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LUOGHI INCANTATI
“Se metti l’auto in folle e togli il freno a mano, l’auto si avvia in salita”
Gravity Hill, convenzionalmente, è una collina gravitazionale, conosciuta anche come collina magnetica, collina misteriosa, luogo misterioso, strada gravitazionale o collina antigravità.
E’ un luogo in cui la disposizione del terreno circostante produce un’illusione ottica, facendo sembrare una leggera pendenza in discesa un pendio in salita, tanto che, un’auto senza marcia sembrerà rotolare in salita contro la gravità.
Nonostante scientificamente si sappia, che la pendenza delle colline gravitazionali sia un’illusione ottica, questi luoghi sono spesso accompagnati da affermazioni, secondo cui su di esse agiscano forze soprannaturali o magnetiche.
Il fattore più importante che contribuisce all’illusione è un orizzonte quasi o completamente ostruito, senza il quale sarebbe difficile giudicare la pendenza di una superficie, poiché mancherebbe un riferimento affidabile.
Infatti ciò che normalmente si presume sia, diciamo, perpendicolare al suolo, come gli alberi, potrebbe essere inclinato, compensando il riferimento visivo.
Studi scientifici hanno rilevato, ricreando una serie di luoghi antigravità in laboratorio per vedere come avrebbero reagito le persone, come l’assenza di un orizzonte possa distorcere la prospettiva sulle colline gravitazionali.
Ricercatori delle Università di Pavia e Padova hanno scoperto che senza un vero orizzonte in vista, il cervello umano potrebbe essere ingannato da punti di riferimento comuni come alberi e segnali, facendoti pensare che stai guardando una pendenza in discesa, quando in realtà potresti semplicemente guardare una superficie piana, o addirittura in salita…
Di conseguenza, qualsiasi cosa tu poggi su quella superficie, che si tratti di una palla di gomma, di un corso d’acqua o di un’auto da 1.600 kg, sembrerà combattere il flusso di gravità e viaggiare in salita.
Però, sebbene le auto, l’acqua e la palla sembrino rotolare su per la collina, in realtà stanno rotolando in discesa, proprio come dovrebbe essere.
Per curiosità, esiste un fenomeno opposto, una strada in salita che appare pianeggiante, noto nelle corse ciclistiche come “falso piatto”.
Una cosa è certa, tutti questi siti hanno una cosa in comune: l’orizzonte è curvo oppure ostruito alla vista.
Le colline gravitazionali, luoghi misteriosi e colline spettrali, stanno spuntando a centinaia in tutto il mondo, proponendo teorie affascinanti che, rinnegando l’illusione ottica, narrano di misteriose fonti magnetiche sotto la superficie terrestre, che ti attirano lentamente verso di loro.
Oppure di un problema tecnico nello spaziotempo, che far sì che le leggi della fisica si trasformino in un caos a ritroso.
Ma ancora, che un esercito di fantasmi arrabbiati voglia trascinare la tua auto in cima alla collina, con nient’altro che le loro mani fantasma.
Diverse “colline magiche” sono sparse in tutto il Mondo e sono meta di curiosi, studiosi, occultisti, ufologi, ecc.
Un esempio famoso è la Magic Hill nelle Mourne Mountains nella contea di Down, Irlanda del Nord, vicino alla diga di Spelga.
Qui troviamo strade anche oltre il confine irlandese, dietro Ben Bulben nella di Sligo e vicino alle cascate Mahon nelle Montagne Comeragh.
Altri luoghi interessanti sono nel New Brunswick in Canada, in Grecia, Germania, Portogallo, Repubblica Ceca e Romania.
Anche in Italia, abbiamo le famose colline gravitazionali, lo sapevi?
• Statale 218, a 30 km a sud di Roma, tra Rocca di Papa ed Ariccia
• Alvito (FR)
• Pescosolido (FR)
• Rosciolo dei Marsi (AQ) vicino Avezzano, sulla strada che porta alla chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta
• Benevento, zona “Ponte Cacacipolla”, sulla strada verso Pietrelcina
• Sala Consilina (SA) in una strada chiusa
• Strada comunale Bella-Piano Luppino, in direzione Piano Luppino, nel rettilineo prima della sorgente d’acqua, Lamezia Terme (CZ)
• Caronte, Lamezia Terme (CZ)
• S.P. 39 tra Corato e Poggiorsini (BA)
• Gargano (FG), lungo la litoranea Vieste-Mattinata km. 26 S.P. 53
• Statale che collega Taranto a Martina Franca
• Barengo (NO), direzione Fara Novarese
• Roccabruna (CN)
• S.P. Paternò-Schettino (CT)
• Alghero, strada per Villanova Monteleone (SS)
• Statale 131 Carlo Felice, prima di Santu Lussurgiu (OR)
• Strada che congiunge Filattiera a Caprio (MS), Lunigiana
• Tratto tra S.P. 13 località Provalo e località Dosso, a Sant’Anna d’Alfaedo (VR)
• Uscita San Gemini Nord a Terni, direzione Cesena
• Frazione Montagnaga di Balsega di Piné (TN)
Esiste una famosa leggenda sulle colline gravitazionali, che adesso vi racconto.
“LA VERA STORIA DELLA STREGA DI GRAVITY HILL”
A Sterling, nel Connecticut, situata in un tratto tranquillo, rurale e residenziale di Main Street, esiste un luogo in cui le auto ed altri oggetti rotolano su invece che giù per la collina, o almeno sembrano farlo.
Secondo la tradizione locale, il fenomeno è causato dalla rabbia di una strega morta da tempo, di nome Margaret Henry, la quale originariamente era la proprietaria del terreno sotto la collina, ed a cui è intitolata una strada non troppo lontana da questo luogo.
La donna viveva in quel tratto di Main Street, in cui la sua rabbia e l’intollerabilità verso gli intrusi la spingeva, e la spinge ancora oggi, ad allungarsi dall’oltretomba, per piegare le regole della gravità alla sua volontà, “cacciando” le auto fuori dalla sua proprietà.
La verità è che, sebbene Margaret Henry fosse davvero una donna che viveva nella zona alla fine del 1700, non viveva vicino alla sezione di Main Street conosciuta come Gravity Hill, e sicuramente non era una strega.
Nessuno infatti l’ha mai accusata di praticare la stregoneria, e nella cronaca storica è ricordata per la sua gentilezza:
“Si prendeva cura dei poveri ed accoglieva anche bambini in affidamento”.
Sembra che questa leggenda abbia avuto origine dal racconto di un bambino, Eric, il quale narrò come il giorno dopo che un gatto nero era stato picchiato, la donna fosse troppo ferita per alzarsi dal letto, portando i residenti locali a concludere che fosse lei il gatto.
Il bambino scrisse anche di come, molti anni dopo, le persone avrebbero raccolto mirtilli vicino alle rovine della casa di Margaret e le avrebbero attribuito eventi inquietanti.
Un’altra versione narra, invece, che la strana ed inquietante sensazione fosse causata da magneti nascosti tra i cespugli.
Anche a Sterling, quindi, c’è una collina associata a leggende e miti locali, ma in realtà è anche questa solo un’illusione ottica.
L’area circostante fa sembrare che si stia andando in salita, quando in realtà si sta andando in discesa, nonostante quello che dicono i propri occhi.
Su questa strada le macchine risalgono la collina: se si mette la macchina in folle, si inizierà a “rotolare su” per la collina.
Tuttavia, bisogna davvero vederlo, o sperimentarlo, per crederci!
Giorni fa ho avuto modo di vedere “The third day” (“Il terzo giorno”), una bellissima ed inquietante mini serie TV con Jude Law, ambientata ad Osyth’s island, un luogo mistico e visionario, ma assolutamente reale.
L’Isola di Osea, anticamente Osey, oggi di proprietà del produttore musicale Nigel Frieda che ha lavorato con band come The Rolling Stones e Roxy Music, è una terra disabitata situata nellꞌestuario del fiume Blackwater, in Essex (Inghilterra).
Con una storia che risale almeno al Neolitico e l’influenza sia dei Romani che dei Vichinghi, l’isola di Osea è sempre stata riconosciuta per il suo utilizzo come area coltivabile, diventando un sito produttivo nonostante fosse tagliata fuori dalla terraferma.
Essendo una terra ricca di sostanze nutritive, quando Guglielmo il Conquistatore arrivò sulle sue coste, l’isola di Osea (all’epoca chiamata Uvesia) fu subito registrata nel libro Domesday, un manoscritto da lui voluto, che raccoglieva i risultati di un grande censimento completato nel 1086, riguardante la maggior parte dell’Inghilterra e parte del Galles.
Con una superficie di circa di 1,5 km2, l’Isola di Osea è collegata alla terraferma nella riva nord del fiume, da una strada in rilievo di epoca romana, che viene sommersa dallꞌacqua alta con le maree.
Per questo motivo, la strada si può percorrere solamente in alcune fasce orarie del giorno, quando la marea è bassa e le permette di emergere dalle profondità acquatiche, per un periodo di 4 ore, durante il quale le auto possono transitare.
Durante l’alta marea, invece, è disponibile un servizio di taxi fluviale dalla terraferma, della durata di circa 10 minuti.
Aperta al pubblico per la prima volta in quasi 100 anni nel 2011, sull’Isola Osea i cellulari non prendono, ci sono tracce dei Celti e, in passato, è stata sede di un centro di recupero per tossicodipendenti ed alcolizzati, oltre che sede di una base militare top-secret durante la prima Guerra Mondiale e di un centro di disintossicazione temporaneo.
Anche se la storia raccontata in The third day, che vi consiglio di vedere, non è reale, l’Isola di Osea ha ugualmente un fascino misterioso, con un passato affascinante e colorato che riecheggia da sempre.
Nel 1903, Frederick Nicholas Charrington acquistò l’isola di Osea, con lo scopo di trasformarla in un centro di riabilitazione.
