ospitano anime condannate.
Ciò perché c’era il pensiero che questi mutaforma fossero esseri umani che avevano commesso atti peccaminosi, o angeli decaduti.
Nel racconto “Il figlio di Gioga”, un gruppo di foche che riposava nelle Ve Skerries, isole rocciose delle Shetland, subì un’imboscata e venne scuoiato dai pescatori di Papa Stour (altra isola delle Shetland), ma poiché si trattava in realtà di Selkies, lo spargimento del sangue causò un’ondata di acqua di mare, ed un pescatore fu abbandonato.
Le vittime-Selkies si ripresero in sembianze umane, ma lamentarono la perdita della pelle, senza la quale non avrebbero potuto tornare alla loro casa sottomarina.
Il marito di una di queste, Ollavitinus, era particolarmente angosciato poiché ormai era separato dalla moglie, ma sua madre Gioga fece un patto con il marinaio abbandonato, offrendosi di riportarlo a Papa Stour, a condizione che la pelle gli fosse restituita.
Una storia delle isole Fær Øer, “La leggenda di Kópakonan”, (Kópakonan significa letteralmente “donna foca”), racconta di un giovane contadino del villaggio di Mikladalur che, dopo aver appreso dalle voci popolari che le foche potevano sbarcare e cambiare la pelle una volta all’anno nella tredicesima notte, andò a vedere di persona.
Mentre era in agguato, l’uomo osservò molte foche nuotare verso la riva, mutando la pelle per rivelare le loro forme umane.
Il contadino prese la pelle di una giovane donna Selkie la quale, non potendo tornare in acqua senza di essa, fu costretta a seguire il giovane nella sua fattoria e diventare sua moglie.
I due restarono insieme per molti anni, generando anche un figlio e, ogni giorno, l’uomo chiudeva la pelle della Selkie in una cassa, tenendo sempre con sé la chiave della serratura, in modo che sua moglie non potesse mai accedervi.
Tuttavia, un giorno l’uomo dimenticò la chiave a casa e tornò alla sua fattoria, scoprendo che sua moglie si era ripresa la pelle ed era tornata nell’oceano.
Tempo dopo, durante una battuta di pesca, il giovane ritrovò la Selkie ed uccise sia suo marito Selkie che i suoi due figli.
Infuriata, la donna Selkie promise vendetta per i suoi parenti perduti, esclamando: “alcuni affogheranno, altri cadranno da scogliere e pendii, e questo continuerà, finché non saranno perduti così tanti uomini da poter unire le braccia attorno all’intera isola di Kanchey!”
Si ritiene che le morti che si verificano sull’isola, ancora oggi, siano dovute proprio alla maledizione di questa Selkie.
Nella ballata popolare “Peter Kagan and the Wind”, Gordon Bok canta del pescatore Kagan che sposò una donna-foca.
Contro il volere della moglie, salpò pericolosamente verso la fine dell’anno e rimase intrappolato, mentre combatteva contro una terribile tempesta, impossibilitato a tornare a casa.
Sua moglie assunse la forma di foca e lo salvò, anche se ciò significò per la Selkie di non poter tornare mai più nel suo corpo umano e quindi nella sua casa felice.
In una famosa rivisitazione della leggenda dei Selkies, la ballata “The Secret of Roan Inish”, un film indipendente americano-irlandese del 1994, si racconta la storia di una giovane ragazza che scopre di discendere dai Selkies.
La donna parte all’avventura per ritrovare suo fratello, che presumibilmente era stato catturato dalle Selkies.
Uno degli elementi più toccanti delle leggende sui Selkies è l’idea che, prima o poi, dovranno tornare in mare, che guardino con desiderio l’oceano, combattuti tra l’amore per i loro partner umani ed il bisogno di ritornare alla loro forma autentica.
In alcune versioni della leggenda, le Selkies possono ritornare alla loro forma di foca dopo aver versato sette lacrime in mare, atto che consente loro di tornare al loro stato naturale e fuggire dal mondo degli umani.
