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MISTERO
“Se metti l’auto in folle e togli il freno a mano, l’auto si avvia in salita”
Gravity Hill, convenzionalmente, è una collina gravitazionale, conosciuta anche come collina magnetica, collina misteriosa, luogo misterioso, strada gravitazionale o collina antigravità.
E’ un luogo in cui la disposizione del terreno circostante produce un’illusione ottica, facendo sembrare una leggera pendenza in discesa un pendio in salita, tanto che, un’auto senza marcia sembrerà rotolare in salita contro la gravità.
Nonostante scientificamente si sappia, che la pendenza delle colline gravitazionali sia un’illusione ottica, questi luoghi sono spesso accompagnati da affermazioni, secondo cui su di esse agiscano forze soprannaturali o magnetiche.
Il fattore più importante che contribuisce all’illusione è un orizzonte quasi o completamente ostruito, senza il quale sarebbe difficile giudicare la pendenza di una superficie, poiché mancherebbe un riferimento affidabile.
Infatti ciò che normalmente si presume sia, diciamo, perpendicolare al suolo, come gli alberi, potrebbe essere inclinato, compensando il riferimento visivo.
Studi scientifici hanno rilevato, ricreando una serie di luoghi antigravità in laboratorio per vedere come avrebbero reagito le persone, come l’assenza di un orizzonte possa distorcere la prospettiva sulle colline gravitazionali.
Ricercatori delle Università di Pavia e Padova hanno scoperto che senza un vero orizzonte in vista, il cervello umano potrebbe essere ingannato da punti di riferimento comuni come alberi e segnali, facendoti pensare che stai guardando una pendenza in discesa, quando in realtà potresti semplicemente guardare una superficie piana, o addirittura in salita…
Di conseguenza, qualsiasi cosa tu poggi su quella superficie, che si tratti di una palla di gomma, di un corso d’acqua o di un’auto da 1.600 kg, sembrerà combattere il flusso di gravità e viaggiare in salita.
Però, sebbene le auto, l’acqua e la palla sembrino rotolare su per la collina, in realtà stanno rotolando in discesa, proprio come dovrebbe essere.
Per curiosità, esiste un fenomeno opposto, una strada in salita che appare pianeggiante, noto nelle corse ciclistiche come “falso piatto”.
Una cosa è certa, tutti questi siti hanno una cosa in comune: l’orizzonte è curvo oppure ostruito alla vista.
Le colline gravitazionali, luoghi misteriosi e colline spettrali, stanno spuntando a centinaia in tutto il mondo, proponendo teorie affascinanti che, rinnegando l’illusione ottica, narrano di misteriose fonti magnetiche sotto la superficie terrestre, che ti attirano lentamente verso di loro.
Oppure di un problema tecnico nello spaziotempo, che far sì che le leggi della fisica si trasformino in un caos a ritroso.
Ma ancora, che un esercito di fantasmi arrabbiati voglia trascinare la tua auto in cima alla collina, con nient’altro che le loro mani fantasma.
Diverse “colline magiche” sono sparse in tutto il Mondo e sono meta di curiosi, studiosi, occultisti, ufologi, ecc.
Un esempio famoso è la Magic Hill nelle Mourne Mountains nella contea di Down, Irlanda del Nord, vicino alla diga di Spelga.
Qui troviamo strade anche oltre il confine irlandese, dietro Ben Bulben nella di Sligo e vicino alle cascate Mahon nelle Montagne Comeragh.
Altri luoghi interessanti sono nel New Brunswick in Canada, in Grecia, Germania, Portogallo, Repubblica Ceca e Romania.
Anche in Italia, abbiamo le famose colline gravitazionali, lo sapevi?
• Statale 218, a 30 km a sud di Roma, tra Rocca di Papa ed Ariccia
• Alvito (FR)
• Pescosolido (FR)
• Rosciolo dei Marsi (AQ) vicino Avezzano, sulla strada che porta alla chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta
• Benevento, zona “Ponte Cacacipolla”, sulla strada verso Pietrelcina
• Sala Consilina (SA) in una strada chiusa
• Strada comunale Bella-Piano Luppino, in direzione Piano Luppino, nel rettilineo prima della sorgente d’acqua, Lamezia Terme (CZ)
• Caronte, Lamezia Terme (CZ)
• S.P. 39 tra Corato e Poggiorsini (BA)
• Gargano (FG), lungo la litoranea Vieste-Mattinata km. 26 S.P. 53
• Statale che collega Taranto a Martina Franca
• Barengo (NO), direzione Fara Novarese
• Roccabruna (CN)
• S.P. Paternò-Schettino (CT)
• Alghero, strada per Villanova Monteleone (SS)
• Statale 131 Carlo Felice, prima di Santu Lussurgiu (OR)
• Strada che congiunge Filattiera a Caprio (MS), Lunigiana
• Tratto tra S.P. 13 località Provalo e località Dosso, a Sant’Anna d’Alfaedo (VR)
• Uscita San Gemini Nord a Terni, direzione Cesena
• Frazione Montagnaga di Balsega di Piné (TN)
Esiste una famosa leggenda sulle colline gravitazionali, che adesso vi racconto.
“LA VERA STORIA DELLA STREGA DI GRAVITY HILL”
A Sterling, nel Connecticut, situata in un tratto tranquillo, rurale e residenziale di Main Street, esiste un luogo in cui le auto ed altri oggetti rotolano su invece che giù per la collina, o almeno sembrano farlo.
Secondo la tradizione locale, il fenomeno è causato dalla rabbia di una strega morta da tempo, di nome Margaret Henry, la quale originariamente era la proprietaria del terreno sotto la collina, ed a cui è intitolata una strada non troppo lontana da questo luogo.
La donna viveva in quel tratto di Main Street, in cui la sua rabbia e l’intollerabilità verso gli intrusi la spingeva, e la spinge ancora oggi, ad allungarsi dall’oltretomba, per piegare le regole della gravità alla sua volontà, “cacciando” le auto fuori dalla sua proprietà.
La verità è che, sebbene Margaret Henry fosse davvero una donna che viveva nella zona alla fine del 1700, non viveva vicino alla sezione di Main Street conosciuta come Gravity Hill, e sicuramente non era una strega.
Nessuno infatti l’ha mai accusata di praticare la stregoneria, e nella cronaca storica è ricordata per la sua gentilezza:
“Si prendeva cura dei poveri ed accoglieva anche bambini in affidamento”.
Sembra che questa leggenda abbia avuto origine dal racconto di un bambino, Eric, il quale narrò come il giorno dopo che un gatto nero era stato picchiato, la donna fosse troppo ferita per alzarsi dal letto, portando i residenti locali a concludere che fosse lei il gatto.
Il bambino scrisse anche di come, molti anni dopo, le persone avrebbero raccolto mirtilli vicino alle rovine della casa di Margaret e le avrebbero attribuito eventi inquietanti.
Un’altra versione narra, invece, che la strana ed inquietante sensazione fosse causata da magneti nascosti tra i cespugli.
Anche a Sterling, quindi, c’è una collina associata a leggende e miti locali, ma in realtà è anche questa solo un’illusione ottica.
L’area circostante fa sembrare che si stia andando in salita, quando in realtà si sta andando in discesa, nonostante quello che dicono i propri occhi.
Su questa strada le macchine risalgono la collina: se si mette la macchina in folle, si inizierà a “rotolare su” per la collina.
Tuttavia, bisogna davvero vederlo, o sperimentarlo, per crederci!
Misteriosi, inquietanti, intriganti, vere e proprie opere d’arte, i Teschi di cristallo sono sculture in Quarzo, molto spesso ialino (Cristallo di Rocca), trasparente o bianco latte, ritenuti dai loro cercatori manufatti mesoamericani precolombiani, solitamente attribuiti alle civiltà dei Maya e degli Aztechi.
Tuttavia, queste affermazioni sono state confutate per tutti i campioni resi disponibili, in quanto studi scientifici hanno dimostrato che i teschi esaminati sono stati fabbricati a metà del XIX secolo o successivamente, quasi certamente in Europa, in Germania, in un periodo in cui abbondava l’interesse per la cultura antica.
Inoltre, l’arte mesoamericana è vero che ha numerose rappresentazioni di teschi, ma nessuno di quelli presenti nelle collezioni dei musei proviene da scavi documentati.
Oltre al fatto che le ricerche condotte su diversi teschi di cristallo al British Museum nel 1967, 1996 e 2004 dimostrano che le linee dentellate che segnano i denti, sono state scolpite utilizzando attrezzature da gioielliere creati nel XIX secolo, e quindi rendendo insostenibili la tesi precolombiana.
Questi teschi di cristallo hanno suscitato grande interesse tra gli archeologi e gli antropologi, curiosi di conoscere la loro esistenza e il loro scopo.
Il quesito fondamentale riguarda il motivo per cui sono stati creati con così tanto lavoro e tempo, scolpendo un minerale al quarto posto per la sua durezza dopo i diamanti, e perché “proprio dei teschi”…
Negli anni ’70, alcuni membri del movimento New Age sostenevano che i teschi mostravano fenomeni paranormali, spesso descritti come tali nella narrativa, in numerose serie televisive di fantascienza, film, libri e videogames.
La tesi New Age più quotata vedeva questi oggetti come potenti reliquie dell’antica Atlantide, e si inventò persino un numero canonico: esistevano esattamente 13 teschi.
Ad Atlantide, questi 13 teschi di cristallo contenevano la coscienza, la conoscenza e la saggezza di ogni cosa, fin dall’inizio delle forme umanoidi sulla Terra, oltre 250.000 anni fa.
Queste informazioni includevano il Progetto Divino dell’umanità, l’origine, lo scopo, il destino e la conoscenza spirituale dell’umanità, che oggi può salvare il pianeta.
Dodici teschi contenevano ciascuno la coscienza di ognuna delle dodici tribù (costituite dagli emissari più puri di Atlantide, che dovevano propagare l’antica saggezza, per aiutare la Terra nella sua evoluzione e custodire le memorie), mentre il tredicesimo teschio, un Cristallo Maestro, immagazzinava la conoscenza di tutte le dodici tribù, e fu trasportato nella sesta dimensione, le Sale di Amenti, durante la caduta di Atlantide.
Questa leggenda è raccontata in diversi continenti ed in diversi modi, ma la sintesi è sempre quella delle dodici razze (o tribù) di Esseri Stellari, che visitano il pianeta centinaia di migliaia di anni prima.