All’inizio del XVIII secolo, la sua famiglia aveva creato con successo un’attività di produzione di birra, la Charrington Brewery.
Ma nella vita, Frederick aveva una vocazione diversa, per cui rinunciò alla fortuna della sua famiglia, di circa 1 milione di sterline, e si dedicò ad aiutare i bisognosi, soprattutto quelli in difficoltà finanziarie, in relazioni violente o in cerca di cure per la dipendenza.
E’ interessante il suo racconto, relativo a come decise di spogliarsi dei suoi beni, per dedicarsi ai sofferenti.
Egli narra che, a circa vent’anni, mentre passeggiava per Whitechapel, vide una donna mal vestita con i suoi figli, che implorava il marito di allontanarsi da un pub e di darle i soldi per il cibo.
Il marito furioso uscì e la scaraventò nel canale di scolo, e Charrington andò in suo aiuto, ma anch’egli fu sbattuto a terra.
Alzando lo sguardo, vide il suo nome sull’insegna sopra il pub, dedicato appunto a Charrington Brewery (Birrificio Charrington).
In seguito Frederick disse: “Quando vidi quel segno fui colpito proprio come lo era stato Paolo sulla via di Damasco”.
In pratica, era proprio la fonte della ricchezza della sua famiglia a produrre indicibili sofferenze umane davanti ai suoi occhi.
“Allora promisi a Dio che non mi sarebbe arrivato nemmeno un centesimo di quel denaro”.
Così, abbandonò l’azienda di famiglia, aprì una scuola e divenne un ardente lavoratore per il Movimento della Temperanza, un movimento sociale che promuoveva la completa astinenza dal consumo di bevande alcoliche.
Poi aprì altri centri cristiani di riabilitazione, fino ad acquistare l’Isola di Osea, in cui fondò il Causeway Retreat, che offriva strutture di riabilitazione gratuite per la dipendenza da alcol ed oppioidi.
I pazienti avrebbero lavorato la terra sull’isola in cambio di cure, creando una sorta di sobria oasi.
In seguito, l’Isola di Osea divenne di proprietà dell’Università di Cambridge e dichiarata sito di particolare interesse scientifico per la sua ecologia unica, piante rare, uccelli e vita marina, prima di tornare di proprietà privata negli anni ’50.
Negli anni 2000, il centro di cura divenne noto come una struttura di riabilitazione per celebrità, frequentato tra gli altri da Amy Winehouse, dalla star dei Take That Mark Owen, dall’attore Jonathan Rhys Meyers e da membri di alcune delle famiglie più ricche della Gran Bretagna, finché non fu chiuso nel 2010, per aver accettato e curato pazienti senza le licenze e le registrazioni adeguate e per dei suicidi e morti sospette.
Acquistata da Nigel Frieda, fu trasformata in una destinazione turistica alla moda.
Per esempio, in quest’isola di circa 380 acri, Daniel Radcliffe ha recitato nel film “Woman in Black” del 2012; è stata utilizzata come location per un episodio di Superstar, la versione britannica di American Idol; ospita anche uno studio di registrazione all’avanguardia, in cui artisti famosi incidono album in totale privacy.
E, nel 2019, l’isola ha accolto il cast e la troupe di “Il Terzo Giorno”, di cui ho scritto all’inizio, e di cui evito di spoilerare la trama: guardate questa inquietante mini serie…
Oggi l’Isola di Osea è aperta al pubblico e potrebbe essere una meta da non perdere anche se, dopo aver visto “The third day”, saprete bene che il soggiorno sarà a vostro totale rischio e pericolo… 😅
Anche in una limpida e soleggiata giornata di sole, si ha la sensazione che sull’Isola di Osea siano accadute cose “particolari”, grazie alla sua atmosfera surreale ed isolata.
Non per niente, i siti web turistici che la riguardano citano: Isola di Osea, la terra che è “qualunque cosa tu voglia che sia”…
Fate attenzione!
…Venient annis saecula seris, quibus Oceanus vincula rerum laxet
et ingens pateat tellus Tethysque novos detegat
orbes nec sit terris ultima Thule..
(Verrà un’era negli anni lontani,
in cui l’Oceano scioglierà i legami delle cose,
quando l’intera vasta terra sarà rivelata,
quando Tethys rivelerà nuovi mondi
e Thule non sarà il punto più remoto della Terra)
-Seneca il giovane-
Nel IV secolo a.C., un esploratore greco di nome Pitea lasciò la città portuale di Massalia, l’attuale Marsiglia, in Francia, all’epoca una colonia greco-occidentale, alla ricerca di nuove opportunità commerciali nell’estremo nord.
L’uomo ed i suoi sostenitori commerciali avevano un interesse particolare nel cercare l’Ambra, usata come forma di valuta, così come lo stagno, che era un ingrediente chiave nella produzione del bronzo.
Pitea era un osservatore competente del mondo naturale e, navigando dapprima a ovest, poi a nord, arrivò sulla costa di Prettanikē, ora Isole Britanniche, descrivendo l’effetto della Luna sulle maree e facendo la mappatura della costa della Gran Bretagna.
Poi si diresse coraggiosamente più a nord in un territorio inesplorato, a circa sei giorni di viaggio attraverso il mare dalle isole scozzesi di Shetland e Orkney.
E lì, il viaggio entrò in un Regno ultraterreno quando, dopo pochi giorni di navigazione, Pitea giunse in un luogo che descrisse come “né terra né mare”:
“ma invece una sorta di miscuglio di questi simile a un polmone marino, in cui la terra e il mare e tutte le cose insieme sono sospese, e questa miscela è … impraticabile a piedi o in nave”.
“dove il sole non tramontava mai, e l’aria ed il mare formavano una strana sostanza semi-solida”
Pitea sbarcò su un’isola sconosciuta a cui dette il nome “Thule”, (anche Thula, Thyle, Thile, Thila, Tile, Tila, Tilla, Tyle o Tylen derivando dalla parola greca “Θούλη”), dal suono che sentiva di continuo: …TOO-LEE…
L’esploratore descrisse l’incontro con il popolo di Thule, che definì come barbari, con pelle chiara e capelli biondo chiaro, umili agricoltori che coltivavano cereali e ortaggi a radice.
Pitea scrisse dell’estate artica, un fenomeno totalmente sconosciuto ai popoli del Mediterraneo ed affermò che gli abitanti di Thule gli avevano insegnato, che il sole tramonta a un certo punto durante il Solstizio d’inverno.
Quindi, durante i mesi estivi a Thule non c’era notte e durante l’inverno il sole non sorgeva mai.
Alla fine, Pitea tornò a Massalia e scrisse il suo capolavoro, “On the Ocean”, un resoconto del suo viaggio e un trattato di enorme influenza nel Mondo antico e destinato ai posteri che, purtroppo, andò perduto quando la grande biblioteca di Alessandria fu bruciata nel 48 a.C.
Le sue storie colpirono la fantasia di filosofi e poeti greci, i quali includevano riferimenti alla bellissima gelida Thule nei loro scritti.
Sulle mappe, Thule era spesso raffigurata come la terra più settentrionale, per cui veniva chiamata “Ultima Thule”, definita così per la prima volta dal poeta latino Virgilio, nel senso di estrema, cioè ultima terra conoscibile.
Questo significato nel corso dei secoli si è modificato, fino ad indicare tutte le terre “al di là del mondo conosciuto“, come indica l’origine etrusca della parola tular = confine.
Polibio, uno storico greco, nel 140 a.C. diceva su Pitea:
“che ha indotto in errore molte persone dicendo che ha attraversato tutta la Britannia a piedi, dando all’isola una circonferenza di quarantamila stadi, e raccontandoci anche di Thule, quelle regioni in cui non c’era più terra né mare propri né aria, ma una sorta di miscuglio di tutte e tre le consistenze di una medusa in cui non si può né camminare né navigare, tenendo tutto insieme, per così dire.”
Nel I secolo a.C., l’astronomo greco Gemino di Rodi affermò, che l’etimologia di Thule derivava da una parola arcaica per il fenomeno della notte polare:
“il luogo dove il sole va a riposare”.
Nel IV secolo d.C., Postumio Rufio Festo Avienio, un politico e poeta romano, nella sua opera “Ora Marittima” aggiunse che, durante l’estate a Thule, la notte durava solo due ore, chiaro riferimento al “Sole di mezzanotte”.
Nel 551 d.C. Giordane, uno storico goto, nella sua Getica scrisse che Thule sedeva sotto la stella polare.
Per secoli, le persone hanno discusso sulla posizione di Ultima Thule, questa misteriosa terra settentrionale, con tante informazioni e supposizioni contrastanti.
Le antiche mappe greche mostrano Thule molto a nord della Gran Bretagna e ad ovest della Scandinavia, quindi è possibile che Pitea si riferisse all’Islanda o alla Groenlandia.
In effetti, l’Islanda era chiamata Thule in epoca medievale, mentre per i Norvegesi si tratta della città di Smøla: ma anche Qaanaaq, la città più a nord della Groenlandia, era un tempo chiamata Thule.
Tra i vari contendenti, ci sono anche le Isole Shetland, le Isole Fær Øere, l’estone Isola Saaremaa.
L’impraticabile ghiaccio fangoso, la fitta nebbia, la mancanza di oscurità durante il Solstizio d’estate e la mancanza di luce solare al Solstizio d’inverno suggeriscono che Pitea viaggiò forse nelle vicinanze del circolo polare artico.
Gli argomenti per ciascuna parte sono convincenti, ma le prove sono così ambigue che, per ogni affermazione plausibile, un’altra parte avanza con forza una domanda riconvenzionale.
Nel 1775, l’esploratore, navigatore e cartografo britannico James Cook scoprì le Isole Sandwich Australi, chiamate così in onore del IV conte di Sandwich.
Il suo arcipelago più meridionale prende il nome di Isole Thule meridionali, poiché sembravano poste all’estremo confine del Mondo.