Altre ancora indicano anche che le donne umane possono diventare Selkie, se indossano una pelle di foca e camminano in mare, e che possono quindi tornare alla forma umana una volta cambiata la pelle.
I figli nati tra l’uomo e le Selkie possono avere le mani palmate, come nel caso della “Sirena delle Shetland”, i cui figli avevano “una sorta di rete tra le dita”, o anche di Ursilla, e quindi i bambini devono farsi tagliare ad intermittenza la fettuccia di materiale corneo tra le dita delle mani e dei piedi.
In “The Folklore of Orkney and Shetland “, dello scrittore scozzese del ‘900 Ernest Marwick, si narra di una donna che dà alla luce un figlio con la faccia di foca, dopo essersi innamorata di un uomo Selkie.
In seguito, un sogno le rivela la posizione dell’argento che la donna dovrà trovare, dopo aver dato alla luce suo figlio.
Inoltre, sembra che un gruppo di discendenti dei Selkies, menzionato anche dallo stesso Marwick, possedesse una pelle verdastra, screpolata in alcuni punti del corpo, e che queste ferite emanassero un forte odore di pesce.
Bisogna comprendere che, prima dell’avvento della medicina moderna, molte condizioni fisiologiche erano incurabili e, quando i bambini nascevano con anomalie, era cosa comune incolpare le fate o altre entità simili.
Il clan MacCodrum delle isole Ebridi Esterne divenne noto come i “MacCodrum delle foche”, poiché affermavano di discendere dall’unione tra un pescatore ed una Selkie.
Questa era una spiegazione per la crescita (sindattilia, malattia ereditaria) della pelle tra le dita che faceva sembrare le loro mani delle pinne.
Un’altra spiegazione per il mito dei Selkies, proverebbe dal fatto che gli Inuit indossavano abiti ed usavano kayak, entrambi fatti di pelli di animali.
Sia i vestiti che i kayak perdono galleggiabilità una volta saturi e dovrebbero essere asciugati, quindi si pensa che gli avvistamenti di Inuit che si spogliavano dei loro vestiti, o giacevano accanto alle pelli sulle rocce, avrebbero potuto portare a credere nella loro capacità di trasformarsi da foca in uomo e viceversa.
Un’altra credenza è che gli Spagnoli naufraghi furono portati a riva, e che i loro capelli neri come il giaietto somigliassero alle foche. Infine, l’antropologo norvegese A. Asbjørn Jøn, afferma dell’esistenza di una forte tradizione, che indica che i Selkies “si siano formati in modo soprannaturale dalle anime delle persone annegate”.
Comunque sia, nel corso del tempo, il folklore che circonda le Selkies si è evoluto e sono diventate più strettamente associate alle storie d’amore romantiche, ispirando molte opere d’arte, letteratura, musica e film.
Molto bello è il film d’animazione irlandese del 2014, “Song of the Sea”, che narra di un giovane ragazzo, il quale scopre che sua sorella muta è una Selkie, che deve trovare la sua voce e liberare le creature fatate dalla dea celtica Macha.
Ma uno degli adattamenti alla leggenda più amati è “Ondine, il segreto del mare”, un dramma romantico del 2009 con Colin Farrell, ambientato a Castletownbere, in Irlanda, il quale esplora la possibile esistenza delle Selkies.
È la storia di un pescatore irlandese, che scopre una donna nella sua rete da pesca e sua figlia, curiosa, inizia a sospettare che la donna possa essere una Selkie.
Fate attenzione…
Misteriosi, inquietanti, intriganti, vere e proprie opere d’arte, i Teschi di cristallo sono sculture in Quarzo, molto spesso ialino (Cristallo di Rocca), trasparente o bianco latte, ritenuti dai loro cercatori manufatti mesoamericani precolombiani, solitamente attribuiti alle civiltà dei Maya e degli Aztechi.