Essi sono affascinati dalla bellezza di questo pianeta unico e vorrebbero aiutare i suoi abitanti primitivi nel loro sviluppo.
Il Quarzo ha la capacità di archiviare ed elaborare dati, quindi ogni Essere Stellare ha lasciato un pezzo della sua conoscenza e saggezza più profonda all’interno del suo enorme pezzo di quarzo individuale (dodici in totale), per supportare la nostra crescita.
E, per fare ciò, al Quarzo hanno dato la forma simbolica di un teschio umano, creandone un ultimo, il tredicesimo, come maestro che coordina questa operazione.
Questi tredici teschi dovrebbero essere ben nascosti ed una leggenda narra, che l’ultima volta che furono insieme fu 500 anni fa a Teotihuacan, poco prima dell’arrivo degli Spagnoli.
Dopodiché, furono poi dispersi ed accuratamente nascosti.
La Leggenda dei 13 antichi Teschi di Cristallo dice che, una volta riuniti, essi creeranno una nuova griglia di coscienza per l’umanità.
Durante il XIX secolo, il commercio dei falsi teschi precolombiani si sviluppò moltissimo e, sebbene molti musei ne avessero acquisito in precedenza, un commerciante di antichità, Eugène Boban, aprì il suo negozio a Parigi nel 1870, diventando quindi la persona maggiormente associata alle collezioni museali di teschi di cristallo di quel periodo.
La maggior parte della collezione di Boban, inclusi tre teschi di cristallo, fu venduta successivamente all’etnografo Alphonse Pinart, il quale donò la collezione al Museo del Trocadéro di Parigi, divenuto in seguito Musée de l’Homme.
Ma a cosa servivano questi teschi?
Tra le varie tesi che parlano di questi teschi, si dice che essi facevano parte di rituali e cerimonie, e si suppone contenessero la conoscenza riguardante la storia della razza umana e della civiltà.
Vediamone alcuni.
TESCHIO DI MITCHELL-HEDGES (TESCHIO DEL DESTINO): Il primo, ed il più famoso, è il teschio di Mitchell-Hedges, scoperto dall’archeologo nel 1924 durante uno scavo archeologico presso un antico sito Maya nella giungla tropicale dell’Honduras britannico, oggi Belize.
Dopo aver bruciato 33 ettari di fitta foresta, l’area rivelò un’enorme piramide di pietra, le mura di una città ed un anfiteatro, luogo chiamato “Lubaantun” o “Il luogo delle pietre cadute“.
Quando Frederick Albert Mitchell-Hedges ritornò sul posto dopo tre anni, accompagnato dalla figlia adottiva Anna, scoprì il teschio sotto le rovine di un altare.
Ma, successivamente, questa storia fu smentita, quando si seppe che Anna non aveva accompagnato suo padre in quella spedizione, ma che Mitchell-Hedges aveva acquistato il teschio ad un’asta tenuta da Sotheby’s a Londra.
Nonostante ciò, Anna rimase fedele alla sua storia fino alla sua morte all’età di 100 anni, nel 2007, continuando ad affermare di aver fatto diversi sogni riguardanti cerimonie e rituali eseguiti dagli antichi Maya, ogni volta che il teschio era nella sua camera da letto di notte.
Però rimane un mistero riguardo a questo teschio: esso fu sottoposto ad un esame scientifico presso i laboratori Hewlett Packard, ed i risultati furono piuttosto sconcertanti.
Il teschio, costituito da un blocco di quarzo trasparente delle dimensioni di un piccolo cranio umano, che misura circa 13 cm di altezza, 18 cm di lunghezza e 13 cm di larghezza, era stato scolpito con diamanti e poi levigato, ma la cosa strana era che tutta la lavorazione era stata eseguita contro “l’asse” del cristallo.
Ciò significa che, ogni volta che si taglia un pezzo di cristallo o quarzo, lo si deve fare secondo l’asse formato dalla struttura molecolare della roccia, in quanto andare contro di esso manderebbe in frantumi l’intero pezzo.
Quindi, come aveva fatto lo scultore?
Nella prima edizione della sua autobiografia “Danger My Ally”, nel 1954, F.A. Mitchell-Hedges menzionò il teschio solo brevemente, affermando: “Ha almeno 3.600 anni e, secondo la leggenda, era utilizzato dal Sommo Sacerdote dei Maya, quando compiva riti esoterici. Quando voleva la morte di qualcuno con l’aiuto del teschio, la morte arrivava invariabilmente“.
Tutte le edizioni successive non comprendono assolutamente la menzione del teschio.
Nel 1970, Anna affermò anche che le era stato detto dai pochi Maya rimasti, che “il teschio era usato dal sommo sacerdote per volere la morte“, ecco perché il manufatto viene talvolta chiamato “Il teschio del destino”.
TESCHIO DI PARIGI: E’ il più grande dei tre teschi venduti da Eugène Boban ad Alphonse Pinart, alto circa 10 cm ed ha un foro praticato verticalmente al centro.
Fa parte di una collezione conservata al Musée du Quai Branly della capitale francese e, nel 2007-2008, è stato sottoposto a test scientifici per tre mesi, con la conclusione che si trattava di “certamente non precolombiano, presenta tracce di lucidatura e abrasione da parte di strumenti moderni”.
Nel 2009 i ricercatori del Center And Search Restoration Musées De France, hanno pubblicato i risultati di ulteriori indagini per stabilire quando era stato scolpito il teschio di Parigi.
Le analisi con microscopio elettronico a scansione hanno dimostrato che il teschio di Parigi era stato scolpito più tardi di un manufatto di campione di quarzo di riferimento, noto per essere stato tagliato nel 1740, pertanto la creazione è avvenuta tra il XVIII ed il XIX secolo.
TESCHIO DEL BRITISH MUSEUM: Questo teschio di cristallo apparve per la prima volta nel 1881, nel negozio dell’antiquario parigino Eugène Boban, ma all’epoca nel suo catalogo non era menzionato.
Sembra che, dapprima, tentò di venderlo al Museo nazionale del Messico come manufatto azteco, senza successo, e poi lo vendette a New York, dove si era trasferito.
In seguito, il teschio fu venduto all’asta e acquistato da Tiffany & Co, che, a sua volta, lo rivendette al British Museum, nel 1897.
Questo teschio è molto simile al teschio di Mitchell-Hedges, sebbene sia meno dettagliato e non abbia la mascella inferiore mobile.
Il British Museum cataloga il teschio di origine “probabilmente europea, XIX secolo d.C.”, precisando che “non è un autentico manufatto precolombiano”, essendo stato sicuramente realizzato con strumenti moderni.
TESCHIO DEL TEXAS: Soprannominato Max, il teschio del Texas, era in possesso di un guaritore tibetano, Norbu Chen, che lo diede a Carl e Jo Parks per pagare un debito.
Fu solo dopo aver scoperto che il teschio era di interesse archeologico mondiale, lo tirò fuori dal suo armadio e lo fece esaminare da un esperto.
Così si scoprì che era antico.
TESCHIO DI MAASLAND: Un altro appassionato di teschi di cristallo, Joke Van Dieten Maasland, ha un teschio di cristallo di Quarzo fumé, scoperto nel 1906 durante lo scavo di un tempio Maya in Guatemala.
Joke afferma in un suo libro, “Messaggeri dell’antica saggezza”, che il teschio abbia poteri curativi ed abbia aiutato a guarire un tumore al cervello.
Il teschio è soprannominato E.T., perché ha una testa appuntita e una mascella esagerata con un morso eccessivo, che la fa sembrare una testa a forma del famoso alieno.
TESCHIO DELLO SMITHSONIAN: Il “Teschio dello Smithsonian”, numero di catalogo A562841-0 nelle collezioni del Dipartimento di Antropologia, Museo Nazionale di Storia Naturale, è stato spedito per posta allo Smithsonian Institution in Virginia, anonimamente nel 1992.
Il suo donatore ha affermato che fosse un oggetto azteco, appartenente presumibilmente alla collezione di Porfirio Diaz, generale e politico messicano.
È il più grande dei teschi, pesa 14 kg ed è alto 38 cm, ed è stato scolpito utilizzando il carborundum (carburo di silicio), un abrasivo moderno.
Pertanto, è esposto come un falso moderno al Museo Nazionale di Storia Naturale.
Nonostante alcune affermazioni presentate in un vasto assortimento di modalità, leggende di Teschi di Cristallo con poteri mistici non figurano nelle autentiche mitologie e resoconti spirituali mesoamericani o di altri nativi americani, così come di altre tradizioni esoteriche.
A tanti, però, piace pensare che i teschi simboleggino messaggi paranormali, previsioni sul destino dell’umanità, poteri curativi.
Infatti, anche se non esistono prove scientifiche a sostegno dell’idea che i teschi di cristallo abbiano poteri curativi, molte persone credono nella loro capacità di promuovere il benessere fisico ed emotivo.
Quindi, alcuni professionisti della medicina alternativa utilizzano i teschi di cristallo, ovviamente nuovi, nelle loro pratiche di guarigione, sostenendo che possano aiutare a bilanciare l’energia del corpo e promuovere un senso di calma e relax.
Che tu creda o meno nei poteri curativi dei teschi di cristallo, non si può negare che siano oggetti meravigliosi, che possono portare un senso di pace e serenità in qualsiasi spazio.
I teschi di cristallo sono disponibili in molte forme, dimensioni e tipi di cristalli diversi, anche se si preferisce spesso Quarzo ialino, Ametista ed Ossidiana.
Ogni tipo di cristallo ha proprietà e poteri curativi unici, per esempio, l’Ametista favorisce la calma ed il rilassamento, mentre l’Ossidiana fornisce protezione dall’energia negativa.
Che tu sia un collezionista o semplicemente qualcuno che apprezza la bellezza dei teschi di cristallo, non si può negare che siano oggetti affascinanti con una ricca storia e molto mistero che li circonda.
Ognuno di loro possiede il proprio simbolismo ed i propri intricati dettagli: dalla forma degli occhi alla posizione dei denti, si pensa che ogni teschio abbia significato ed uso.
Ad esempio, si dice che i teschi con le braccia incrociate rappresentino l’unione degli opposti, mentre quelli con le mascelle allungate significhino una connessione con il mondo sotterraneo Maya.