Thule è stata anche alla base della formazione di gruppi occulti come quello tedesco “Thule Gesellschaft”, fondato nel 1918, che identificava in Thule l’origine della saggezza della razza umana, che era popolata da giganti con i capelli biondi, gli occhi azzurri e la pelle chiara, e possedeva straordinarie capacità tecnologiche.
Questi esseri un tempo dominavano il mondo ed avevano un potere successivamente perso, per aver avuto relazioni sessuali con membri di altre razze inferiori, subumane e in parte animali, credenza a cui si aggrappò appunto il partito nazista tedesco: Rudolf Hess, che in seguito prestò servizio sotto Adolf Hitler, era un membro della Thule Gesellschaft.
Tra le varie curiosità contemporanee, scienziati dell’Istituto di Geodesia e Scienza della Geoinformazione di Berlino, nel 2010 hanno annunciato di aver trovato la mitica Thule.
Infatti essi, studiando una mappa del II secolo a.C. realizzata da Tolomeo, hanno notato che c’erano errori tra la sua mappa e gli appunti di viaggio di Pitea.
Correggendo quelle discrepanze e ricalcolando i viaggi di Pitea, individuarono l’isola norvegese di Smøla come la mitica Thule.
Oggi, su alcune mappe geografiche, a volte si trova il nome Thule, in quanto questo nome è stato riciclato ed utilizzato per vari luoghi, inclusi siti in Groenlandia ed Islanda, nonché basi di ricerca artiche.
Questa mitica terra ha dato il nome anche ad un minerale, la Thulite, probabilmente perché questa pietra è stata trovata per la prima volta in Norvegia (di cui è Pietra nazionale), nel 1820, dal chimico svedese Anders Gustaf Ekeberg.
In definitiva, per secoli Thule ha continuato a confondere e deludere i geografi, che hanno cercato di fare mappe dell’estremo nord della Terra, dove hanno disegnato un enorme fiume insuperabile, o una grande fascia marina da un polo all’altro.
Tante generazioni, tante mentalità, tanti popoli hanno continuato imperterriti a cercare l’Ultima Thule, forse sedotti dal fascino dell’ignoto o forse, in fondo, rimanendo solo bloccati in un delirio poetico.
Fatto sta che, sebbene il fascino si sia un po’ raffreddato in indifferenza alla fine del secolo scorso, ci sono ancora persone attaccate alla promessa della purezza primordiale della leggendaria Thule.
E continuano a cercarla…
Lasciateci sognare!
SCILLA E CARIDDI, LA LEGGENDA DELLO STRETTO DI MESSINA
Scritto da MadameBlatt
scritto da MadameBlatt
La piccola città costiera di Scilla, U Scigghiju, appena a nord di Reggio Calabria, sulla Costa Viola, oggi è una rinomata località turistica situata su un promontorio all’ingresso settentrionale dello Stretto di Messina.
Il suo nome Skýla, dal greco “cagna”, richiama un misterioso mostro marino, descritto da Omero nella sua opera “Odissea”, ma anche da Esiodo ed Ovidio.
Nel XIV libro delle ‘Metamorfosi di Ovidio’, Scilla era una ninfa di incredibile bellezza dai lunghi capelli corvini e gli occhi luminosi come stelle, la cui storia si intrecciò a quella di Glauco, un bellissimo pescatore della città di Antedone, in Beozia, dai lunghi capelli rossi, figlio di Poseidone.
Scilla abitava sulle sponde della Calabria, ma amava bagnarsi nelle acque cristalline di Messina.
Glauco era amato e corteggiato senza successo da molte sirene, finché un giorno, mangiando un’erba argentata cresciuta nei pressi di una spiaggia, il giovane si tramutò in un Tritone, diventando un semidio immortale del mare.
Al posto delle gambe ebbe una coda da sirena, le spalle diventarono sempre più larghe, le guance si ricoprirono di una peluria verde.
Un giorno, Glauco vide Scilla e se ne innamorò perdutamente ma la giovane, avendo paura di lui, lo respinse, nonostante i tentativi del semidio di sedurla, vantandosi della sua natura divina.
Continuando ad essere respinto, Glauco chiese aiuto alla maga Circe, dicendole di preparare una pozione magica che potesse fare bruciare Scilla d’amore verso di lui.
Ma Circe era innamorata di Glauco, e provò a dissuaderlo con delle parole:
“meglio sarebbe che tu vagheggiassi chi ti vuole,
chi ha gli stessi desideri ed è presa da uguale passione”.
La maga, quindi, si offrì a Glauco, il quale la rifiutò provocando la sua ira e il suo desiderio di vendetta.
Però, invece di vendicarsi sul semidio, diresse la sua ira verso l’innocente Scilla, che non aveva nessuna colpa.
Quindi, la maga preparò una pozione magica che versò nelle acque in cui Scilla nuotava, tramutandola in un mostro con le teste di sei cani attorno alla vita e con tre file di denti.
La fanciulla, per l’orrore che ebbe di sé, si nascose in una grotta sottomarina sulle sponde calabre, dove secondo la leggenda ancora vive.
Secondo Esiodo, un antico poeta greco del VII sec, Scilla era la figlia di Ecate, la quale era associata alla Luna, agli Inferi e, soprattutto, ai feroci segugi.
Invece Omero, la descrive come figlia di Crataide e del Dio del mare Forco, anche se potrebbe trattarsi di Tifone, Tritone o Tirreno, tutte figure legate al mare.
Successivamente, in altre narrazioni Scilla era una bellissima umana mortale, che aveva relazioni con Poseidone, Minosse re di Creta e il Dio del mare Glauco, fino a quando per gelosia venne trasformata dalla maga Circe, o dalla ninfa del mare Anfitrite, consorte di Poseidone, in un mostro.
La fanciulla venne colta di sorpresa nella sua piscina e, quando le erbe magiche furono gettate nelle acque, si trasformò nell’orrenda creatura.
Le zampe scomparvero e, al loro posto, comparvero terribili cani dai denti aguzzi che abbaiavano.
Queste bestie erano pronte a lacerare qualunque cosa fosse alla loro portata.
Scilla, la cui parte superiore era rimasta intatta, assistette con orrore alla sua trasformazione.
Così Scilla venne trasformata in un mostro con dodici zampe e sei teste che spuntavano da varie parti del corpo, ciascuna con tre feroci file di denti, così che il suo morso fosse decisamente peggiore della sua corazza.
I cani la trascinarono via, si fermarono solo quando arrivarono sulla costa italiana che domina la Sicilia, dove era destinata a rimanere, nascosta in una grotta, costretta a divorare i marinai che si avventuravano nello Stretto di Messina.
Abitando in una caverna in alto nelle scogliere dello stretto, Scilla attendeva che prede ignare, ovvero pesci, delfini e uomini, le passassero davanti e poi lanciava una delle sue teste, per trascinare la vittima nella sua tana, per schiacciarla e mangiarla a piacere.
“Nessuno poteva guardarla con gioia, nemmeno un dio se passava di lì. Ha dodici piedi, tutti penzolanti nell’aria, e sei lunghi colli magri, ognuno dei quali termina in una testa macabra con tripla fila di zanne, fitte e fitte, e cupamente minacciose di morte. Fino alla cintola è sprofondata nel fondo della caverna, ma le sue teste sporgono dal pauroso abisso, e così pesca dalla propria dimora, brancolando avidamente intorno alla roccia”.
-Odissea , 12:87-95-
La rupe su cui Scilla vive:
“La sua cima affilata… è ricoperta da nuvole nere che non scorrono mai via né lasciano il tempo sereno intorno alla cima, anche in estate o al tempo del raccolto. Nessun uomo sulla terra potrebbe salire in cima o anche solo mettervi piede, nemmeno se avesse venti mani e piedi per aiutarlo, perché la roccia è liscia come se fosse stata levigata. Ma a metà della rupe c’è una caverna oscura, rivolta a ovest e che scende verso Erebus… Neppure un forte giovane arciere potrebbe raggiungere l’imboccatura spalancata della caverna con una freccia scagliata da una nave sottostante… Nessun equipaggio può vantarsi di aver mai navigato la loro nave oltre Scilla indenne … Scilla non è nata per la morte: è una cosa del terrore, intrattabile, feroce e impossibile da combattere”.
-Odissea, 12:75-120-
Nel V secolo a.C.,Scilla apparve sulle monete di Cuma e di Acragas (l’odierna Agrigento) e su numerosi vasi di ceramica a figure rosse del V e IV secolo a.C.,soprattutto in quelli della ceramica attica e dell’Italia meridionale a figure rosse, ritratta come una specie di sirena con teste di cane che escono dalla sua vita.
Fu così che Scilla si ritrovò per caso con Cariddi, sua compagna di continue stragi di marinai.
Le due condividono un triste destino ed una storia.
Cariddi era una ninfa figlia di Poseidone e Gea, bella e graziosa, ed era famosa per possedere una smisurata ingordigia, golosa ed insaziabile.
La ninfa era però anche incline ai furti e così, un giorno, rubò a Ercole una mandria di buoi, che lui aveva precedentemente e “a fatica” rubato a Gerione, per compiere la sua decima fatica.
Ercole, figlio di Zeus, si adirò con lei e, per vendicarsi. invocò suo padre il quale, per punirla del suo gesto, le scagliò addosso un fulmine e la gettò nelle acque dello Stretto di Messina.
Una volta nell’abisso, Cariddi fu trasformata in un mostro simile a una lampara, che per tre volte al giorno ingurgitava acqua salata e altrettante volte la rigettava, creando vortici e forti correnti, capaci di affondare qualsiasi nave.
Cariddi prese come residenza una grotta, di fronte a quella di Scilla, compagna delle sue continue stragi di marinai e, mentre quest’ultima schiacciava nelle sue fauci gli incauti uomini, Cariddi li ingoiava e li respingeva con un possente ruggito.
Chiunque attraversava lo Stretto, era atteso da una tragica fine.