Tuttavia, queste affermazioni sono state confutate per tutti i campioni resi disponibili, in quanto studi scientifici hanno dimostrato che i teschi esaminati sono stati fabbricati a metà del XIX secolo o successivamente, quasi certamente in Europa, in Germania, in un periodo in cui abbondava l’interesse per la cultura antica.
Inoltre, l’arte mesoamericana è vero che ha numerose rappresentazioni di teschi, ma nessuno di quelli presenti nelle collezioni dei musei proviene da scavi documentati.
Oltre al fatto che le ricerche condotte su diversi teschi di cristallo al British Museum nel 1967, 1996 e 2004 dimostrano che le linee dentellate che segnano i denti, sono state scolpite utilizzando attrezzature da gioielliere creati nel XIX secolo, e quindi rendendo insostenibili la tesi precolombiana.
Questi teschi di cristallo hanno suscitato grande interesse tra gli archeologi e gli antropologi, curiosi di conoscere la loro esistenza e il loro scopo.
Il quesito fondamentale riguarda il motivo per cui sono stati creati con così tanto lavoro e tempo, scolpendo un minerale al quarto posto per la sua durezza dopo i diamanti, e perché “proprio dei teschi”…
Negli anni ’70, alcuni membri del movimento New Age sostenevano che i teschi mostravano fenomeni paranormali, spesso descritti come tali nella narrativa, in numerose serie televisive di fantascienza, film, libri e videogames.
La tesi New Age più quotata vedeva questi oggetti come potenti reliquie dell’antica Atlantide, e si inventò persino un numero canonico: esistevano esattamente 13 teschi.
Ad Atlantide, questi 13 teschi di cristallo contenevano la coscienza, la conoscenza e la saggezza di ogni cosa, fin dall’inizio delle forme umanoidi sulla Terra, oltre 250.000 anni fa.
Queste informazioni includevano il Progetto Divino dell’umanità, l’origine, lo scopo, il destino e la conoscenza spirituale dell’umanità, che oggi può salvare il pianeta.
Dodici teschi contenevano ciascuno la coscienza di ognuna delle dodici tribù (costituite dagli emissari più puri di Atlantide, che dovevano propagare l’antica saggezza, per aiutare la Terra nella sua evoluzione e custodire le memorie), mentre il tredicesimo teschio, un Cristallo Maestro, immagazzinava la conoscenza di tutte le dodici tribù, e fu trasportato nella sesta dimensione, le Sale di Amenti, durante la caduta di Atlantide.
Questa leggenda è raccontata in diversi continenti ed in diversi modi, ma la sintesi è sempre quella delle dodici razze (o tribù) di Esseri Stellari, che visitano il pianeta centinaia di migliaia di anni prima.
Essi sono affascinati dalla bellezza di questo pianeta unico e vorrebbero aiutare i suoi abitanti primitivi nel loro sviluppo.
Il Quarzo ha la capacità di archiviare ed elaborare dati, quindi ogni Essere Stellare ha lasciato un pezzo della sua conoscenza e saggezza più profonda all’interno del suo enorme pezzo di quarzo individuale (dodici in totale), per supportare la nostra crescita.
E, per fare ciò, al Quarzo hanno dato la forma simbolica di un teschio umano, creandone un ultimo, il tredicesimo, come maestro che coordina questa operazione.
Questi tredici teschi dovrebbero essere ben nascosti ed una leggenda narra, che l’ultima volta che furono insieme fu 500 anni fa a Teotihuacan, poco prima dell’arrivo degli Spagnoli.
Dopodiché, furono poi dispersi ed accuratamente nascosti.
La Leggenda dei 13 antichi Teschi di Cristallo dice che, una volta riuniti, essi creeranno una nuova griglia di coscienza per l’umanità.