Le teorie e le interpretazioni non mancano quando si parla di questi oggetti enigmatici, ed in fondo ammantano di mistero, eccitazione e trepidazione i nostri pensieri, portandoci momentaneamente in un mondo in cui possiamo ancora sognare un futuro migliore, grazie a ciò che Atlantide vuole tramandarci.
Sognare non costa nulla…
Nei miti di molte culture si parla dell’Origine della Morte, una caratteristica generale della vita umana, e quindi le storie sulla sua genesi sembrano essere universali in tutte le civiltà.
Naturalmente però, i miti e le teorie cambiano da cultura a cultura, in quanto si fondano sulle diverse caratteristiche del mondo naturale o sociale.
I miti sono narrati e tramandati nelle storie, solitamente racconti morali sulla fedeltà, la fiducia o l’equilibrio etico e naturale degli elementi del mondo.
L’idea della Morte come conseguenza delle azioni umane non è però universale.
La sua immagine come Essere a sé stante è comune nel folklore moderno ed antico, in cui la Morte è spesso un essere senziente, forse un animale, forse anche un mostro, a volte è mascherata, a volte entra nel mondo per rubare e mettere a tacere la vita delle persone.
Durante il Medioevo infatti, in Europa la Morte era ampiamente vista come un Essere che veniva di notte a portare via i bambini, una figura oscura, incappucciata e macabra, una triste mietitrice, con una sete insaziabile per la vita dei bambini.
Infatti, spesso i piccoli venivano vestiti da adulti il prima possibile, per indurre la Morte a cercare la preda altrove.
La Morte come essere umano è caratteristica soprattutto dei racconti popolari tradizionali, che drammatizzano l’angoscia umana riguardo alla mortalità.
Al contrario, nel regno delle idee religiose, la morte è considerata uno stato astratto dell’Essere, non identificabile come persona.
Nel mondo del mito e della leggenda, questo stato sembra scontrarsi con l’esperienza umana della vita e, di conseguenza della natura degli esseri umani come Esseri celesti, è la vita sulla Terra che a volte viene vista come una sorta di morte.
Quindi, in conclusione, tutto sta nel come interpretiamo noi la Morte, se come un Essere o come una condizione ineluttabile.
Nella maggior parte delle culture tradizionali, l’avvento della morte viene presentato come uno sfortunato incidente avvenuto all’inizio. La Morte era sconosciuta ai primi uomini, i mitici antenati, ed è la conseguenza di qualcosa accaduto nei tempi primordiali.
Apprendendo come è apparsa per la prima volta la Morte nel mondo, si arriva a comprendere anche la causa della propria mortalità: si muore perché all’inizio è avvenuta questa cosa.
Qualunque siano i dettagli di questo mito sulla prima Morte, esso offre agli uomini una spiegazione della loro mortalità.
Altri miti spiegano l’avvento della Morte come conseguenza della trasgressione da parte dell’uomo di un comandamento divino; altri ancora collegano la mortalità ad un atto crudele ed arbitrario di qualche essere demoniaco.
Per esempio, tra le tribù australiane e nelle mitologie dell’Asia centrale, della Siberia e del Nord America, la mortalità è introdotta nel mondo da un avversario del Creatore.
Nelle società arcaiche, invece, sembra che la Morte sia un incidente assurdo, forse come conseguenza di una scelta stupida fatta dai primi antenati.
Come in Africa, dove si narra che Dio mandò agli antenati il camaleonte, con il messaggio che sarebbero stati immortali, insieme con la lucertola con il messaggio che sarebbero morti.
Ma il camaleonte si fermò lungo la strada e la lucertola arrivò per prima: dopo aver consegnato il suo messaggio, la Morte entrò nel Mondo.
Naturalmente la Morte non è mai considerata una benedizione, anzi in ogni civiltà c’è sempre stata la speranza o l’idea della perennità dell’uomo, cioè la convinzione che, pur non essendo più immortale, potrebbe vivere indefinitamente, se solo qualcosa di ostile non ponesse fine alla sua vita, come se una morte naturale fosse semplicemente inconcepibile.
Spesso addirittura si pensa che un uomo muoia perché cade vittima della magia, dei fantasmi o di altri aggressori soprannaturali.
Un altro concetto di Morte è quello dato da alcune culture arcaiche, inteso come un complemento necessario della vita, così come racconta il mito malgascio “La Luna e il Banano”:
« Dio ha voluto che il primo uomo e la prima donna potessero scegliere il tipo di morte che avrebbero avuto.
Quindi, un giorno chiese loro: “Preferireste morire come la Luna o come il Banano?”
La coppia non sapeva cosa significasse morire come la Luna o il Banano, quindi Dio spiegò: “Ogni mese la Luna muore e svanisce, poi rinasce poco alla volta per tornare a vivere. Invece, quando il Banano muore, non ritorna, ma lascia dietro di sé germogli verdi affinché la sua progenie possa continuare al suo posto. Potreste avere dei figli che prenderanno il vostro posto, oppure potreste rinascere ogni mese come la Luna. Scegliete!”
La coppia considerò che, se avessero scelto di non avere figli, sarebbero sempre stati riportati in vita come la Luna, però non avrebbero avuto nessuno che li aiutasse nel loro lavoro, nessuno a cui insegnare, da amare o per cui lottare. Pertanto, dissero a Dio che preferivano essere fecondi come il Banano e furono esauditi, ebbero molti figli, una vita felice e poi morirono.
Da allora c’è stato molto amore e nuova vita su questa Terra, che si è riempita di generazione in generazione ma, da quando la prima coppia ha scelto, la vita di ogni individuo è breve e, alla fine, il corpo avvizzisce come un Banano.»
Un’altra interpretazione sull’Origine della Morte è data anche da uno dei primi miti greci, quello che narra di Pandora, la fanciulla a cui erano stati conferiti tanti doni in un vaso chiuso, come la bellezza, il coraggio, le attitudini, ecc.
Ella, non riuscendo a resistere alla curiosità, tolse il coperchio e, a quel punto, uscirono fuori anche tutti i mali del Mondo, che si sparsero sulla Terra, tra cui le malattie e la Morte.
Vi lascio con una storia, “Comare Morte”, che fa parte dei racconti popolari tedeschi dei fratelli Grimm.
Essa viene raccontata in molto forme e varianti, a seconda del Paese in cui ci si trova: “Godfather Death” (USA-UK), “L’angelo prendi-anima” (Armenia), ecc.
Essa è una dei numerosi racconti in cui la Morte è personificata: a volte come una figura spaventosa, a volte come una figura compassionevole, talvolta come un uomo o una donna con un lavoro da svolgere.
«C’era una volta un povero sarto che riusciva a malapena a sfamare i suoi dodici figli.
Quando nacque il tredicesimo, l’uomo sconvolto corse sulla strada vicina, determinato a trovare qualcuno che facesse da padrino o madrina al bambino, in quanto non conosceva altro modo in cui avrebbe potuto provvedere al figlio appena nato.
Il primo a passare fu Dio, ma il povero sarto lo respinse: “Dio dà ai ricchi e prende dai poveri. Aspetterò che arrivi un altro.”
Il secondo a passare fu il Diavolo, ma il povero sarto respinse anche lui: “Mente, imbroglia e porta fuori strada gli uomini buoni. Aspetterò un altro.”
La terza a passare fu la Morte, e il povero sarto la esaminò attentamente: “La Morte tratta tutti gli uomini allo stesso modo, ricchi o poveri. È a lei che lo chiederò.”
Naturalmente, alla Morte non era mai stato chiesto prima di fare da comare, ma acconsentì subito: “A tuo figlio non mancherà nulla”, disse, “perché io sono davvero un’amica potente”.
Gli anni passarono e la Morte mantenne la parola data: al ragazzo ed alla sua famiglia non mancava nulla.
Quando finalmente il ragazzo raggiunse la maggiore età, la Morte apparve davanti a lui: “È tempo di stabilirti nel mondo. Stai per diventare un grande medico. Prendi questa erba magica, cura ogni malattia di questa Terra. Cercami quando sarai chiamato al letto di un paziente. Se mi vedi alla sua testa, puoi dargli una tintura di erba e il tuo paziente starà bene. Ma se mi vedi ai piedi, saprai che è il suo momento di morire. La tua diagnosi sarà sempre giusta e tu sarai famoso in tutto il Mondo.”
E così fu: il giovane divenne il medico più famoso del suo tempo, e la sua fama si diffuse in lungo e in largo, fino a giungere alle orecchie del re.
Il sovrano, infatti, giaceva malato nel suo letto d’oro e chiamò a sé il figlio del sarto che, quando finalmente arrivò nella camera da letto riccamente arredata, vide che il re era gravemente malato e che la Morte era ai suoi piedi.
Ora, questo re era molto amato ed il giovane desiderava moltissimo curarlo, per cui ordinò rapidamente agli assistenti di corte di girare il letto dalla parte opposta, e poi riportò in salute il malato con una tintura dell’erba magica.
Ma la Morte non era contenta, il giovane le aveva disobbedito.
Agitò il suo lungo dito ossuto verso il suo figlioccio e disse: “Non devi imbrogliarmi mai più. Se lo fai, sarà peggio per te”.
Il giovane prese a cuore questo avvertimento e non tradì più la sua madrina, finché la figlia del re non si ammalò e lui fu richiamato a palazzo.
La fanciulla era l’unica figlia del buon re, il quale aveva un disperato bisogno di vederla stare bene: “Salvale la vita”, disse il sovrano, “ed io ti concederò la sua mano per il matrimonio”.
Il dottore si recò nella camera da letto della bella principessa, dove la Morte lo aspettava, ferma ai piedi del letto della fanciulla, pronta a portarla via: “Non contraddirmi più”, lo avvertì la sua madrina, ma il dottore era già mezzo innamorato.
Quindi, l’uomo ordinò anche questa volta, che il letto della principessa fosse girato e le diede la tintura d’erbe.
La fanciulla fu guarita immediatamente, ma la Morte allungò una mano fredda e bianca e la strinse sul braccio del suo figlioccio, dicendo: “Allora, verrai tu con me!”
Portò il giovane in una grotta, le cui nicchie sulle pareti erano ricoperte da milioni di candele: “Qui”, disse, “ci sono candele che bruciano per ogni vita sulla Terra. Ogni volta che una candela si consuma e si spegne, una vita finisce. Questa è la tua”.