Un’altra versione racconta che, invece, la ninfa fosse una creatura libidinosa, oppure che, molto tempo fa nacque una bellissima naiade dal grande Dio del mare, Poseidone.
Il suo nome era Cariddi ed amava e ammirava suo padre con tutto il cuore.
E così, quando Poseidone entrò in guerra con il grande Dio Zeus e scatenò grandi tempeste, Cariddi cavalcò le maree, portando l’acqua sulle spiagge.
In questo modo, il mare inghiottì villaggi, campi, foreste e città, rivendicandoli per Poseidone.
Dopo un po’ di tempo, Cariddi aveva conquistato così tante terre per il regno di suo padre, che Zeus si arrabbiò con lei.
Giurò di fermarla per sempre e, per fare questo, la trasformò in un mostro dalla grande bocca spalancata, mentre le sue braccia e le sue gambe divennero pinne.
Da quel momento, Cariddi fu costretta a vivere in una grotta sotto un fico solitario su un’isoletta nello Stretto di Messina.
Tra coloro che si scontrarono con i mostri c’era il grande Odisseo (Ulisse).
Nell’Odissea di Omero, le acque vorticose di Cariddi fecero naufragare la nave dell’eroe Ulisse, mentre tornava a casa dalla guerra di Troia.
Appena sopravvissuta alle sirene, la nave, nel tentativo di evitare Cariddi, si avvicinò un po’ troppo alla tana di Scilla.
I sei migliori membri dell’equipaggio di Ulisse furono afferrati dalle sei teste di Scilla, mentre attraversavano le acque turbolente dello stretto.
La nave oltrepassò le vittime ancora urlanti e riuscì a superare il passaggio, ma la fuga fu solo temporanea.
Sbarcati in Sicilia, gli uomini di Ulisse ignorarono le rigide tradizioni locali e cucinarono del bestiame sacro, che apparteneva a Iperione.
Come punizione, Zeus mandò quindi una tempesta e uno dei suoi fulmini, che fracassò l’albero, uccise il timoniere mentre cadeva.
La nave fece naufragio, l’equipaggio annegò e solo Ulisse sopravvisse, legando insieme pezzi di relitti.
Però, arrivò un’altra tempesta e trascinò l’eroe a Cariddi, dove fu sballottato, finché riuscì a scappare aggrappandosi al ramo sporgente di un fico selvatico.
Quindi, egli programmò la sua fuga, aspettando che le acque lo vomitassero fuori e lo portassero al sicuro insieme al relitto della sua nave.
Finalmente, dopo nove giorni alla deriva, la fortuna dell’eroe era cambiata!
Questo mito è sicuramente l’interpretazione antropomorfica delle due correnti che si incontrano nello Stretto di Messina, prodotte dal Mar Ionio e dal Mar Tirreno, rispettivamente una più calda e l’altra più fredda.
Questo incontro provoca il fenomeno dei cosiddetti “Gorghi dello stretto”, che altro non sono che gorghi nell’acqua che ricordano le tre bocche di Cariddi.
La combinazione di Scilla e Cariddi ha dato origine a un vecchio detto di “trovarsi tra Scilla e Cariddi“, un detto che si è evoluto nell’idioma più popolare, “tra l’incudine e il martello“, entrambi equivalenti a pericoli in qualsiasi direzione vengano affrontati .
Questa è una meravigliosa leggenda su un vero e proprio pericolo, che ci hanno tramandato navigatori e marinai un tempo terrorizzati…
Ancora oggi i mostri marini rimangono un terrore per tutti i marinai di passaggio e le fonti di molti racconti.
Certo, ora siamo più tranquilli, ma i veri uomini e le vere donne di mare comprendono il pericolo che si nasconde sotto l’acqua, lontano dalla vista, ma mai veramente lontano dalla mente.
Fate attenzione…
**Specie di Drimia che prende il nome dalla leggenda
“Quando ho visto per la prima volta il Monte Shasta
sopra le pieghe intrecciate della Sacramento Valley,
il mio sangue si è trasformato in vino
e da allora non mi sono più stancato.”
— John Muir, 1874 —
Con i suoi 4.321,8 metri, Mount Shasta, situato nel sud della Catena delle Cascate, nella contea di Siskiyou in California, sembra voler toccare il cielo.
Quinta vetta più elevata dello Stato, è uno stratovulcano, ovvero un vulcano a forma conica, formato dalla sovrapposizione di vari strati di lava solidificata, pomice e ceneri vulcaniche e caratterizzato da pendii piuttosto ripidi (fino a 45°) e da periodiche eruzioni di tipo esplosivo.
Ma il Monte Shasta, in realtà, “tace” dal 1786, anche se non è detto che lo faccia per sempre.
Per migliaia di anni, i Nativi americani delle tribù Shasta, Klamath, Pit, Modoc e Wintu hanno utilizzato le abbondanti risorse naturali dell’area del Monte Shasta.
Intorno al 1820 arrivarono i primi Europei, accodati ai cacciatori che vi erano andati per gli animali da pelliccia. Argento e Oro portarono i minatori in quest’area, dopo il 1851 e, quando la ferrovia pose i binari attraverso Strawberry Valley nel 1887, iniziò l’industria del legname.
Oggi, gli amanti dell’outdoor, dagli appassionati di sport estremi ai vacanzieri in famiglia e ai pensionati, godono delle vaste opportunità ricreative che la regione del Monte Shasta ha da offrire.
Ma questo magnifico monte, veramente eccezionale da guardare, non è solo famoso per sua bellezza, in realtà è sempre stato oggetto di un numero insolitamente elevato di miti e leggende.
Il Monte Shasta è un magnete: i viaggiatori non vanno lì solo per ammirare la sua statura, o per sfruttare il relax e lo svago che offre, tanti rimangono in balia della sua costante maestosità innevata e da tutti i segreti che cela.
Molto tempo fa, gli Indiani nativi americani lo consideravano un luogo sacro e, per la maggior parte delle persone, oggi lo è ancora.
Migrando da una fonte di cibo all’altra, varie tribù indiane usavano Shasta come punto cardinale.
In piedi da solo, sentinella, faro, punto di differenza, qualunque sia l’aggettivo applicato, è una montagna infernale.
E’ impossibile non rimanerne attratti!
Scopriamone insieme qualche motivo…
IL MISTERO DEL BUCO
Circa 10 anni fa, è apparso un buco profondo circa 20 metri sul lato del Monte Shasta,
Sembrava che fosse stato scavato a mano di notte, usando un sistema di carrucole improvvisato per rimuovere la terra in eccesso.
Gli unici indizi lasciati dagli scavatori erano una scala, alcuni secchi e una bottiglia d’acqua di plastica.
Elijah Sullivan, un uomo cresciuto a Mount Shasta, un’antica città di disboscatori che si trova alla base della montagna, da cui ha preso il nome, è da circa un decennio che cerca di risolvere il mistero di questo buco gigante, cosa che ha dato vita ad un docu-film intitolato “The Hole Story”.
La montagna è sacra per la tribù Winnemem Wintu, originaria dell’area del fiume McCloud nella California settentrionale, ed il suo capo, Caleen Sisk si è detto preoccupato che i visitatori la stiano danneggiando
Quindi, una delle teorie di Sullivan si basa sul fatto, che qualcuno abbia scavato un buco gigantesco alla ricerca di manufatti dei Nativi americani.
Infatti, è risaputo che esiste un’enorme attività di saccheggio di artefatti di nativi americani, visto che, per secoli, tante tribù hanno abitato le pendici del Shasta, nonostante ciò sia reato.
Altri affermano, che gli scavatori stessero cercando l’oro e che qualcuno alla fine è stato perseguito per aver scavato il buco.
Il buco continua ad essere un mistero a distanza di anni, ma Sullivan perseguita nella sua ricerca di verità.
PERSONE SCOMPARSE
Nella contea di Siskiyou, ci sono casi di persone scomparse, che tuttora rimangono irrisolte.
= Dieci giorni prima del Natale del 2002, la 34enne Angie Fullmer, di Mount Shasta, messi sotto l’albero dei regali per le sue figlie, andò a fare un giro intorno al lago Siskiyou con il suo fidanzato.
La coppia iniziò a litigare, quindi lei scese dal camion dell’uomo e andò via.
Quasi subito l’uomo sentì sbattere la portiera di un’auto, quindi credette che qualcuno avesse dato un passaggio alla donna, per tornare a casa.
Dopo 12 ore, però, egli denunciò la scomparsa di Angie, la quale non è mai stata ritrovata.
= La quindicenne Hannah Zaccaglini fu vista l’ultima volta, mentre usciva da casa di un suo vicino, per tornare nella sua abitazione a McCloud, località alle pendici del Monte Shasta, la sera del 4 giugno 1997.
Lì non è mai arrivata e non è mai stata più vista.
La maggior parte degli effetti personali di Hannah sono stati lasciati a casa, compresi i vestiti, la borsa, i soldi, la spazzola per capelli, la ventiquattrore e il basso. Sebbene un padre e un figlio siano stati arrestati in relazione al suo omicidio nel dicembre 2012, le accuse sono state successivamente ritirate per mancanza di prove.
Il caso di Hannah Zaccaglini resta irrisolto.
= Al momento della sua scomparsa, Davohnte Morgan stava visitando Mount Shasta.
Fu visto l’ultima volta su un video di sorveglianza, mentre camminava sul Mt. Shasta Boulevard, la mattina del 5 maggio 2020.
La ragazza di Morgan riferì alla polizia, che avevano litigato il 4 maggio e si erano lasciati.
Il giorno dopo, la donna uscì dal suo hotel per una passeggiata e, mentre rientrava in stanza,raccontò sempre agli agenti, di aver superato Morgan, ma non si erano scambiati parola.
L’uomo non fu mai più visto né sentito.
Ancora oggi, c’è una ricompensa di $ 25.000, per chiunque possa fornire informazioni che portino a ritrovare Morgan.