Durante il XIX secolo, il commercio dei falsi teschi precolombiani si sviluppò moltissimo e, sebbene molti musei ne avessero acquisito in precedenza, un commerciante di antichità, Eugène Boban, aprì il suo negozio a Parigi nel 1870, diventando quindi la persona maggiormente associata alle collezioni museali di teschi di cristallo di quel periodo.
La maggior parte della collezione di Boban, inclusi tre teschi di cristallo, fu venduta successivamente all’etnografo Alphonse Pinart, il quale donò la collezione al Museo del Trocadéro di Parigi, divenuto in seguito Musée de l’Homme.
Ma a cosa servivano questi teschi?
Tra le varie tesi che parlano di questi teschi, si dice che essi facevano parte di rituali e cerimonie, e si suppone contenessero la conoscenza riguardante la storia della razza umana e della civiltà.
Vediamone alcuni.
TESCHIO DI MITCHELL-HEDGES (TESCHIO DEL DESTINO): Il primo, ed il più famoso, è il teschio di Mitchell-Hedges, scoperto dall’archeologo nel 1924 durante uno scavo archeologico presso un antico sito Maya nella giungla tropicale dell’Honduras britannico, oggi Belize.
Dopo aver bruciato 33 ettari di fitta foresta, l’area rivelò un’enorme piramide di pietra, le mura di una città ed un anfiteatro, luogo chiamato “Lubaantun” o “Il luogo delle pietre cadute“.
Quando Frederick Albert Mitchell-Hedges ritornò sul posto dopo tre anni, accompagnato dalla figlia adottiva Anna, scoprì il teschio sotto le rovine di un altare.
Ma, successivamente, questa storia fu smentita, quando si seppe che Anna non aveva accompagnato suo padre in quella spedizione, ma che Mitchell-Hedges aveva acquistato il teschio ad un’asta tenuta da Sotheby’s a Londra.
Nonostante ciò, Anna rimase fedele alla sua storia fino alla sua morte all’età di 100 anni, nel 2007, continuando ad affermare di aver fatto diversi sogni riguardanti cerimonie e rituali eseguiti dagli antichi Maya, ogni volta che il teschio era nella sua camera da letto di notte.
Però rimane un mistero riguardo a questo teschio: esso fu sottoposto ad un esame scientifico presso i laboratori Hewlett Packard, ed i risultati furono piuttosto sconcertanti.
Il teschio, costituito da un blocco di quarzo trasparente delle dimensioni di un piccolo cranio umano, che misura circa 13 cm di altezza, 18 cm di lunghezza e 13 cm di larghezza, era stato scolpito con diamanti e poi levigato, ma la cosa strana era che tutta la lavorazione era stata eseguita contro “l’asse” del cristallo.
Ciò significa che, ogni volta che si taglia un pezzo di cristallo o quarzo, lo si deve fare secondo l’asse formato dalla struttura molecolare della roccia, in quanto andare contro di esso manderebbe in frantumi l’intero pezzo.
Quindi, come aveva fatto lo scultore?
Nella prima edizione della sua autobiografia “Danger My Ally”, nel 1954, F.A. Mitchell-Hedges menzionò il teschio solo brevemente, affermando: “Ha almeno 3.600 anni e, secondo la leggenda, era utilizzato dal Sommo Sacerdote dei Maya, quando compiva riti esoterici. Quando voleva la morte di qualcuno con l’aiuto del teschio, la morte arrivava invariabilmente“.
Tutte le edizioni successive non comprendono assolutamente la menzione del teschio.
Nel 1970, Anna affermò anche che le era stato detto dai pochi Maya rimasti, che “il teschio era usato dal sommo sacerdote per volere la morte“, ecco perché il manufatto viene talvolta chiamato “Il teschio del destino”.
TESCHIO DI PARIGI: E’ il più grande dei tre teschi venduti da Eugène Boban ad Alphonse Pinart, alto circa 10 cm ed ha un foro praticato verticalmente al centro.