Così dicendo, la Morte indicò una candela che si era ridotta a una pozza di cera. “Per favore,” implorò il suo figlioccio, “per molti anni sono stato il tuo fedele servitore. Per favore, Comare Morte, non vuoi accendermi una nuova candela?” La Morte lo guardò senza rimorso.
La candela crepitò e si spense.
Il giovane medico cadde a terra, morto…»
Fate attenzione…
La notte a cavallo tra il 31 ottobre ed il 1 novembre, per tanti è sempre particolare, fatta un po’ di sano timore e di aspettative trepidanti, che non fanno male a nessuno.
Infatti, quando lo spavento è provocato da una situazione ludica, come può essere questa notte, che alcuni festeggiano con Halloween, allora il brivido serve a risvegliare il corpo, provocando una tempesta chimica di paura, seguita dal sollievo.
Si avverte un’atmosfera ovattata, che a volte risveglia le nostre piccole fobie o vecchi infantili ricordi.
Per esempio, il suono di qualcuno che bussa alla porta può essere una delle cose più terrificanti, quando non aspetti nessuno ed è notte fonda.
Nelle leggende, aprire le porte agli estranei è l’errore più grande che si possa commettere, poiché non si ha alcun controllo una volta che la porta è aperta.
Ma cosa succederebbe, se la voce dall’altra parte suonasse familiare, come quella di un amico, di un parente o della tua stessa madre?
La storia di Nale Ba, o Naale Baa (ನಾಳೆ ಬಾ), è una leggenda popolare raccontata dagli anni’90, principalmente in Karnataka, nella regione sud-occidentale dell’India, per l’esattezza nel villaggio Maleshawaram di Bangalore.
In questo villaggio popolare vivevano centinaia di persone con le loro famiglie, in maniera tranquilla, fino a quando all’improvviso è successo qualcosa che nessuno avrebbe immaginato.
Durante una notte buia, i membri di una famiglia, che viveva in una piccola casa e stava per andare letto, all’improvviso sentirono una voce dall’esterno.
Riconoscendo che si trattava di uno dei loro parenti, un membro della famiglia si precipitò verso la porta per aprirla e lasciarlo entrare.
Aprì lentamente la porta, ma vide che non era un suo parente, bensì una donna brutta che aveva bussato ed utilizzava la voce di un suo familiare.
Prima che potesse chiedere qualcosa a quella signora, lei lo attaccò e lo fece morire immediatamente.
Il giorno successivo, la notizia di questo terribile incidente si diffuse nelle aree vicine, e la polizia arrivò lì per denunciare il caso ed avviare le indagini.
Inizialmente, gli abitanti del villaggio ed i poliziotti non presero la cosa molto sul serio, pensavano che si trattasse semplicemente di un procedimento penale, quindi, la polizia iniziò a cercare la persona che aveva ucciso l’uomo quella notte, come si fa di solito in tutti questi tipi di casi.
Ma la notte successiva, un episodio simile si ripeté, un’altra persona morì con le stesse modalità: anche lui aveva sentito da fuori la voce del suo parente ed aveva aperto la porta, trovandosi di fronte una donna brutta.
Ella aveva attaccato il suo corpo con le unghie, portandolo alla morte.
Quindi, il giorno successivo, nuovamente la polizia andò ad indagare sulla questione ed anche questa volta, pensò che si trattasse di un “normale” omicidio.
Gli abitanti del villaggio erano confusi ed anche profondamente addolorati per i tragici incidenti che erano accaduti quelle notti.
Mentre il sole tramontava ad occidente e la coltre di oscurità si avvicinava al villaggio fino a coprirne il cielo, gli abitanti residenti iniziarono a pregare per la sicurezza ed il benessere dei loro cari, prendendo consapevolezza e timore che le morti potessero continuare.
Infatti accadde ancora: c’era “qualcuno o qualcosa” che vagava per la città e bussava alle porte delle abitazioni.
Se si apriva la porta o si rispondeva, a quel punto la propria morte era confermata, sarebbe morto vomitando sangue.
Per questo motivo, le persone iniziarono a scrivere “Nale Ba” (o Naale Baa, ನಾಳೆ ಬಾ) all’ingresso della casa, che significa “Vieni domani“, pensando che, una volta letto, l’Essere sarebbe andato via, tornando il giorno dopo, ed il ciclo si ripeteva all’infinito.
Quindi, gli abitanti dei villaggi lo scrivevano sui muri per proteggersi, ed ancora alcuni ritengono che spiriti maligni o streghe vaghino di notte, chiamando i nomi delle persone di una data famiglia, oppure utilizzando una voce conosciuta, dando così il nome sia alla leggenda che alla creatura che li perseguitava.
Alcuni dicono che lo spirito sia un fantasma nuziale, che vaga per la città alla ricerca di suo marito, per convincerlo a restare con lei per l’eternità, anche perché solitamente è il capofamiglia che viene ucciso.
In alcune versioni ha sembianze eteree, ma nella maggior parte di esse, Nale Ba indossa abiti cenciosi, ha i capelli disordinati e chiama il capofamiglia della casa prescelta, reclamandolo per se stessa.
Ciò accade con l’unico figlio maschio o il padrone di casa, che è l’unico membro della famiglia a guadagnare soldi, e quindi Nale ba porta sfortuna non solo al poverino che viene portato via, ma all’intera famiglia poiché la manda in rovina.
Nel corso di questi anni, i racconti su Nale Ba stavano iniziando a diminuire e questa storia sarebbe rimasta una leggenda, ma ci fu un rinnovato interesse, dopo che segnalazioni di casi simili si verificarono in un villaggio della Thailandia, in cui giovani uomini sani iniziarono a scomparire proprio sotto i loro tetti.
Qui, l’essere fu chiamato “il fantasma della vedova”.
La storia di Nale Ba si disperse quando Bangalore divenne un grande centro dell’industria tecnologica e di professionisti, tuttavia, alcune parti della città hanno ancora ನಾಳೆ ಬಾ scritto sui muri e, che ci crediate o no, il 1 aprile viene celebrato come il “Nale Ba Day”.
Se stasera avete voglia di “brividi”, guardate il film bollywoodiano del 2018 basato su queste storie, “Stree”.
Ma mi raccomando: non aprite la vostra porta!
Giorni fa ho avuto modo di vedere “The third day” (“Il terzo giorno”), una bellissima ed inquietante mini serie TV con Jude Law, ambientata ad Osyth’s island, un luogo mistico e visionario, ma assolutamente reale.
L’Isola di Osea, anticamente Osey, oggi di proprietà del produttore musicale Nigel Frieda che ha lavorato con band come The Rolling Stones e Roxy Music, è una terra disabitata situata nellꞌestuario del fiume Blackwater, in Essex (Inghilterra).
Con una storia che risale almeno al Neolitico e l’influenza sia dei Romani che dei Vichinghi, l’isola di Osea è sempre stata riconosciuta per il suo utilizzo come area coltivabile, diventando un sito produttivo nonostante fosse tagliata fuori dalla terraferma.
Essendo una terra ricca di sostanze nutritive, quando Guglielmo il Conquistatore arrivò sulle sue coste, l’isola di Osea (all’epoca chiamata Uvesia) fu subito registrata nel libro Domesday, un manoscritto da lui voluto, che raccoglieva i risultati di un grande censimento completato nel 1086, riguardante la maggior parte dell’Inghilterra e parte del Galles.
Con una superficie di circa di 1,5 km2, l’Isola di Osea è collegata alla terraferma nella riva nord del fiume, da una strada in rilievo di epoca romana, che viene sommersa dallꞌacqua alta con le maree.
Per questo motivo, la strada si può percorrere solamente in alcune fasce orarie del giorno, quando la marea è bassa e le permette di emergere dalle profondità acquatiche, per un periodo di 4 ore, durante il quale le auto possono transitare.
Durante l’alta marea, invece, è disponibile un servizio di taxi fluviale dalla terraferma, della durata di circa 10 minuti.
Aperta al pubblico per la prima volta in quasi 100 anni nel 2011, sull’Isola Osea i cellulari non prendono, ci sono tracce dei Celti e, in passato, è stata sede di un centro di recupero per tossicodipendenti ed alcolizzati, oltre che sede di una base militare top-secret durante la prima Guerra Mondiale e di un centro di disintossicazione temporaneo.
Anche se la storia raccontata in The third day, che vi consiglio di vedere, non è reale, l’Isola di Osea ha ugualmente un fascino misterioso, con un passato affascinante e colorato che riecheggia da sempre.
Nel 1903, Frederick Nicholas Charrington acquistò l’isola di Osea, con lo scopo di trasformarla in un centro di riabilitazione.
All’inizio del XVIII secolo, la sua famiglia aveva creato con successo un’attività di produzione di birra, la Charrington Brewery.
Ma nella vita, Frederick aveva una vocazione diversa, per cui rinunciò alla fortuna della sua famiglia, di circa 1 milione di sterline, e si dedicò ad aiutare i bisognosi, soprattutto quelli in difficoltà finanziarie, in relazioni violente o in cerca di cure per la dipendenza.
E’ interessante il suo racconto, relativo a come decise di spogliarsi dei suoi beni, per dedicarsi ai sofferenti.
Egli narra che, a circa vent’anni, mentre passeggiava per Whitechapel, vide una donna mal vestita con i suoi figli, che implorava il marito di allontanarsi da un pub e di darle i soldi per il cibo.
Il marito furioso uscì e la scaraventò nel canale di scolo, e Charrington andò in suo aiuto, ma anch’egli fu sbattuto a terra.
Alzando lo sguardo, vide il suo nome sull’insegna sopra il pub, dedicato appunto a Charrington Brewery (Birrificio Charrington).
In seguito Frederick disse: “Quando vidi quel segno fui colpito proprio come lo era stato Paolo sulla via di Damasco”.
In pratica, era proprio la fonte della ricchezza della sua famiglia a produrre indicibili sofferenze umane davanti ai suoi occhi.
“Allora promisi a Dio che non mi sarebbe arrivato nemmeno un centesimo di quel denaro”.
Così, abbandonò l’azienda di famiglia, aprì una scuola e divenne un ardente lavoratore per il Movimento della Temperanza, un movimento sociale che promuoveva la completa astinenza dal consumo di bevande alcoliche.
Poi aprì altri centri cristiani di riabilitazione, fino ad acquistare l’Isola di Osea, in cui fondò il Causeway Retreat, che offriva strutture di riabilitazione gratuite per la dipendenza da alcol ed oppioidi.