= Sempre nell’area di McCloud, scomparve Karin Elizabeth Knechtel Mero la quale, in quel giorno del 15 febbraio 1997, aveva 27 anni.
Però, la sua scomparsa fu denunciata solo otto mesi dopo, in quanto le autorità ed i suoi genitori, inizialmente, credevano che Karin fosse fuggita spontaneamente, per evitare un mandato d’arresto nei suoi confronti.
Ma con il passare dei mesi senza sue notizie, la polizia e la sua famiglia iniziarono a preoccuparsi.
Anche perché, 3 anni prima la ragazza aveva subito un trapianto di fegato e doveva assumere dei farmaci che nessuno mai aveva richiesto.
Ciò portò le autorità a credere che fosse morta.
Il suo caso è spesso citato con quello di Hannah Zaccaglini, in quanto le due donne sono scomparse più o meno nello stesso periodo, vicino allo stesso luogo, ed avevano le stesse conoscenze e amicizie.
Ma questi sono solo alcuni dei casi di sparizioni irrisolte sul Monte Shasta.
CHAKRA
I nostri corpi rispecchiano la Terra, ma anche l’intero Universo.
La Terra sperimenta i centri energetici, come diversi livelli di coscienza, e così anche i nostri corpi.
Nel nostro corpo esistono sette centri energetici principali chiamati Chakra, ma anche sette nel Mondo.
Questi ultimi sette Chakra, Chiave della Terra sono:
I o della Radice (base della spina dorsale) – Monte Shasta, California
II o Sacrale (sotto l’ombelico) – Lago Titicaca, Sud America
III o del Plesso Solare (sopra l’ombelico) – Uluru-Katatjuta, Australia
IV o del Cuore (cuore )- Glastonbury Tor-Shaftesbury, Inghilterra
V o della Gola (gola)- Grande Piramide – Monte degli Ulivi
VI o Terzo Occhio (base superiore del naso) – Kuh-e Malek Slah, Iran
VII o della Corona (parte superiore della testa) – Monte Kailas, Tibet
Quindi, il Monte Shasta detiene la posizione di primo, della Radice o Chakra di base del Mondo.
Testimonianze raccontano di sensazioni di leggerezza, di profonda connessione, come se, da un momento all’altro, Esseri mistici possano apparire da dietro questa gigantesca roccia.
E ancora di una sensazione di travolgente pace, vicino alle sorgenti di acqua pura del fiume Sacramento situato alla base del Monte Shasta.
Questo è davvero un posto molto speciale.
LEMURIA
Si narra, e si crede, che il Monte Shasta ospiti Lemuria un’antica civiltà segreta abitata dai discendenti di quelli che vengono chiamati i Lemuriani.
Essi sono persone presumibilmente dotate di capacità tecnologicamente avanzate, e si dice che siano stati i primi umani sulla Terra, e che vivevano in un continente sommerso perduto, noto come Lemuria.
Inoltre possiedono un organo delle dimensioni di una noce, che sporge dalla loro fronte e presumibilmente li impregna di vasti poteri psichici come ESP, telecinesi, telepatia, capacità di apparire e scomparire a piacimento ed il potere di influenzare le menti degli altri.
La storia narra che, quando il loro continente affondò a causa di un non meglio specificato evento apocalittico e cataclismico, che secondo alcuni fu lo stesso che affondò la più nota Atlantide, e che per altri è il Diluvio Universale, questo popolo si rifugiò nelle viscere di Mount Shasta.
Questa convinzione nasce da un libro intitolato ‘A Dweller on Two Planets’, scritto da Frederick S. Oliver nel 1899, il quale narra la sua storia…
Nell’estate del 1883, l’adolescente Frederick aiutò la sua famiglia a segnare i confini della loro terra, come da richiesta per l’estrazione mineraria, che prevedeva di piantare pali di legno nel terreno, e quindi segnare la loro posizione su un taccuino.
Ad un certo punto durante questo arduo compito, la mano di Frederick iniziò a tremare e ad avere convulsioni in modo incontrollabile, per poi scrivere cose apparentemente di sua spontanea volontà.
Il ragazzo corse a casa in preda al panico, la sua mano continuava ad agire di propria iniziativa, scrivendo febbrilmente per tutto il percorso, come se avesse una mente propria e, appena arrivò sua madre, gli diede altra carta su cui scrivere.
Frederick, anzi la sua mano, continuò a scrivere, e scrivere, e scrivere, scarabocchiando sul foglio.Quando finalmente si placò, si rivelò come l’inizio di un testo.
Nei tre anni successivi, la mano di Frederick veniva occasionalmente sopraffatta da questa forza misteriosa, scrivendo diverse pagine qua e là, finché finalmente nel 1895 completò un intero libro, che raccontava e descriveva l’esistenza di una città segreta della Lemuria sul Monte Shasta e la sua storia.
Il ragazzo continuò, affermando di essere stato scelto dai Lemuriani come loro segretario, e che l’intero libro era stato incanalato telepaticamente attraverso di lui e sulla carta tramite la scrittura automatica.
Frederick affermò anche di essere stato portato astralmente nella città stessa e di averla vista con i propri occhi, descrivendola come se si trovasse nelle profondità della montagna e comprendesse vasti labirinti di tunnel illuminati con porte automatiche segrete, elegante architettura e appartamenti placcati d’oro e tappezzati di una lussuosa sostanza soffice.
In effetti, secondo Frederick, l’intera città era generosamente addobbata di scintillanti cristalli, oro, argento, bronzo e pietre preziose, il tutto alimentato da energie cristalline, brillantemente illuminato ed era inaccessibile agli estranei, senza l’espresso invito degli stessi Lemuriani.
In questa fantastica città abbondava l’alta tecnologia, con numerose menzioni di vari incredibili gadget e veicoli impiegati dai residenti della città, compresi grandi dirigibili a forma di sigaro che sfrecciavano e si libravano sopra di loro.
Questo libro, in realtà, era piuttosto rivoluzionario e in anticipo sui tempi quando fu pubblicato, facendo menzione dettagliata di nozioni concettuali così elevate come la meccanica quantistica, l’antigravità, il transito di massa e l’energia del punto zero, che chiamava “energia del lato oscuro”, tutti concetti estremamente unici e prematuri all’epoca.
Purtroppo, lo scrittore morì nel 1899 all’età di 33 anni, ma il suo bizzarro libro fu finalmente pubblicato nel 1905 da sua madre, Mary Elizabeth Manley-Oliver.
Al momento della pubblicazione, il libro di Frederick Oliver divenne istantaneamente un classico dell’occulto ed una fonte apertamente riconosciuta per molti sistemi di credenze, sette e culti New Age.
Generò anche un sequel intitolato ‘An Earth Dweller’s Return’, ma non fu certamente l’ultima menzione letteraria della strana città perduta dei Lemuriani sul Monte Shasta.
Infatti, da quel momento in poi, la fama e gli scritti su questo misterioso luogo non si sarebbero più potuti contare.
Tra i vari racconti che si facevano, sul Monte Shasta, ce n’è uno interessante del 1932, di un certo signor Edward Lanser, il quale stava passando mitico Monte su un treno, quando vide l’intero lato meridionale della montagna prendere vita, di una strana illuminazione rosso-verde brillante, quasi accecante.
Quando chiese al capotreno cosa avesse visto, gli fu assicurato che era opera dei Lemuriani.
Il perplesso Lanser in seguito indagò ulteriormente sulla strana luce, chiedendo alla gente delle città della zona cosa avesse visto.
Gli fu risposto che c’era una misteriosa comunità di persone, che viveva all’interno della montagna, nota per eseguire rituali mattina e sera, che faceva uso di strane fonti di luce brillante.
Probabilmente Lanser aveva assistito ad un rito conosciuto come la “Cerimonia di adorazione a Guatama”.
Si suppone che “Guatama” fosse la parola Lemuriana per “America”, e che la cerimonia celebrasse l’arrivo dei loro antenati nel continente, dopo che la loro civiltà era stata tragicamente inghiottita sotto le onde.
I Lemuriani erano noti per scendere dal loro segreto regno di montagna in città di tanto in tanto, e che avessero un fisico “torreggiante” e dall’aspetto strano, abbigliati con le loro vesti bianche e a piedi nudi, che compravano enormi quantità di zolfo, sale e strutto, e che pagavano sempre in pepite d’oro, che superavano di gran lunga il valore della merce.
Quando Lanser manifestò la volontà di salire sulla montagna e trovare questi Lemuriani, oltre alla fonte di luce che aveva visto, venne ridicolizzato, gli venne impedito di attuare ciò e le sue speranze di trovare la città furono deluse irrimediabilmente.
Invece nel 1940, il professor Edward L. Larkin del Mt. Lowe Observatory, affermò di aver a lungo osservato la mistica città, attraverso il suo telescopio in diverse occasioni.
Larkin aveva scoperto la città per caso, mentre stava calibrando il suo telescopio e aveva visto qualcosa che brillava in modo anomalo sulla montagna.
Trovando che ciò fosse strano, si concentrò quindi sull’oggetto e scoprì che si trattava di un enorme tempio in “stile orientale”, che descrisse come “un’opera meravigliosa di marmo scolpito e onice che rivaleggia in splendore architettonico con la magnificenza dei templi dello Yucatan”.
Il professore in seguito raccontò di aver visto anche altri templi sul fianco della montagna, alcuni dei quali replicavano lo stile greco, con magnifiche colonne di marmo bianco splendente.
Spesso c’erano misteriose luci intense nelle ore serali, ed affermò che i templi e le luci provenivano dai discendenti del popolo Lemuriano.
Nel 1962, un articolo di Andrew Tomas raccontò di un incendio boschivo del ’31, che aveva devastato gran parte della montagna, e che si era bloccato grazie all’avanzare di una misteriosa nebbia, apparsa misteriosamente, che fermò il fuoco.