Fa parte di una collezione conservata al Musée du Quai Branly della capitale francese e, nel 2007-2008, è stato sottoposto a test scientifici per tre mesi, con la conclusione che si trattava di “certamente non precolombiano, presenta tracce di lucidatura e abrasione da parte di strumenti moderni”.
Nel 2009 i ricercatori del Center And Search Restoration Musées De France, hanno pubblicato i risultati di ulteriori indagini per stabilire quando era stato scolpito il teschio di Parigi.
Le analisi con microscopio elettronico a scansione hanno dimostrato che il teschio di Parigi era stato scolpito più tardi di un manufatto di campione di quarzo di riferimento, noto per essere stato tagliato nel 1740, pertanto la creazione è avvenuta tra il XVIII ed il XIX secolo.
TESCHIO DEL BRITISH MUSEUM: Questo teschio di cristallo apparve per la prima volta nel 1881, nel negozio dell’antiquario parigino Eugène Boban, ma all’epoca nel suo catalogo non era menzionato.
Sembra che, dapprima, tentò di venderlo al Museo nazionale del Messico come manufatto azteco, senza successo, e poi lo vendette a New York, dove si era trasferito.
In seguito, il teschio fu venduto all’asta e acquistato da Tiffany & Co, che, a sua volta, lo rivendette al British Museum, nel 1897.
Questo teschio è molto simile al teschio di Mitchell-Hedges, sebbene sia meno dettagliato e non abbia la mascella inferiore mobile.
Il British Museum cataloga il teschio di origine “probabilmente europea, XIX secolo d.C.”, precisando che “non è un autentico manufatto precolombiano”, essendo stato sicuramente realizzato con strumenti moderni.
TESCHIO DEL TEXAS: Soprannominato Max, il teschio del Texas, era in possesso di un guaritore tibetano, Norbu Chen, che lo diede a Carl e Jo Parks per pagare un debito.
Fu solo dopo aver scoperto che il teschio era di interesse archeologico mondiale, lo tirò fuori dal suo armadio e lo fece esaminare da un esperto.
Così si scoprì che era antico.
TESCHIO DI MAASLAND: Un altro appassionato di teschi di cristallo, Joke Van Dieten Maasland, ha un teschio di cristallo di Quarzo fumé, scoperto nel 1906 durante lo scavo di un tempio Maya in Guatemala.
Joke afferma in un suo libro, “Messaggeri dell’antica saggezza”, che il teschio abbia poteri curativi ed abbia aiutato a guarire un tumore al cervello.
Il teschio è soprannominato E.T., perché ha una testa appuntita e una mascella esagerata con un morso eccessivo, che la fa sembrare una testa a forma del famoso alieno.
TESCHIO DELLO SMITHSONIAN: Il “Teschio dello Smithsonian”, numero di catalogo A562841-0 nelle collezioni del Dipartimento di Antropologia, Museo Nazionale di Storia Naturale, è stato spedito per posta allo Smithsonian Institution in Virginia, anonimamente nel 1992.
Il suo donatore ha affermato che fosse un oggetto azteco, appartenente presumibilmente alla collezione di Porfirio Diaz, generale e politico messicano.
È il più grande dei teschi, pesa 14 kg ed è alto 38 cm, ed è stato scolpito utilizzando il carborundum (carburo di silicio), un abrasivo moderno.
Pertanto, è esposto come un falso moderno al Museo Nazionale di Storia Naturale.
Nonostante alcune affermazioni presentate in un vasto assortimento di modalità, leggende di Teschi di Cristallo con poteri mistici non figurano nelle autentiche mitologie e resoconti spirituali mesoamericani o di altri nativi americani, così come di altre tradizioni esoteriche.
A tanti, però, piace pensare che i teschi simboleggino messaggi paranormali, previsioni sul destino dell’umanità, poteri curativi.
Infatti, anche se non esistono prove scientifiche a sostegno dell’idea che i teschi di cristallo abbiano poteri curativi, molte persone credono nella loro capacità di promuovere il benessere fisico ed emotivo.