I pazienti avrebbero lavorato la terra sull’isola in cambio di cure, creando una sorta di sobria oasi.
In seguito, l’Isola di Osea divenne di proprietà dell’Università di Cambridge e dichiarata sito di particolare interesse scientifico per la sua ecologia unica, piante rare, uccelli e vita marina, prima di tornare di proprietà privata negli anni ’50.
Negli anni 2000, il centro di cura divenne noto come una struttura di riabilitazione per celebrità, frequentato tra gli altri da Amy Winehouse, dalla star dei Take That Mark Owen, dall’attore Jonathan Rhys Meyers e da membri di alcune delle famiglie più ricche della Gran Bretagna, finché non fu chiuso nel 2010, per aver accettato e curato pazienti senza le licenze e le registrazioni adeguate e per dei suicidi e morti sospette.
Acquistata da Nigel Frieda, fu trasformata in una destinazione turistica alla moda.
Per esempio, in quest’isola di circa 380 acri, Daniel Radcliffe ha recitato nel film “Woman in Black” del 2012; è stata utilizzata come location per un episodio di Superstar, la versione britannica di American Idol; ospita anche uno studio di registrazione all’avanguardia, in cui artisti famosi incidono album in totale privacy.
E, nel 2019, l’isola ha accolto il cast e la troupe di “Il Terzo Giorno”, di cui ho scritto all’inizio, e di cui evito di spoilerare la trama: guardate questa inquietante mini serie…
Oggi l’Isola di Osea è aperta al pubblico e potrebbe essere una meta da non perdere anche se, dopo aver visto “The third day”, saprete bene che il soggiorno sarà a vostro totale rischio e pericolo… 😅
Anche in una limpida e soleggiata giornata di sole, si ha la sensazione che sull’Isola di Osea siano accadute cose “particolari”, grazie alla sua atmosfera surreale ed isolata.
Non per niente, i siti web turistici che la riguardano citano: Isola di Osea, la terra che è “qualunque cosa tu voglia che sia”…
Fate attenzione!
Chissà quanti di voi avranno letto il romanzo storico “La sposa di Lammermoor” di Sir Walter Scott, o ascoltato la famosa “Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizetti, che trae ispirazione dal libro.
Ma quanti di voi sanno, che queste opere romanzano la vita reale di una donna?
Questa è la sua storia.
Nella metà del ‘600, Janet Dalrymple, figlia del primo statista Sir James Dalrymple (in seguito divenuto Lord Stair) e dell’altezzosa Margaret Ross, da sempre amava, e col quale si era fidanzata all’insaputa dei suoi genitori, il nobile decaduto Lord Archibald Rutherford, il quale non era gradito ai suoi cari, sia per i suoi principi politici, sia per la sua mancanza di fortuna.
La giovane coppia fece un patto giurando solennemente, che nulla avrebbe potuto dividerli ed addirittura Janet si augurò terribili mali, se avesse infranto la sua promessa.
Poco dopo si presentò un corteggiatore, David Dumbar, figlio ed erede di David Dunbar di Baldoon, nel Wigtonshire e, ironicamente, nipote di Lord Archibald Rutherford, che colpì molto Sir Dalrymple ed ancor più la sua signora (in quanto molto ricco), e si propose a Janet.
La giovane donna rifiutò la proposta e, pressata nella richiesta della motivazione, confessò il suo fidanzamento segreto.
Lady Dalrymple, una donna abituata alla sottomissione universale (perché anche suo marito non osava contraddirla), trattò questa obiezione come una sciocchezza, ed insistette affinché sua figlia acconsentisse a sposare il nuovo corteggiatore.
Lord Archibald, un uomo di spirito molto elevato, inviò una lettera a Lady Dalrymple, perorando il fidanzamento con sua figlia e del giuramento che, se la fanciulla avesse infranto, le avrebbe causato vere difficoltà.
Lady Dalrymple gli rispose, dicendo che sua figlia era troppo sensibile ed ingenua, e che aveva sbagliato assecondando il comportamento indebito di Lord Archibald, e che il contratto-giuramento, non avallato dai suoi genitori, veniva ritrattato in quanto illegale, e che ora Janet si rifiutava di adempiere al suo fidanzamento con lui.
Il giovane rifiutò di ricevere una tale risposta da chiunque, tranne che dalla sua amata in persona e, poiché aveva un carattere molto determinato, in qualche modo obbligò la madre ad acconsentire a un colloquio tra lui e sua figlia.
Ma l’incontro non servì a nulla e Janet si rassegnò all’idea di vivere la sua vita insieme ad un uomo che non amava.
Il 24 agosto 1669, quindi, sposò Sir David Dunbar, con un matrimonio in pompa magna, nella Chiesa della Antica Luce, vicino alla vecchia casa Dalrymple nel castello di Carsecleugh.
Nonostante fosse una calda giornata estiva, i suoi fratelli ricordarono entrambi che le mani di Janet erano “fredde come il ghiaccio“, mentre camminava lungo il corridoio.
“Non voglio stare con lui“, disse loro Janet.
Seguì un pranzo luculliano ed infine gli sposi si ritirano per la prima notte di nozze.
Che fu anche l’ultima.
Ad un certo punto, si udirono urla disumane giungere dalle stanze interne del castello, facendo accorrere gli invitati ancora intenti a festeggiare.
Sfondando la porta, i genitori di Janet trovarono Dunbar che si stringeva la gola e giaceva sul pavimento, il sangue che colava abbondantemente da una ferita, mentre stava affogando letteralmente in un mare di sangue.
Janet fu trovata rannicchiata in un angolo della stanza, con indosso ancora l’abito nuziale sporco di sangue, mentre stringeva con tutte le sue forze il coltello intriso di sangue del marito.
La donna ripeteva solo frasi sconnesse, come se stesse pregando in una lingua sconosciuta, ed i presenti riuscirono solo a cogliere la frase:
“Prendi la tua cara sposa”!
Non è chiaro chi abbia accoltellato Dunbar quella notte, e il mistero rimase in sospeso, anche perché poco dopo l’uomo si riprese.
Con la mancanza di scienza medica all’epoca, le infezioni da coltellate erano comuni e spesso provocavano la morte, ma Dunbar in qualche modo sopravvisse.
Inoltre, Janet fu ritrovata morta dopo che il marito si era ripreso e, sebbene i cittadini sospettosi si siano presto resi conto della tragica storia, Dunbar non è mai stato processato per omicidio quindi, in effetti, nessuno sa esattamente come la donna sia morta.
I folcloristi hanno tre versioni ufficiali di ciò che accadde quella notte, tesi che si contrappongono e di cui non vi è certezza.
1) Janet, rendendosi conto di dover vivere con un uomo che non amava, pugnalò il suo sposo nella camera nuziale, e morì subito dopo per un attacco isterico.
2) Archibald, folle di gelosia, si era nascosto nella camera degli sposi, ed accoltellò lo sposo, fuggendo attraverso la finestra nel giardino.
3) David Dunbar, rifiutato da Janet, la pugnalò e la mattina dopo era un pazzo delirante.
La tradizione locale aggiunge un’altra versione, narrando che fu il Diavolo che, approfittando del dolore di Janet, le disse che avrebbe ucciso David con un coltello, per liberarla.
Janet accettò ma poi, resasi conto di ciò che stava per accadere, afferrò il coltello per scacciare via il demonio, il quale si scansò e la donna nell’impeto accoltellò il marito, cosa che la fece diventare pazza.
Come dicevo all’inizio, Sir Walter Scott descrisse la sua versione degli eventi nel suo libro, “La sposa di Lammermoor”:
“La porta della camera nuziale fu sfondata, dopo che si erano udite urla orribili dall’interno e lo sposo fu trovato sdraiato oltre la soglia, terribilmente ferito e sanguinante.
La sposa era accovacciata in un angolo del camino, la sua camicia da notte bianca macchiata di sangue, sorrideva e mormorava in una maniera folle.”
Il racconto fu riutilizzato di nuovo nell’opera di Gaetano Donizetti, “Lucia di Lammermoor”.
Si narra, avallando che Janet avesse pugnalato il marito, che la donna non si riprese mai e morì due settimane dopo, il 12 settembre 1669.
David Dunbar, invece, si riprese dalle ferite riportate e non parlò mai degli eventi della terribile notte.
Invece Archibald, il vero amore di Janet, non si sposò mai e morì nel 1685.
I percorsi delle due nobili famiglie che erano state così ansiose di unirsi, in seguito presero strade molto diverse.
I Dalrymple divennero meglio conosciuti dal titolo che ricevettero, poco dopo: Insignito dei titoli “Earls of Stair” (Conte di Stair, un titolo simile al Pari di Scozia) e “Master of Stair“, John Dairymple alla fine divenne Segretario di Stato per la Scozia e fu responsabile del “Massacro di Glencoe”.
I Dunbar di Baldoon rivolsero le loro energie al miglioramento dell’agricoltura, cosa che cominciò ad avere effetto nell’ultimo quarto del XVII secolo.
A suo modo, Sir David Dunbar è stato un pioniere della terra recintata per il pascolo e l’importazione di bestiame, anche se illegale, dall’Irlanda.
Inoltre, in effetti, egli si riprese abbastanza dalla sua prima infelice avventura matrimoniale e, col tempo, sposò una figlia del settimo conte di Eglinton, morendo dopo essere caduto da cavallo, nel 1682.
Qualunque cosa accadde quella fatidica notte nel XVII secolo, lasciò una grande impressione sul Castello di Baldoon, appartenuto alla famiglia Danbur fino al XVIII secolo.
Oggi, nella cittadina fluviale di Bladnoch, in Scozia, l’unica strada della città porta i visitatori vicino alle rovine ricoperte di edera del Castello di Baldoon.
Ma non sono solo le meravigliose rovine ad attrarre i turisti al castello.
In diverse occasioni, i visitatori hanno affermato di aver visto il fantasma di Janet Dalrymple Dunbar vagare per le rovine del castello, di solito nelle calde notti estive, ma principalmente nell’anniversario della sua morte, il 12 settembre.
Ella indossa ancora i suoi indumenti da notte macchiati di sangue, vaga tristemente a testa bassa, come se fosse piena di profondo rimpianto.