Il giorno dopo l’incendio, si scoprì che era rimasta una zona di demarcazione perfettamente chiara e curva, tra la terra carbonizzata e le aree non danneggiate.
La gente del posto disse che questo era opera dei Lemuriani, che proteggevano il loro dominio attraverso qualche magia tecnologica sconosciuta.
Anche in tempi attuali, si narra di vedere persone camminare lungo le pendici o per le strade cittadine delle città sul Monte Shasta, solo per scomparire improvvisamente come se non fossero mai stati lì, presumibilmente a causa delle loro capacità psichiche e della straordinaria abilità esperta nel mimetizzarsi con l’ambiente circostante.
Spesso sono solo intravisti con visione periferica (quando diciamo “ho visto con la coda dell’occhio”) e sfuggono a qualsiasi tentativo di individuarli direttamente.
A volte sono noti per apparire per aiutare gli agricoltori che sono caduti in disgrazia, utilizzando una sorta di tecniche agricole avanzate, che fanno rivivere il suolo come per magia.
Ma di questi racconti ne esistono a migliaia.
Abbondano anche le storie di persone che entrano effettivamente nella meravigliosa e ingioiellata città di Lemuria.
Un certo dottor M. Doreal affermò di essere penetrato nella tana di montagna dei Lemuriani, e di aver visto quella che descrisse come “un’enorme caverna lunga 20 miglia, larga 15 miglia e alta 2 miglia, illuminata da un gigantesco, ardente sole artificiale proprio al centro”.
Ancora un altro resoconto menziona un uomo che si addormentò sulla montagna solo per essere svegliato da un Lemuriano, che poi lo portò in una magnifica città lastricata d’oro.
Sebbene esploratori più moderni abbiano cercato di trovare il misterioso complesso sotterraneo Lemuria, la sua ubicazione, rimane il perenne dubbio, se sia mai realmente esistita.
Si continua a domandarsi, chi siano questi presunti Lemuriani, sopravvissuti di un continente perduto da tempo o Alieni?
Sono degli Esseri interdimensionali, oppure un gruppo di hippy accampati nel deserto?
Ma i resoconti sono veri?
Ciò che si sa, è che il Monte Shasta è stato a lungo circondato da miti e leggende, una vetta imponente e maestosa che ha attirato, e ancora attira, su di sé strane storie.
Insomma, cristalli di quarzo brillano e lastricano la strada per portare a Mount Shasta, circondata dalla sua nuvola di mistero.
Chiaroveggenti, sciamani, allineatori di Chakra, insegnanti di yoga, massaggiatori, scavatori di anime: tutti sono qui a causa della montagna.
Tutti sono attratti dalla sua reputazione di Portale diretto verso un’altra dimensione.
Che sia Lemuria, Atlantide, o qualsiasi altra cosa, Shasta è la porta d’ingresso di una casa mistica, in un quartiere alieno di realtà alternativa.
L’impulso di andare verso l’ignoto è molto più grande della paura di lasciare ciò che si conosce.
Alcuni combattono Shasta per tanto tempo, prima di non poterla più negare.
Dalla prima volta che se ne sente parlare e, soprattutto se si mettono gli occhi sul Monte Shasta, si capisce che non se ne potrà più fare a meno.
Se poni la domanda comune:
“Cosa ti ha portato al Monte Shasta?”
Possono esserci solo due tipi di risposta:
1) “Non lo so, so solo che devo essere qui”.
2) “La montagna mi ha chiamato”.
Mount Shasta ha un effetto trainante sul campo energetico, cose a cui non pensavi da una vita, potrebbero essere esposte e portate nella tua mente con tutta la loro forza. Vecchie ferite ed avvenimenti negativi potrebbero riversarsi nella tua mente con un livello molto maggiore di significato e chiarezza.
E’ come se la montagna volesse eliminare tutto ciò che non hai affrontato dal tuo passato.
Perché, esso prima deve essere sentito per conoscerlo, in modo che possa essere guarito.
E’ una sorta di catarsi.
Lo senti anche tu questo richiamo?
Glorioso Monte Shasta
Shasta! O Monte Shasta!
Quali segreti nascondi,
Cosa abita in quel tuo cuore,
Quale luce dimora?
Sotto le tue vette innevate così luminose
Quali benedizioni tieni,
Quale conoscenza custodisci così bene
Da coloro che cercano di audacia?
Penso di sentirti parlare con me
Dalle tue pure altezze lassù.
Sento e sento la tua risposta ora;
“C’è solo un modo: attraverso l’Amore!”
“Per chi conosce bene quella
‘Presenza’ e la vive, inoltre,
I miei segreti sono un libro aperto,
A lui non ho nulla da nascondere.
“Impara bene che la chiave d’oro della vita,
Apre ogni serratura;
Con essa puoi spalancare la mia porta,
Perché l’amore non ha mai bisogno di bussare.
“O figli della Terra che cercate più Luce,
Imparate prima il Grande Comando dell’Amore!
Versate i Suoi Flussi d’oro curativi,
E rimarrete nel mio Cuore.”
-Godfre Ray King-
“By the lost town of Dunwich
The shore was washed away
They say you hear the church bells still
As they toll beneath the waves”
“Nella città perduta di Dunwich
La riva è stata spazzata via
Dicono che senti ancora le campane della chiesa
Mentre suonano sotto le onde”
-Al Stewart, “The Coldest Winter in Memory”-
Ci sono molti posti in Gran Bretagna, che si dice possano appartenere alla mitica Atlantide.
Si presume, addirittura, che le stesse isole britanniche potrebbero essere il fondamento del Regno di Atlantide.
Uno dei racconti più interessanti riguarda Dunwich, sulla costa del Suffolk.
Non tutti hanno mai sentito parlare di Dunwich, perché non ne è rimasto molto.
Tuttavia, 800 anni fa era paragonabile a Londra ed alle prime 10 città della Gran Bretagna.
Dunwich era un piccolo villaggio a 13 miglia a sud di Lowestoft, il punto più orientale della Gran Bretagna continentale, il cui porto si trova a più di 10 metri sotto le onde.
Nel periodo anglosassone, Dunwich era la capitale del Regno di East Angles, o East Anglia, e commerciava con i porti di tutto il Mare del Nord, soprattutto della Germania e dei Paesi Bassi.
C’erano 10 chiese parrocchiali, un piccolo monastero, due conventi, due ospedali (istituzioni religiose) e una casa dei Cavalieri Templari.
Contava oltre 3.000 persone, quando il Domesday Book (manoscritto che raccoglie i risultati di un grande censimento completato nel 1086, riguardante la maggior parte dell’Inghilterra e parte del Galles) fu compilato nel 1086.
Il 1 gennaio 1284, Dunwich fu colpita da una terribile tempesta, che provocò un effetto simile a uno tsunami e spazzò via molti degli edifici, opere portuali e inondò il terra.
Altre due ondate distruttive la colpirono nel 1285 e le peggiori arrivarono nel 1287, quando almeno due “tempeste del secolo” colpirono la città.
Questa carneficina fu sufficiente per vedere il porto, un tempo fiorente, iniziare una lunga strada di declino.
Una tempesta nel 1328 spazzò via completamente il vicino villaggio di Newton e la fine fu davvero vicina il 16 gennaio 1362, quando arrivò la seconda, la leggendaria “Alluvione di San Marcello”, o “Grote Mandrenke”.
Questa tempesta uccise 25.000 persone nel sud-est dell’Inghilterra e nei vicini Paesi Bassi e cambiò in modo permanente le caratteristiche geografiche delle coste.
A Dunwich, 400 case furono distrutte insieme al porto, mentre il fiume cambiò permanentemente il suo corso verso il mare.
Con il suo centro commerciale in rovina, le risorse per le difese del mare si concentrarono lungo la costa e l’erosione costiera si intensificò, con il clima che si raffreddava e si entrava in quella che è conosciuta come la piccola “Era glaciale” (periodo della storia climatica della Terra, che va dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo, in cui si registrò un brusco abbassamento della temperatura media terrestre) .
In seguito, con la riduzione della popolazione, Dunwich divenne un Rotten Borough, ovvero un distretto parlamentare con poche persone, riuscendo a mantenere il diritto di avere 2 membri in Parlamento fino al Reform Act del 1832.
“The Dark Heart of Dunwich” è un pezzo del folklore del Suffolk, la cui leggenda narra di come Eva, una fanciulla di Dunwich, destinata a sposare il figlio di un proprietario terriero locale, si fosse invece innamorata di un bel mascalzone del villaggio, che l’aveva conquistata per poi abbandonarla, scappando per mare.
Dopo aver atteso invano il ritorno del suo amore perduto, Eva si strappò il cuore e lo scagliò in mare.
Tuttavia, secondo la leggenda, non riuscì a morire e infesta ancora la zona, in particolare intorno alla spiaggia, dove la terra incontra il mare.
Si racconta che il cuore stesso, che si crede sia simile nell’aspetto a un cuore di legno, si bagni occasionalmente e porti grandi disgrazie a chiunque lo raccolga.
Gli edifici del XIII secolo di Dunwich ora appartengono purtroppo al mare, comprese otto delle sue chiese.
La leggenda locale narra che in determinati orari e maree, le campane della chiesa possono ancora essere sentite suonare da sotto il mare.
Ciò che si trova ancora oggi a Dunwich sono i resti di Greyfriars, un priorato francescano e il Lebbrosario di St James.
Oggi il villaggio ha una popolazione stimata di 183 anime.
Recentemente sono state fatte molte ricerche, sia con la bassa marea che con dispositivi sonar subacquei, che hanno mappato le strade e gli edifici di Dunwich, come erano un tempo.
Dunwich merita sicuramente una visita.
Il giorno 8 aprile 2021, una missione archeologica egiziana ha annunciato la scoperta di Aten, una “Città d’Oro perduta” di 3000 anni fa, nella ricca città di Luxor, nella Valle dei Re in Egitto.