Quindi, alcuni professionisti della medicina alternativa utilizzano i teschi di cristallo, ovviamente nuovi, nelle loro pratiche di guarigione, sostenendo che possano aiutare a bilanciare l’energia del corpo e promuovere un senso di calma e relax.
Che tu creda o meno nei poteri curativi dei teschi di cristallo, non si può negare che siano oggetti meravigliosi, che possono portare un senso di pace e serenità in qualsiasi spazio.
I teschi di cristallo sono disponibili in molte forme, dimensioni e tipi di cristalli diversi, anche se si preferisce spesso Quarzo ialino, Ametista ed Ossidiana.
Ogni tipo di cristallo ha proprietà e poteri curativi unici, per esempio, l’Ametista favorisce la calma ed il rilassamento, mentre l’Ossidiana fornisce protezione dall’energia negativa.
Che tu sia un collezionista o semplicemente qualcuno che apprezza la bellezza dei teschi di cristallo, non si può negare che siano oggetti affascinanti con una ricca storia e molto mistero che li circonda.
Ognuno di loro possiede il proprio simbolismo ed i propri intricati dettagli: dalla forma degli occhi alla posizione dei denti, si pensa che ogni teschio abbia significato ed uso.
Ad esempio, si dice che i teschi con le braccia incrociate rappresentino l’unione degli opposti, mentre quelli con le mascelle allungate significhino una connessione con il mondo sotterraneo Maya.
Le teorie e le interpretazioni non mancano quando si parla di questi oggetti enigmatici, ed in fondo ammantano di mistero, eccitazione e trepidazione i nostri pensieri, portandoci momentaneamente in un mondo in cui possiamo ancora sognare un futuro migliore, grazie a ciò che Atlantide vuole tramandarci.
Sognare non costa nulla…
La notte a cavallo tra il 31 ottobre ed il 1 novembre, per tanti è sempre particolare, fatta un po’ di sano timore e di aspettative trepidanti, che non fanno male a nessuno.
Infatti, quando lo spavento è provocato da una situazione ludica, come può essere questa notte, che alcuni festeggiano con Halloween, allora il brivido serve a risvegliare il corpo, provocando una tempesta chimica di paura, seguita dal sollievo.
Si avverte un’atmosfera ovattata, che a volte risveglia le nostre piccole fobie o vecchi infantili ricordi.
Per esempio, il suono di qualcuno che bussa alla porta può essere una delle cose più terrificanti, quando non aspetti nessuno ed è notte fonda.
Nelle leggende, aprire le porte agli estranei è l’errore più grande che si possa commettere, poiché non si ha alcun controllo una volta che la porta è aperta.
Ma cosa succederebbe, se la voce dall’altra parte suonasse familiare, come quella di un amico, di un parente o della tua stessa madre?
La storia di Nale Ba, o Naale Baa (ನಾಳೆ ಬಾ), è una leggenda popolare raccontata dagli anni’90, principalmente in Karnataka, nella regione sud-occidentale dell’India, per l’esattezza nel villaggio Maleshawaram di Bangalore.
In questo villaggio popolare vivevano centinaia di persone con le loro famiglie, in maniera tranquilla, fino a quando all’improvviso è successo qualcosa che nessuno avrebbe immaginato.
Durante una notte buia, i membri di una famiglia, che viveva in una piccola casa e stava per andare letto, all’improvviso sentirono una voce dall’esterno.
Riconoscendo che si trattava di uno dei loro parenti, un membro della famiglia si precipitò verso la porta per aprirla e lasciarlo entrare.
Aprì lentamente la porta, ma vide che non era un suo parente, bensì una donna brutta che aveva bussato ed utilizzava la voce di un suo familiare.
Prima che potesse chiedere qualcosa a quella signora, lei lo attaccò e lo fece morire immediatamente.