È il peso della colpa o i ricordi di un amore non corrisposto, che ancora perseguitano Janet e solo il suo fantasma lo sa per certo, anche se non ha intenzione di dirlo.
Il castello di Baldoon è aperto al pubblico, è in condizioni rovinose e bisogna prestare attenzione durante l’esplorazione del sito, ma non è quello il pericolo.
Fate attenzione…
N.d.A.: Sotto il nome di Baldoon, esiste un’altro mistero accaduto circa 200 anni dopo di questo in Canada, in un insediamento che era stato così battezzato da Lord Thomas Douglas Selkirk, conte scozzese del 1800, il quale aveva immaginato un luogo che rispecchiasse in ogni modo la sua terra natale, le Highlands scozzesi.
A questo punto, credo che il nome Baldoon abbia un fascino molto misterioso, sarà la tappa di un mio prossimo viaggio..
“Sei una strega, o sei una fata
o sei la moglie di Michael Cleary?”
-filastrocca irlandese-
Se Alice Kyteler è stata la prima Strega d’Irlanda, l’ultima, probabilmente è stata Bridget Cleary, ed ecco la sua storia.
Bridget Boland nacque nel 1869 a Ballyvadlea, in Irlanda e, nell’agosto 1887 sposò Michael Cleary, nella chiesa cattolica romana in pietra di Drangan.
La coppia si era incontrata all’inizio di quel mese a Clonmel, dove
la diciottenne Bridget era apprendista sarta, una vocazione insolita per una ragazza della sua età e mezzi modesti.
Michael, allora 27enne, lavorava come bottaio, costruendo botti e altri beni.
Dopo il matrimonio, essi vissero separati per gran parte dell’anno successivo: Bridget tornò a Ballyvadlea, forse per prendersi cura della madre malata, e Michael a Clonmel, continuando a lavorare come bottaio.
Bridget abitava in un cottage, continuando ad essere una talentuosa sarta nonché venditrice di uova, finché vi si trasferì anche Michael.
Trascorsero otto anni di matrimonio e la coppia non aveva avuto figli, ma sembra che fossero in ottimi rapporti, nessuno li aveva mai sentiti discutere o litigare, ed erano benestanti, tanto che Bridget possedeva addirittura una macchina per cucire.
Un giorno, la donna andò a consegnare delle uova, facendo una passeggiata di tre miglia in un luogo a lei familiare, vicino al forte medievale ad anello di pietra (nell’Alto Medioevo, negli insediamenti venivano spesso costruiti forti protettivi ad anello di terra e pietra), sulla collina di Kylenagranagh, noto a molti come il “Forte delle Fate“.
All’epoca, si parlava di “Aos Sí “o “Fair folk”, ovvero fate di dimensioni umane, che vivevano in un mondo nascosto e, come gli esseri umani, potevano essere generose, concedendo buoni favori a coloro che le trattano con rispetto, oppure malvagie e vendicative, guastando il latte e danneggiando i raccolti.
A Ballyvadlea, la gente del posto diceva:
“Se ti avvicini troppo a un cerchio fatato, potresti essere rapito da una fata, soprattutto se sei un bambino o una bella donna”.
Si narrava, che a volte le fate avessero problemi a generare figli da sole, quindi rapivano bei mortali per continuare la loro discendenza.
Al posto del rapito, le fate lasciavano un Cangiante, una fata fatta per assomigliare alla persona rubata, che spesso poteva essere identificato a causa delle sue strane azioni, tipo ammalarsi o apparire leggermente diverso dall’umano che aveva sostituito.
Quindi, se qualcosa andava storto nell’Irlanda del XIX secolo, era colpa delle fate, che si diceva abitassero in fortezze fatate, come quella in cui Bridget passò quel lunedì mattina e poi, quando tornò a casa, iniziò a non stare bene.
Sembrava che non riuscisse a scaldarsi e, il giorno successivo, rimase a letto con i brividi, lamentandosi di “un dolore furioso alla testa”.
Nei giorni successivi, le sue condizioni peggiorarono ed il padre di Bridget camminò per quattro miglia sotto la pioggia, per andare a prendere il dottore, il quale non potette andare.
Michael provò a chiamarlo altre due volte, prima che finalmente arrivasse il dottore, nove giorni dopo che Bridget si era ammalata.
Il medico le diagnosticò “eccitazione nervosa e leggera bronchite“, prescrivendole delle medicine.
Più tardi quel pomeriggio, un prete diede a Bridget l’estrema unzione, per ogni evenienza.
Michael era sempre più preoccupato per il benessere di sua moglie ed iniziò a cercare una causa soprannaturale per la sua malattia.
Iniziò ad affermare che la malata Bridget era “due pollici più alta” e “troppo bella” per essere sua moglie.
Dunne, un seanchaí (narratore locale), esperto di fiabe, avallò i sospetti di Michael, dicendogli: “Non è che tua moglie sia lì“.
Su sollecitazione di Dunne, Michael andò dal “dottore delle fate” locale, Dennis Ganey, per una cura a base di erbe:
“Prendilo, strega, o ti ammazzo!“
Per scacciare la fata, gettarono addosso alla povera Bridget dell’urina e la minacciarono con un attizzatoio rovente, bruciandole la fronte.
E queste torture durarono ancora e ancora,.
Secondo una testimonianza della cugina Johanna Burke, Bridget sembrava “selvaggia e squilibrata“.
Alla fine della notte, tuttavia, nel cottage sembrò calare la quiete: Michael era soddisfatto del suo esorcismo.
Al mattino, venerdì 15 marzo 1895, per la prima volta in quasi due settimane, Bridget indossava i suoi abiti tipicamente alla moda “per darle coraggio quando andava tra la gente“, raccontò in seguito Burke.
Quel pomeriggio, diversi parenti vennero a prendere il tè ma, quando Bridget chiese del latte, si riaccese la paranoia di Michael, in quanto le dicerie narravano che le fate bramino il latte fresco.
Anche Mary Kennedy andò a trovare la nipote malata, su per la collina fino al cottage dei Cleary a Ballyvadlea ma, mentre si avvicinava alla casa, sentì delle urla e, quando aprì la porta, vide sei uomini, tra cui Michael e lo stesso padre della donna, che tenevano Bridget ferma nel suo letto.
Ormai col passare dei giorni, anche i parenti di Bridget, si erano convinti che ci fosse un mutaforma fatato in casa, un Cangiante, che si era messo al posto di Bridget, la quale era stata rapita dalle fate.
Michael riprese di nuovo il suo interrogatorio e Bridget gli disse:
“Tua madre andava con le fate, ed è per questo che pensi che io vada con loro“.
Il marito si arrabbiò, costringendo Bridget a mangiare diversi pezzi di pane prima di gettarla a terra, le strappò i vestiti, la cosparse di olio, poi prese un bastoncino caldo dal camino e diede fuoco al tessuto.
James Kennedy, un parente, intimò a Michael di non bruciare sua moglie.
Ma l’uomo rispose:
“Non è mia moglie, è una vecchia strega ingannatrice inviata al posto di mia moglie.”
Ci fu una grande confusione quando i membri delle due famiglie si resero conto di ciò che aveva fatto Michael Cleary, e decisero di rimanere chiusi in quella casa.
Michael trascorse le successive tre notti consecutive, aspettando sulla collina di Kylenagranagh che le fate restituissero la vera Bridget.
Da un momento all’altro, credeva, sarebbe arrivata al galoppo, attraverso il forte ad anello su un cavallo bianco, lui l’avrebbe liberata e sarebbero tornati a casa, insieme.
Poi, con l’aiuto di Patrick Kennedy, Michael rimosse il corpo dalla casa e seppellì Bridget in una fossa poco profonda, a circa un quarto di miglio dal loro cottage.
I resti di Bridget Cleary furono ritrovati nei giorni seguenti in una fossa poco profonda, vicino all’abitazione e, mercoledì 20 marzo 1895, la polizia arrestò otto persone per il loro coinvolgimento nella morte della donna.
Come parte del processo di due giorni molto pubblicizzato nel luglio 1895, la giuria fu effettivamente condotta all’edificio di stoccaggio in cui il corpo di Bridget era tenuto per la sepoltura, e dove era disponibile per la visione.
Alla giuria fu data l’opportunità di vedere le condizioni del corpo e l’entità delle ferite della donna, nonché di verificare personalmente che il corpo fosse davvero di Bridget, guardandola in faccia.
Ciò che la giuria vide nella dependance, la convinse delle orribili sofferenze che Bridget aveva subito prima di morire.
Pertanto, Michael fu accusato di omicidio colposo, ed anche Jack Dunne, Patrick Boland e quattro cugini di Bridget furono giudicati colpevoli e condannati a pene che andavano dai sei mesi ai venti anni di lavori forzati.
Michael Cleary fu condannato a vent’anni di servitù penale e trascorse quindici anni in prigione.
Il 28 aprile 1910 fu rilasciato dalla prigione di Maryborough e si trasferì nella città inglese di Liverpool, emigrando poi in Canada nel luglio dello stesso anno.
Gli atti giudiziari del processo forniscono dettagli notevoli su coloro che divennero testimoni, tra cui la cugina di Bridget, Johanna Burke, e sua figlia di dieci anni, Katie.
I registri del tribunale mostrano che Michael Cleary fu condannato a vent’anni per la sua parte nell’omicidio e, al suo rilascio, andò a Liverpool e poi in Canada.
Registri del General Prisoners Board, risalenti al 1852-1946 e comprendenti verbali, rapporti annuali, diari di lavori forzati e casellari giudiziari, includono i precedenti penali per Michael Cleary, Patrick Kennedy e John Dunne, condannati per il loro ruolo nella diffusione della tradizione fatata dei Changeling (Cangianti) che uccise Bridget.
Nell’archivio ci sono alcune fotografie, che descrivono in dettaglio l’esterno della casa Cleary, la stanza in cui Bridget dormiva, la cucina della casa, la seconda camera da letto e l’area in cui fu scoperto il suo corpo.
Esiste anche un ulteriore file, che afferma l’esistenza di una fotografia, che testimoniava la scena dell’indignazione, ovvero quella in cui Bridget viene torturata per confessare di essere una Cangiante, ma naturalmente scomparve.
Nonostante l’Irlanda dell’epoca fosse considerata arretrata, un luogo dove la superstizione dilagava con effetti fatali, l’omicidio di Bridget parla di qualcosa di più sinistro, ovvero di cosa succedeva alle donne che andavano al di fuori delle aspettative della società di quel periodo.