Una missione egiziana, guidata dal famoso archeologo egiziano Zahi Hawass, in collaborazione con il Consiglio supremo delle antichità egiziane, ha trovato la città che si era persa sotto la sabbia.
La città era conosciuta come “The Rise of Aten” (l’Ascesa di Aten), risale al regno di Amenhotep III e a quello di suo figlio, Amenhotep IV, noto anche come Akhenaton, e fu governata anche da Tutankhamon.
L’archeologo Hawass ha definito la scoperta, come la più grande città mai trovata in Egitto, in quanto è stata fondata da uno dei più grandi sovrani dell’Egitto, il re Amenhotep III, nono re della XVIII dinastia, che governò l’Egitto dal 1391 al 1353 a.C.
Amenhotep III ereditò un impero che si estendeva dall’Eufrate al Sudan, e morì intorno al 1354 a.C.
E’ interessante sapere anche, che la scorsa settimana, l’Egitto ha trasportato i resti mummificati di 18 antichi re e quattro regine attraverso Il Cairo, dal Museo Egizio al nuovo Museo Nazionale della Civiltà Egizia, con una processione soprannominata la “Parata d’oro dei Faraoni”.
Tra i 22 corpi c’erano quelli di Amenhotep III e di sua moglie la regina Tiye.
Aten era il più grande insediamento amministrativo e industriale dell’Era dell’impero egiziano sulla riva occidentale di Luxor, e la missione ha portato alla luce alcune delle strade della città che sono fiancheggiate da case, con muri alti fino a 3 metri.
Molte missioni internazionali hanno cercato questa città e non l’hanno mai trovata, mentre la missione egiziana ha iniziato a lavorare alla scoperta nel settembre 2020, trovando una città ben conservata con mura quasi complete e con stanze piene di strumenti della vita quotidiana.
L’area di scavo è inserita tra il tempio di Ramses III a Medinet Habu e il tempio di Amenhotep III a Memnon.
Dopo sette mesi di scavi, sono stati scoperti diversi quartieri, tra cui un panificio completo di forni e vasellame, oltre a distretti amministrativi e residenziali.
Nella parte meridionale della città, la missione ha trovato un panificio, un’area di cottura e preparazione dei cibi completata con forni e deposito di vasellame.
Anelli, scarabei, vasi di ceramica colorata e mattoni di fango, recanti i sigilli del cartiglio del re Amenhotep III, sono trovati durante la scoperta, confermando la datazione della città.
La missione ha anche portato alla luce molti strumenti utilizzati nella filatura, nella tessitura e nelle scorie per la produzione del vetro.
Si presume che la seconda parte della città, ancora in parte coperta, fosse il quartiere amministrativo e residenziale con unità più ampie e ben disposte, essendo recintato da un muro a zig-zag, con un solo punto di accesso, che conduce a corridoi interni e aree residenziali.
Oltre agli elementi strutturali, sono presenti anche sepolture rinvenute all’interno delle mura cittadine.
Infatti, sono state portate alla luce due insolite sepolture di animali, mucca o toro, insieme ai resti di una persona, trovata con le braccia tese di lato e una corda a brandelli avvolta attorno alle ginocchia.
A nord dell’insediamento, è stato scoperto un grande cimitero, la cui estensione deve ancora essere determinata.
“La scoperta di questa città perduta è la seconda scoperta archeologica più importante dalla tomba di Tutankhamon”, ha dichiarato Betsy Bryan, professoressa di arte egizia e archeologia alla Johns Hopkins University di Baltimora.
“La missione prevede di scoprire tombe incontaminate piene di tesori”.
Inoltre, il team degli archeologi del prof. Hawass ha dichiarato che questo sito è rimasto “intatto per migliaia di anni, lasciato dagli antichi residenti come se fosse ieri”.
“Voi che entrate qui, considerate ciò che vedete e poi ditemi
se tante meraviglie sono fatte per l’inganno o per l’arte”
-Sfinge all’entrata-
Bomarzo, chiamato anche il Sacro Bosco, il Parco dei Mostri o anche Giardini di Bomarzo , è un complesso monumentale manierista, situato nella località di Bomarzo, in provincia di Viterbo.
E’ il più antico parco di sculture del mondo moderno.
Esso, creato nel corso del XVI secolo, è situato in un fondovalle boscoso sotto il Castello degli Orsini, ed è popolato da sculture grottesche e piccoli edifici immersi nella vegetazione naturale.
Il nome del parco deriva dalle numerose sculture gigantesche, che popolano questo paesaggio prevalentemente arido.
Il materiale scelto per le sculture, il basalto, è largamente disponibile in quest’area del Lazio.
Sulle statue, alcune direttamente scolpite nella roccia, si trovavano frequentemente delle incisioni sibilline che, purtroppo, in buona parte sono difficilmente leggibili.
Quest’opera fu commissionata da Pier Francesco Orsini, detto Vicino, un condottiero e mecenate del XVI secolo, molto devoto alla moglie Giulia Farnese.
Quando la moglie di Orsini morì, egli creò i giardini per far fronte al suo dolore.
Il progetto è attribuito a Pirro Ligorio, mentre le sculture a Simone Moschino.
Durante il XIX secolo, e fino al XX, il giardino rimase ricoperto di vegetazione e trascurato.
Dopo che il pittore spagnolo Salvador Dalì realizzò un cortometraggio sul parco, e completò un dipinto in realtà basato sul Bosco di Bomarzo negli anni ’50, la famiglia Bettini realizzò un programma di restauro, durato per tutti gli anni ’70, integrando, all’interno del Tempio, una lapide dedicata a Tina Severi Bettini.
Oggi il giardino, che rimane proprietà privata, è una grande attrazione turistica.
Tra le varie opere, troviamo:
–La Casa Pendente: dedicata al cardinale Cristoforo Madruzzo, amico di Orsini e di sua moglie. Si tratta di un piccolo gioiello d’architettura rinascimentale, che sembra voler simboleggiare la sensazione di vertigine provocata dalla caduta delle sicurezze morali sociali. Caduta, che l’iniziato deve in un certo senso “sopportare”, per continuare il cammino verso la verità. Infatti, le sue convinzioni barcolleranno ma, proprio nel saper affrontare un simile stato d’animo, sta il superamento di questo stadio purificatorio.
–Il Tempio dell’Eternità: memoriale di Giulia Farnese, situato in cima al giardino, un edificio ottagonale con un misto di generi classici, rinascimentali ed etruschi. Attualmente ospita le tombe di Giovanni Bettini e Tina Severi, i proprietari che hanno restaurato il giardino nel Novecento.
–Cerbero
–Afrodite
–Un drago attaccato dai leoni
–L’ elefante di Annibale cattura un legionario romano
E tante altre meraviglie che non ho intenzione di descrivervi, perchè “dovete andarci di persona”, appena finalmente saremo liberi di viaggiare.
Tanti anni fa, ho avuto la fortuna di visitare il Sacro Bosco.
Ero in viaggio per lavoro, e mi fu detto che avrei ricevuto una sorpresa.
Mai avrei immaginato ciò che mi ritrovai davanti…
E’ stata l’emozione più magica della mia vita: sono stata letteralmente catapultata in un mondo fantastico, popolato di animali mitologici e giganteschi mostri di pietra, che incutono timore, sorpresa, meraviglia e riverenza.
E’ incredibile camminare in quel grottesco e surreale giardino delle meraviglie…
Le sue opere sono cariche di simbolismi, con continui riferimenti e rimandi alla mitologia ed al mondo del fantastico.
Aggrappata alla mano del mio principe, sono stata condotta attraverso un percorso fatto di grandi statue, edifici surreali, labirinti, iscrizioni ed indovinelli, che mi sorprendevano e mi disorientavano continuamente.
Ho camminato in un Regno del Sogno, tra richiami mitologici ed enigmi, tra statue di sirene, mostri marini, tartarughe giganti, satiri, sfingi, draghi, maschere, falsi sepolcri e giochi illusionistici.
Ciò che non riesco a dimenticare, è la Porta degli Inferi.
Camminavamo per mano in questa magia, fino ad arrivare ad una radura, che ospitava figure incredibili, quanto enigmatiche.
Nettuno disteso, un magnifico drago che assaltava la sua preda, un elefante che stritolava un guerriero, un balcone contornato da coppe recanti sentenze ermetiche.
E, sullo sfondo, la visione spaventosa e magica dell’Orco, la scultura più nota del parco.
Il Mascherone, che sarebbe la “Porta degli Inferi”, sembrava cambiare sembianze, a seconda dell’ora e della luce…
In alcuni momenti, arrivava a deformare la propria stessa espressione, mentre le sue fauci spalancate mi facevano entrare in una stanza angusta.
Parlando al suo interno, le nostre voci assumevano distorsioni curiose e fiabesche, a causa della conformazione della struttura scavata nel tufo.
Ho ancora impressa nella mente, la frase scolpita sulle labbra del mostro:
«Ogni pensiero vola»
Infatti, quando entrerete nel magico Sacro Bosco di Bomarzo, abbandonate la ragione, seguite l’intuizione, la malìa, l’incantesimo.
Solo così potrete arrivare all’ultimo stadio del vostro percorso esoterico, il Tempio dell’Eternità, Vignola.
Esso sorge sulla sommità del parco, ma in diretta corrispondenza dell’ingresso di questo, come se tracciasse un ideale “anello magico”.
Qui sarete dominati dalla “sacra conoscenza”, che completerà questo vostro viaggio esoterico nei meandri della coscienza, donandovi, se avrete saputo decifrare il significato delle sentenze e delle metaforiche immagini, la più alta virtù, quella del “viver bene”, lontani dalla miseria dei vizi e dei capricci umani, protendendo l’anima verso l’estatica libertà dell’infinito e dell’eterno.
Nel Sacro Bosco di Bomarzo, l’uomo ritrova la sua essenza divina e può godere del Mondo in uno stato di pura contemplazione.