Il giorno successivo, la notizia di questo terribile incidente si diffuse nelle aree vicine, e la polizia arrivò lì per denunciare il caso ed avviare le indagini.
Inizialmente, gli abitanti del villaggio ed i poliziotti non presero la cosa molto sul serio, pensavano che si trattasse semplicemente di un procedimento penale, quindi, la polizia iniziò a cercare la persona che aveva ucciso l’uomo quella notte, come si fa di solito in tutti questi tipi di casi.
Ma la notte successiva, un episodio simile si ripeté, un’altra persona morì con le stesse modalità: anche lui aveva sentito da fuori la voce del suo parente ed aveva aperto la porta, trovandosi di fronte una donna brutta.
Ella aveva attaccato il suo corpo con le unghie, portandolo alla morte.
Quindi, il giorno successivo, nuovamente la polizia andò ad indagare sulla questione ed anche questa volta, pensò che si trattasse di un “normale” omicidio.
Gli abitanti del villaggio erano confusi ed anche profondamente addolorati per i tragici incidenti che erano accaduti quelle notti.
Mentre il sole tramontava ad occidente e la coltre di oscurità si avvicinava al villaggio fino a coprirne il cielo, gli abitanti residenti iniziarono a pregare per la sicurezza ed il benessere dei loro cari, prendendo consapevolezza e timore che le morti potessero continuare.
Infatti accadde ancora: c’era “qualcuno o qualcosa” che vagava per la città e bussava alle porte delle abitazioni.
Se si apriva la porta o si rispondeva, a quel punto la propria morte era confermata, sarebbe morto vomitando sangue.
Per questo motivo, le persone iniziarono a scrivere “Nale Ba” (o Naale Baa, ನಾಳೆ ಬಾ) all’ingresso della casa, che significa “Vieni domani“, pensando che, una volta letto, l’Essere sarebbe andato via, tornando il giorno dopo, ed il ciclo si ripeteva all’infinito.
Quindi, gli abitanti dei villaggi lo scrivevano sui muri per proteggersi, ed ancora alcuni ritengono che spiriti maligni o streghe vaghino di notte, chiamando i nomi delle persone di una data famiglia, oppure utilizzando una voce conosciuta, dando così il nome sia alla leggenda che alla creatura che li perseguitava.
Alcuni dicono che lo spirito sia un fantasma nuziale, che vaga per la città alla ricerca di suo marito, per convincerlo a restare con lei per l’eternità, anche perché solitamente è il capofamiglia che viene ucciso.
In alcune versioni ha sembianze eteree, ma nella maggior parte di esse, Nale Ba indossa abiti cenciosi, ha i capelli disordinati e chiama il capofamiglia della casa prescelta, reclamandolo per se stessa.
Ciò accade con l’unico figlio maschio o il padrone di casa, che è l’unico membro della famiglia a guadagnare soldi, e quindi Nale ba porta sfortuna non solo al poverino che viene portato via, ma all’intera famiglia poiché la manda in rovina.
Nel corso di questi anni, i racconti su Nale Ba stavano iniziando a diminuire e questa storia sarebbe rimasta una leggenda, ma ci fu un rinnovato interesse, dopo che segnalazioni di casi simili si verificarono in un villaggio della Thailandia, in cui giovani uomini sani iniziarono a scomparire proprio sotto i loro tetti.
Qui, l’essere fu chiamato “il fantasma della vedova”.
La storia di Nale Ba si disperse quando Bangalore divenne un grande centro dell’industria tecnologica e di professionisti, tuttavia, alcune parti della città hanno ancora ನಾಳೆ ಬಾ scritto sui muri e, che ci crediate o no, il 1 aprile viene celebrato come il “Nale Ba Day”.
Se stasera avete voglia di “brividi”, guardate il film bollywoodiano del 2018 basato su queste storie, “Stree”.
Ma mi raccomando: non aprite la vostra porta!
Nuovi articoli