Infatti, Bridget Boland era intelligente, bella e indipendente e, per molti versi, si adattava alla definizione della “nuova donna” della fine del XIX secolo.
Bridget era una sarta e modista, e vendeva anche uova, in gran parte mantenendosi da sola, per campare non aveva bisogno del marito come la maggior parte delle donne dell’epoca.
Sia lei che il marito erano alfabetizzati, benestanti, vivevano in una casa con finestre di vetro e tetto d’ardesia, mentre la restante popolazione vivevano in abitazioni con tetti di paglia e pareti di fango.
Inoltre non avevano figli nonostante gli 8 anni di matrimonio e la cosa li rendeva ancora più diversi dagli altri.
Ma oltre a questo, è irragionevole pensare che “stare via con le fate” fosse un mito patriarcale modellato per trattare con donne recalcitranti?
Potrebbe essere che, in realtà, proprio come le streghe che venivano bruciate sul rogo, anche Bridget Cleary sia stata accusata di qualcosa di assurdo quando, forse, aveva una relazione con un altro uomo; oppure che la sua malattia fosse la conseguenza di un aborto spontaneo di un figlio generato con un altro uomo?
Non potrebbe essere che Michael Cleary abbia compiuto un atto di vendetta contro la moglie, quando ha scoperto tutto?
Era coinvolto in un atto di avvelenamento, e quella notte l’uccisione a causa delle “fate” è stata solo la motivazione a cui tutti avrebbero creduto, grazie alla forza enorme che tali credenze esercitavano sulle menti non istruite?
Concludendo, la morte di Bridget è stata popolarmente descritta come “L’ultima strega bruciata in Irlanda“, quando invece non è mai stata effettivamente descritta come collaboratrice del diavolo, come da consuetudine con le streghe accusate: si pensava solo che fosse stata sostituita da una fata cangiante.
Certo cambia poco, la realtà è che Bridget fu uccisa in maniera orribile, vittima della cattiveria, ignoranza, violenza, indifferenza e grettezza umana.
Cosa che continua ad accadere anche oggi, XXI secolo…
Uno dei più antichi misteri irrisolti d’America risale all’agosto del 1587, quando un gruppo di circa 115 coloni inglesi arrivò a Roanoke Island, al largo della costa dell’attuale North Carolina.
L’insediamento doveva essere la prima colonia inglese permanente nel Nuovo Mondo, dei fratellastri Sir Humphrey Gilbert e Walter Raleigh, i quali condividevano la passione per l’esplorazione e la colonizzazione.
Nel 1578, la regina Elisabetta offrì a Gilbert una borsa di studio di 6 anni, per esplorare e sistemare, per suo conto, porzioni non reclamate del Nord America.
Temendo la guerra con la Spagna cattolica, e bramando la ricchezza spagnola dall’America centrale e meridionale, Elisabetta vedeva la costa americana come un potenziale rifugio per corsari come Sir Francis Drake
Quindi affidò questo ambizioso tentativo a Sir Walter Raleigh, il quale doveva stabilire una base fissa nel nord America, con lo scopo di molestare le navi spagnole, estrarre oro ed argento, scoprire un passaggio per l’Oceano Pacifico e cristianizzare gli Indiani.
Una flotta di undici navi, capitanata da Gilbert, e con a bordo anche Raleigh, salpò nel settembre 1578, ma arrivò solo fino alla costa dell’Africa prima di tornare indietro.
Nel 1580, Gilbert inviò il pirata delle Azzorre Simon Fernandes in un viaggio di ricognizione nel New England e sulla costa medio-atlantica, prima di condurre lui stesso una missione più ampia, nel giugno 1583, prima a Terranova e poi a Cape Breton Island, Nuova Scozia.
Inestinguibile avventuroso e talvolta spericolato, Gilbert si imbatté in una brutta tempesta e morì in mare e, a quel punto, il fratellastro Raleigh, si avvicinò molto alla regina, la quale apprezzandone la schiettezza, gli ordinò comunque una nuova missione.
Due piccole navi salparono da Plymouth il 27 aprile 1584, una comandata dal piccolo e capriccioso Philip Amadas, l’altra da Arthur Barlowe, un colto compagno di combattimento di Raleigh in Irlanda.
L’equipaggio era composto da settantacinque soldati e marinai, un capo pilota, ed altri artisti-intellettuali, tra cui il pittore John White ed il matematico Thomas Hariot.
Tutti loro sbarcarono nelle Outer Banks dell’attuale North Carolina e lì stabilirono contatti per lo più amichevoli con gli abitanti di vari villaggi di lingua algonchina, tra cui i Croatoan, tornando in seguito anche in Inghilterra con due di loro: Manteo e Wanchese.
Hariot in seguito descrisse gli indiani Roanoke, che avevano emesso un “grido orribile, come persone che non avevano mai visto uomini vestiti come noi, e si facevano strada emettendo grida come bestie feroci o uomini dalle loro teste”.
Amadas e Fernandes, invece, presero una nave per, probabilmente, il lato nord di Albemarle Sound, e lì incontrarono indiani ostili.
Barlowe rimase fortemente impressionato dal luogo, lodando i suoi “bei boschi, pieni di cervi, conigli, lepri ed uccelli, anche in piena estate, in incredibile abbondanza”, per non parlare dei “cedri più alti e rossi del mondo.”
Spinto dal rapporto positivo di Barlowe e dalla concessione della regina Elisabetta di insediare la “Virginia”, a dicembre Raleigh aveva il sostegno sia della Corona che della Camera dei Comuni e, il 6 gennaio 1585, fu nominato cavaliere durante una celebrazione della dodicesima notte di Natale.
Poco dopo assunse i titoli di Lord e Governatore della Virginia, e il 9 aprile 1585, circa 600 coloni, oltre a Amadas, Barlowe, White, Hariot, Manteo e Wanchese, salparono da Plymouth su cinque navi e due pinnacoli più piccoli.
Circa la metà dei coloni erano soldati, ma c’erano anche falegnami, fabbri, cuochi, calzolai ed almeno un ministro, tutti uomini.
Il 26 giugno, gettarono l’ancora sull’isola barriera di Outer Banks di Wococon, a circa ottanta miglia a sud-ovest di Roanoke.
Probabilmente non comprendendo appieno quanto potesse essere insidiosa la navigazione nella zona, tre giorni dopo una delle navi si arenò e gran parte del carico si rovinò.
Le provviste inizialmente bastanti per un anno per centinaia di coloni, si ridussero a soli venti giorni.
Di contro nel frattempo, gli Indiani continuavano ad avere sentimenti ambivalenti e contrastanti nei confronti degli Inglesi.
Inoltre, durante l’assenza degli invasori, gli indigeni avevano osservato un’eclissi totale di sole e, subito dopo la ricomparsa dei coloni, una cometa aveva attraversato lentamente il cielo.
Gli Algonchini pensavano che questi fossero segni potenzialmente significativi e, quando i villaggi iniziarono a soffrire di una malattia spesso fatale, videro tutti questi eventi come correlati.
Nonostante ciò ed altri vari problemi, gli Inglesi stabilirono un accampamento fortificato sull’isola di Roanoke, e Thomas Hariot e John White accompagnarono le esplorazioni della terraferma e della baia di Chesapeake, creando mappe, dipinti e descrizioni della cultura nativa.
Ma dopo meno di un anno in America, e poco dopo aver decapitato il capo indiano Pemisapan, gli Inglesi abbandonarono la colonia, lasciando dietro di loro 108 uomini sotto la guida di Ralph Lane, promettendo l’arrivo di una missione di soccorso in autunno.
Ciò non accadde e quell’inverno i coloni affamati, probabilmente guidati da Amadas, salparono per la baia di Chesapeake, dove visitarono Skicoak, capitale degli indiani Chesapeake, e probabilmente qualche altra tribù.
Nel frattempo, malattie e carestie misero a dura prova gli Indiani a Roanoke, così che quando Amadas tornò in primavera, un capo tribù stava valutando se tentare di spazzare via gli intrusi.
Dopo varie vicissitudini, nel 1587 gli Inglesi tornarono in America, questa volta sotto la guida di White, il quale portò anche la sua famiglia, e con l’intenzione di stabilirsi nel Chesapeake: invece, rioccuparono Roanoke.
In seguito White dovette ritornare in patria anche a causa della guerra contro gli Spagnoli e, nonostante il divieto a tutte le navi inglesi di lasciare il porto, Raleigh riuscì a organizzare una missione di soccorso a due navi, che salpò il 22 aprile 1588, tre mesi prima della temibile Armada spagnola.
Ma uno scontro in mare con i Francesi fece tornare le navi zoppicanti in Inghilterra, e White non fu in grado di organizzare un’altra missione fino al 1590, quando finalmente quattro navi salparono per Roanoke.
Questi erano corsari; non portarono con sé coloni o rifornimenti aggiuntivi ed accettarono solo di lasciare White alla colonia. Quando una tempesta affondò una delle navi all’arrivo, erano ancora più ansiosi di andare avanti, ma il 18 agosto 1590 White e una compagnia di marinai sbarcarono a Roanoke.
Il campo era abbandonato, con la parola “CROATOAN” scolpita su un palo.
Tre anni prima, White ed i coloni avevano concordato, che se avessero avuto bisogno di trasferirsi, avrebbero indicato la loro destinazione proprio in quel modo; se si fossero trovati sotto costrizione, avrebbero dovuto incidere una croce sopra le lettere. Con sollievo di White, non c’era una croce del genere.
Ma, nonostante ciò, i coloni erano scomparsi, compresa sua nipote Virginia Dare (la prima bambina inglese nata nelle Americhe), e mai più ritrovati.
La colonia perduta di Roanoke è uno dei misteri più famosi della storia americana; gli indizi criptici lasciati nell’insediamento abbandonato e la mancanza di prove concrete ne fanno il fulcro di speculazioni e teorie selvagge.
Le indagini sul destino della “colonia perduta” di Roanoke sono proseguite nei secoli, ma nessuno ha trovato una risposta soddisfacente.
“Croatoan” era il nome di un’isola a sud di Roanoke, che ospitava una tribù di nativi americani con lo stesso nome: forse, allora, i coloni furono uccisi o rapiti dai nativi americani.