Per informazioni su modalità di visita, servizi ecc.: www.sacrobosco.it
“Delenda est Carthago”
-Catone il Vecchio, senatore romano-
La città di Cartagine (“città nuova”) fu fondata dai Fenici (Popolo rosso) nel IX secolo a.C. sulla costa dell’Africa nord-occidentale, nella zona che oggi è la Tunisia.
Era uno dei numerosi insediamenti fenici nel Mediterraneo occidentale, creati per facilitare il commercio dalla città di Tiro, sulla costa di quello che ora è il Libano, diventando una potenza indipendente commercialmente in tutto il Mediterraneo.
Gli interessi punici erano rivolti al commercio, piuttosto che all’arte, e Cartagine controllava gran parte del commercio occidentale del lussuoso colorante viola estratto dal guscio di Murice.
In epoca romana i letti, i cuscini e i materassi punici erano considerati un lusso e la falegnameria ed i mobili punici venivano copiati.
Gran parte del fatturato di Cartagine veniva dallo sfruttamento delle miniere d’argento del Nord Africa e del Sud della Spagna.
Entro la fine del VII secolo a.C., Cartagine, diventando uno dei principali centri commerciali della regione del Mediterraneo occidentale, dopo un lungo conflitto con la Repubblica Romana, fu da essa distrutta, con le famose Guerre Puniche, nel 146 a.C.
Sulle sue rovine, fu fondata una “Cartagine romana” che, però, fu distrutta (le sue mura furono abbattute, il suo approvvigionamento idrico interrotto e i suoi porti resi inutilizzabili), quando fu invasa dagli Arabi, alla fine del VII secolo.
Nacque Tunisi, come città principale, che si diffuse fino ad includere l’antico sito di Cartagine.
Le leggende nate intorno a Cartagine, assegnano la sua fondazione a Elissa, regina di Tiro, soprannominata Didone (amata).
Pompeo Trogo (storico romano del I sec. a.C.), racconta di intrighi di corte, in cui Pigmalione (fratello di Didone e nuovo re) uccise il sommo sacerdote Acharbas (marito di Didone).
Ella fuggì insieme con alcuni nobili verso ovest, in una flotta di navi cariche dell’oro reale.
A Cipro, moltissime fanciulle del tempio furono portate a bordo delle navi, che giunsero nell’Africa nord-occidentale, fondando Cartagine.
Poco dopo, Hiarbus (capo tribù locale dei Mauritani), cercò di sposare la regina appena arrivata.
Ma ella, piuttosto che disonorare la memoria del marito assassinato, si tolse la vita con la spada, gettandosi pubblicamente nel fuoco cerimoniale.
Da allora, è stata celebrata a Cartagine come una Dea.
In origine Cartagine era probabilmente una tappa sulla strada tra Tiro e la regione di Gadir, una fermata dove i marinai potevano attraccare le loro barche e rifornirsi di cibo e acqua.
Alla fine, sarebbe iniziato il commercio locale e sarebbero state costruite capanne; in seguito furono costruite case e magazzini più permanenti, poi fortificati, forse anche un santuario.
Tutto cambiò e si trasformò il giorno in cui la regina di Tiro, Didone arrivò con una flotta di navi, portando nobiltà e mercanti ben collegati, oltre al tesoro reale.
Il poeta romano Virgilio presenta Didone come un’eroina tragica, nel suo poema epico “Eneide” , in cui l’eroe Enea da Troia arriva a Cartagine.
L’opera contiene scene fantasiose, vagamente basate sulla storia leggendaria di Cartagine.
Per esempio, Enea, sulla rotta da Troia al Lazio, si fermò a Cartagine, dove ebbe una relazione con la regina.
Ma il Dio Giove chiese all’eroe Enea di lasciare la sua amata Didone che, quando scoprì che l’aveva abbandonata, si suicidò, bruciando in una pira funeraria, ma non prima di maledire Enea e i suoi discendenti.
Quindi, nell’Eneide, Virgilio fornisce un motivo per l’ostilità tra i Romani e Cartagine.
Questo episodio impiega non solo la storia o le leggende narrate da Trogo, ma forse anche successivi elementi mitici e di culto, poiché Didone sarebbe stata assimilata alla Dea punica o berbera Tanit.
Ogni autunno, veniva costruita una pira fuori dalla vecchia città di Cartagine, in cui si pensava che Tanit si gettasse nell’auto-immolazione, per amore del Dio della vegetazione morto Eshmun (Adone).
Gli abitanti di Cartagine erano conosciuti dai Romani come “Poeni”, una derivazione dalla parola Phoenikes (Fenici), da cui deriva l’aggettivo punico.
Cartagine soffrì molto per la Prima Guerra Punica e, quando Roma occupò le colonie cartaginesi della Sardegna e della Corsica, i Cartaginesi non poterono farci nulla.
Cercarono di sfruttare al meglio la loro situazione, espandendo le aziende in Spagna, ma entrarono di nuovo in guerra con Roma, quando Annibale Barca (condottiero e politico cartaginese) attaccò la città di Sagunto, un alleata di Roma in Spagna, nel 218 a.C.
La Seconda Guerra Punica fu combattuta in gran parte nell’Italia settentrionale, quando Annibale la invase provenendo dalla Spagna, facendo marciare le sue forze sulle Alpi.
Annibale vinse contro i Romani in Italia, con la sua più grande vittoria nella “Battaglia di Canne” ma, mancando di truppe e rifornimenti sufficienti, non poté sfruttare i suoi successi.
Alla fine fu prelevato dall’Italia e sconfitto dal generale romano Scipione l’Africano (Publio Cornelio Scipione Africano, politico e militare romano), nella battaglia di Zama, in Nord Africa, nel 202 a. C. e Cartagine chiese nuovamente la pace.
Posta, ancora una volta, sotto il peso della guerra da parte di Roma, Cartagine lottò per pagare il proprio debito, mentre cercava anche di respingere le incursioni della vicina Numidia, sotto il re Massinissa (sovrano berbero della Numidia).
Massinissa era stato alleato di Roma nella Seconda Guerra Punica e fu incoraggiato da Roma a razziare il territorio cartaginese a suo piacimento.
Cartagine entrò in guerra contro la Numidia e, così facendo, ruppe il trattato di pace con Roma, che vietava a Cartagine di mobilitare un esercito.
Cartagine sentì di non avere altra scelta, che difendersi dalle invasioni di Massinissa, ma fu censurata da Roma, che le ordinò di pagare un nuovo debito per la guerra contro la Numidia.
Cartagine però credeva di non aver più alcun debito con Roma, avendo già pagato in passato, ma Roma non era d’accordo.
Infatti, il senatore romano Catone il Vecchio concludeva tutti i suoi discorsi, indipendentemente dall’argomento, con la frase: “Inoltre, penso che Cartagine debba essere distrutta”.
E, nel 149 a. C., Roma decise proprio quella linea di condotta.
Un’ambasciata romana a Cartagine presentò un elenco di richieste, che includevano che Cartagine fosse smantellata e poi ricostruita nell’entroterra, annullando così tutti i benefici che si era conquistata nel commercio, grazie alla sua posizione geografica strategica.
I Cartaginesi rifiutarono, pertanto iniziò la Terza Guerra Punica.
Il generale romano Publio Cornelio Scipione Emiliano assediò Cartagine per tre anni, fino alla sua caduta.
Dopo aver saccheggiato la città, i Romani la bruciarono, senza lasciare una pietra sopra l’altra.
Secondo un mito moderno, le forze romane seminarono le rovine con il sale, in modo che nulla sarebbe mai più cresciuto lì, ma questa affermazione non ha alcun fondamento nei fatti.
Altri dicono che, invece, Scipione Emiliano pianse quando ordinò la distruzione della città e si comportò virtuosamente nei confronti dei sopravvissuti all’assedio.
Oggi Cartagine è un sobborgo residenziale della città di Tunisi, in Tunisia.
Il sito archeologico di Cartagine è stato aggiunto all’Unesco’s World Heritage List, nel 1979.
Sebbene la Cartagine romana sia stata distrutta, molti dei suoi resti possono essere ancora rintracciati, incluso il profilo di molte fortificazioni e un acquedotto.
Byrsa (“cittadella” in lingua fenicia) era la zona fortificata, probabilmente l’Acropoli, che si ergeva sull’omonima collina dominante l’antico porto di Cartagine.
La leggenda narra che, quando Didone e la sua scorta si accamparono a Byrsa, il locale capo berbero offrì loro un appezzamento di terreno, che potesse essere coperto da una pelle di bue.
Didone tagliò allora una pelle di bue in sottili strisce e le pose, una dietro l’altra, a formare un cerchio intorno alla collina di Byrsa.
Non si conosce la veridicità di questa storia, probabilmente è nata in quanto Byrsa ha un’assonanza simile al termine greco “bursa”, che significa “pelle di bue”.
L’area di Byrsa era adornata con un grande tempio dedicato a Giove, Giunone e Minerva, e vicino ad esso sorgeva un tempio ad Asclepio.
Inoltre, sul sito di Byrsa sorgeva un portico all’aperto, da cui sono sopravvissute le più belle sculture romane di Cartagine.
Ulteriori resti della città romana includono un Odeum (edificio dedicato a rappresentazioni musicali), un altro teatro costruito da Adriano, un anfiteatro modellato sul Colosseo romano , numerosi bagni e un circo.
Gli edifici cristiani, all’interno della città, sono quasi tutti bizantini.
La basilica più grande fu ricostruita nel VI secolo, sul sito di una precedente.
Le chiese probabilmente esistevano durante il III e il IV secolo, ma non ne rimangono tracce.
Parte della città cartaginese della metà del III secolo è stata scavata sulla collina di Byrsa.
Un tempo occupato dal tempio di un Dio cartaginese e poi dal Foro romano, ora è il sito di una cattedrale francese della fine del XIX secolo dedicata a Luigi IX, il re francese crociato morto a Tunisi nel 1270.
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