Altre ipotesi sostengono che abbiano tentato di tornare in Inghilterra da soli e si siano persi in mare, che abbiano incontrato una fine sanguinosa per mano degli Spagnoli che erano saliti dalla Florida, o che si siano trasferiti nell’entroterra e siano stati assorbiti in una tribù amica.
Nel 2007, sono stati raccolti i DNA da analizzare delle famiglie locali, per stabilire se fossero imparentati con i coloni di Roanoke, le tribù locali dei nativi americani o entrambi.
Inoltre, nel 2009 la Croatoan Archaeological Society ha iniziato degli scavi sotto la guida del professore ed archeologo inglese dell’Università di Bristol, Mark Horton, insieme con Henry Wright, professore di antropologia all’Università del Michigan, ed esperto di storia dei nativi americani del posto.
I ricercatori hanno trovato migliaia di manufatti, che mostrano un mix di vita inglese e nativa a circa 2 metri di profondità nel terreno.
Parti di spade, anelli, lavagne per scrivere, parti di pistole e vetro si trovano nello stesso strato di terra delle ceramiche indigene e delle punte di freccia.
Insomma, nel corso degli anni vari enti ed organizzazioni hanno tentato di scoprire cosa sia successo ai coloni inglesi.
Concludendo, alcuni dicono che un secolo dopo la scomparsa, l’esploratore inglese John Lawson abbia trovato nativi di Roanoke con gli occhi azzurri.
Oppure che la colonia lasciò l’isola di Roanoke con i Croatoani, per stabilirsi sull’isola di Hatteras, dove prosperarono, mangiarono bene, ed ebbero famiglie miste, resistendo lì per generazioni.
Altri ancora che l’intera colonia sia stata completamente trucidata dagli Indiani.
Le ricerche, gli studi e le supposizioni continuano ancora oggi, ma la domanda rimane: “Come sono potuti scomparire 115 uomini, donne e bambini?”
È un mistero che continua ad ossessionare storici e archeologi da centinaia di anni…
…Venient annis saecula seris, quibus Oceanus vincula rerum laxet
et ingens pateat tellus Tethysque novos detegat
orbes nec sit terris ultima Thule..
(Verrà un’era negli anni lontani,
in cui l’Oceano scioglierà i legami delle cose,
quando l’intera vasta terra sarà rivelata,
quando Tethys rivelerà nuovi mondi
e Thule non sarà il punto più remoto della Terra)
-Seneca il giovane-
Nel IV secolo a.C., un esploratore greco di nome Pitea lasciò la città portuale di Massalia, l’attuale Marsiglia, in Francia, all’epoca una colonia greco-occidentale, alla ricerca di nuove opportunità commerciali nell’estremo nord.
L’uomo ed i suoi sostenitori commerciali avevano un interesse particolare nel cercare l’Ambra, usata come forma di valuta, così come lo stagno, che era un ingrediente chiave nella produzione del bronzo.
Pitea era un osservatore competente del mondo naturale e, navigando dapprima a ovest, poi a nord, arrivò sulla costa di Prettanikē, ora Isole Britanniche, descrivendo l’effetto della Luna sulle maree e facendo la mappatura della costa della Gran Bretagna.
Poi si diresse coraggiosamente più a nord in un territorio inesplorato, a circa sei giorni di viaggio attraverso il mare dalle isole scozzesi di Shetland e Orkney.
E lì, il viaggio entrò in un Regno ultraterreno quando, dopo pochi giorni di navigazione, Pitea giunse in un luogo che descrisse come “né terra né mare”:
“ma invece una sorta di miscuglio di questi simile a un polmone marino, in cui la terra e il mare e tutte le cose insieme sono sospese, e questa miscela è … impraticabile a piedi o in nave”.
“dove il sole non tramontava mai, e l’aria ed il mare formavano una strana sostanza semi-solida”
Pitea sbarcò su un’isola sconosciuta a cui dette il nome “Thule”, (anche Thula, Thyle, Thile, Thila, Tile, Tila, Tilla, Tyle o Tylen derivando dalla parola greca “Θούλη”), dal suono che sentiva di continuo: …TOO-LEE…
L’esploratore descrisse l’incontro con il popolo di Thule, che definì come barbari, con pelle chiara e capelli biondo chiaro, umili agricoltori che coltivavano cereali e ortaggi a radice.
Pitea scrisse dell’estate artica, un fenomeno totalmente sconosciuto ai popoli del Mediterraneo ed affermò che gli abitanti di Thule gli avevano insegnato, che il sole tramonta a un certo punto durante il Solstizio d’inverno.
Quindi, durante i mesi estivi a Thule non c’era notte e durante l’inverno il sole non sorgeva mai.
Alla fine, Pitea tornò a Massalia e scrisse il suo capolavoro, “On the Ocean”, un resoconto del suo viaggio e un trattato di enorme influenza nel Mondo antico e destinato ai posteri che, purtroppo, andò perduto quando la grande biblioteca di Alessandria fu bruciata nel 48 a.C.
Le sue storie colpirono la fantasia di filosofi e poeti greci, i quali includevano riferimenti alla bellissima gelida Thule nei loro scritti.
Sulle mappe, Thule era spesso raffigurata come la terra più settentrionale, per cui veniva chiamata “Ultima Thule”, definita così per la prima volta dal poeta latino Virgilio, nel senso di estrema, cioè ultima terra conoscibile.
Questo significato nel corso dei secoli si è modificato, fino ad indicare tutte le terre “al di là del mondo conosciuto“, come indica l’origine etrusca della parola tular = confine.
Polibio, uno storico greco, nel 140 a.C. diceva su Pitea:
“che ha indotto in errore molte persone dicendo che ha attraversato tutta la Britannia a piedi, dando all’isola una circonferenza di quarantamila stadi, e raccontandoci anche di Thule, quelle regioni in cui non c’era più terra né mare propri né aria, ma una sorta di miscuglio di tutte e tre le consistenze di una medusa in cui non si può né camminare né navigare, tenendo tutto insieme, per così dire.”
Nel I secolo a.C., l’astronomo greco Gemino di Rodi affermò, che l’etimologia di Thule derivava da una parola arcaica per il fenomeno della notte polare:
“il luogo dove il sole va a riposare”.
Nel IV secolo d.C., Postumio Rufio Festo Avienio, un politico e poeta romano, nella sua opera “Ora Marittima” aggiunse che, durante l’estate a Thule, la notte durava solo due ore, chiaro riferimento al “Sole di mezzanotte”.
Nel 551 d.C. Giordane, uno storico goto, nella sua Getica scrisse che Thule sedeva sotto la stella polare.
Per secoli, le persone hanno discusso sulla posizione di Ultima Thule, questa misteriosa terra settentrionale, con tante informazioni e supposizioni contrastanti.
Le antiche mappe greche mostrano Thule molto a nord della Gran Bretagna e ad ovest della Scandinavia, quindi è possibile che Pitea si riferisse all’Islanda o alla Groenlandia.
In effetti, l’Islanda era chiamata Thule in epoca medievale, mentre per i Norvegesi si tratta della città di Smøla: ma anche Qaanaaq, la città più a nord della Groenlandia, era un tempo chiamata Thule.
Tra i vari contendenti, ci sono anche le Isole Shetland, le Isole Fær Øere, l’estone Isola Saaremaa.
L’impraticabile ghiaccio fangoso, la fitta nebbia, la mancanza di oscurità durante il Solstizio d’estate e la mancanza di luce solare al Solstizio d’inverno suggeriscono che Pitea viaggiò forse nelle vicinanze del circolo polare artico.
Gli argomenti per ciascuna parte sono convincenti, ma le prove sono così ambigue che, per ogni affermazione plausibile, un’altra parte avanza con forza una domanda riconvenzionale.
Nel 1775, l’esploratore, navigatore e cartografo britannico James Cook scoprì le Isole Sandwich Australi, chiamate così in onore del IV conte di Sandwich.
Il suo arcipelago più meridionale prende il nome di Isole Thule meridionali, poiché sembravano poste all’estremo confine del Mondo.
Thule è stata anche alla base della formazione di gruppi occulti come quello tedesco “Thule Gesellschaft”, fondato nel 1918, che identificava in Thule l’origine della saggezza della razza umana, che era popolata da giganti con i capelli biondi, gli occhi azzurri e la pelle chiara, e possedeva straordinarie capacità tecnologiche.
Questi esseri un tempo dominavano il mondo ed avevano un potere successivamente perso, per aver avuto relazioni sessuali con membri di altre razze inferiori, subumane e in parte animali, credenza a cui si aggrappò appunto il partito nazista tedesco: Rudolf Hess, che in seguito prestò servizio sotto Adolf Hitler, era un membro della Thule Gesellschaft.
Tra le varie curiosità contemporanee, scienziati dell’Istituto di Geodesia e Scienza della Geoinformazione di Berlino, nel 2010 hanno annunciato di aver trovato la mitica Thule.
Infatti essi, studiando una mappa del II secolo a.C. realizzata da Tolomeo, hanno notato che c’erano errori tra la sua mappa e gli appunti di viaggio di Pitea.
Correggendo quelle discrepanze e ricalcolando i viaggi di Pitea, individuarono l’isola norvegese di Smøla come la mitica Thule.
Oggi, su alcune mappe geografiche, a volte si trova il nome Thule, in quanto questo nome è stato riciclato ed utilizzato per vari luoghi, inclusi siti in Groenlandia ed Islanda, nonché basi di ricerca artiche.
Questa mitica terra ha dato il nome anche ad un minerale, la Thulite, probabilmente perché questa pietra è stata trovata per la prima volta in Norvegia (di cui è Pietra nazionale), nel 1820, dal chimico svedese Anders Gustaf Ekeberg.
In definitiva, per secoli Thule ha continuato a confondere e deludere i geografi, che hanno cercato di fare mappe dell’estremo nord della Terra, dove hanno disegnato un enorme fiume insuperabile, o una grande fascia marina da un polo all’altro.
Tante generazioni, tante mentalità, tanti popoli hanno continuato imperterriti a cercare l’Ultima Thule, forse sedotti dal fascino dell’ignoto o forse, in fondo, rimanendo solo bloccati in un delirio poetico.
Fatto sta che, sebbene il fascino si sia un po’ raffreddato in indifferenza alla fine del secolo scorso, ci sono ancora persone attaccate alla promessa della purezza primordiale della leggendaria Thule.
E continuano a cercarla…
Lasciateci sognare!
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